La dorata parmelia / Licheni

28 Gennaio 2018

Forse per un residuale tic scolastico della biologia mandata a memoria, li nominiamo sempre insieme: muschi e licheni. È vero, fanno parte dei vegetali cosiddetti inferiori, i più primitivi. Sono privi di organi riproduttivi visibili, quindi di fiori, tanto che Linneo li classificò tra le Crittògame; non hanno fusti, né vere foglie e radici, ma una struttura indifferenziata detta tallo, che li immette di diritto tra le Tallòfite, tassonomia oggi preferita. Da come il tallo aderisce al supporto che s’è scelto vengono anche le distinzioni morfologiche: licheni crostosi, fogliosi, fruticosi, composti. Ma, per il ripasso didattico basta così.

 

 

Va solo aggiunto che i licheni non hanno alcun bisogno di accompagnarsi ai muschi, anzi. Sono già una coppia di fatto, e ben consolidata, tra un fungo e un’alga. Questa offre le sostanze organiche necessarie al compagno, che ricambia il favore elargendole i sali minerali indispensabili.

 

Cladonia pyxidata

 

Entrambi possono anche vivere separatamente, ma l’associazione consente loro di produrre individui più resistenti e di maggiore adattamento, capaci di sopravvivere in condizioni proibitive per qualsiasi altro vegetale. Su questa loro peculiarità Primo Levi ha costruito una delle sue Storie naturali, un raccontino di «fantabiologia» (così li definì Calvino) dal titolo mezzo inventato Cladonia rapida. Qui, il lichene crostoso è un nuovo parassita «altamente specializzato» e di abnorme velocità di accrescimento, che infetta le carrozzerie delle automobili. Certo, quanto ad aggettivi i botanici, talora più fantasiosi di Levi, non sono da meno: tra le numerose specie hanno denominato Cladonia portentosa un lichene composto.

Ma in natura i licheni sono lenti, e vogliono sguardi pazienti, dedicati. L’inverno li mette in evidenza. Nelle altre stagioni, il troppo e il pieno di forme e colori ci distoglie dai più modesti licheni che, a ben vedere, hanno risorse persino estetiche notevoli. Chi li ha guardati con amore esclusivo, fino a diventarne uno studioso tra i più titolati a livello internazionale, è stato il poeta Camillo Sbarbaro. I suoi erbari di licheni sono conservati in sedi prestigiose, anche all’estero, e alcune nuove specie delle molte da lui catalogate portano il suo nome. 

 

Cladonia fimbriata

 

A dispetto di quel che ne scrisse Montale, ricordiamo un sonetto del suo primo e bistrattato libretto di poesie, Resine (1911). In Rustico sogno il poeta ci confida il suo parco desiderio di un casolare isolato, «affumicato e brutto», dove «… tutto/ la dorata parmelia il muro incrosta». Il verso dedicato a questo comune lichene foglioso (ma il più «festoso dei licheni») è citato dallo stesso Sbarbaro nel suo elogio – raccolto in Trucioli (1948) – di questa «minima parte del mondo». È una prosa che andrebbe riportata per intero perché è tra i più appassionati ritratti botanico-letterari. Ma siamo costretti a un prelievo altrettanto minimo:

 

 

il lichene prospera dalla regione delle nubi agli spruzzi del mare. Scala le vette dove nessun altro vegetale attecchisce. Non lo scoraggia il deserto; non lo sfratta il ghiacciaio; non i tropici o il circolo polare. Sfida il buio della caverna e s’arrischia nel cratere del vulcano. Teme solo la vicinanza dell’uomo.

Per questa sua misantropia, la città è la sola barriera che lo arresta. Se la varca, o va a respirare in cima ai campanili o, con la salute, ci rimette i connotati.

Il lichene urbano è sterile, tetro, asfittico. Il fiato umano lo inquina. A Roma, per trovare un lichene riconoscibile, bisogna salire sulla cupola di San Pietro.

Mette casa dovunque; ma, nella scelta del domicilio, ogni specie ha le sue preferenze. I più dei licheni abitano il legno o il sasso. Ma, tra i primi, chi elegge l’ulivo, chi il cipresso, chi il pino. Alcuni, di gusto più difficile, s’insedian solo su un albero loro proprio. Sul giuggiolo, sul sambuco.

Dello stesso albero, poi, chi abita le foglie, chi la corteccia, chi il legno; e, tra gli ultimi, chi il legno quando è vivo, chi quando è secco, chi quando è marcescente. 

[…]

 

Per dimensioni ci sono licheni come placche – che un uomo non abbraccia; come refe – che, dipanati, raggiungono il chilometro; come alberi – che arrivano all’anca.

E ne abbondano di minuscoli: c’è il lichene Virgola, il lichene Puntofermo, il lichene Asterisco. E ne esistono di così esigui che solo la lente li rivela. […]

Molti formano tetti d’embrici; molti, pavimenti: a tasselli triangolari, pentagonali, poligonali. Altri Vie lattee, sistemi stellari. Altri, penduli dai rami, barbe, criniere equine, capigliature assaloniche.

Un’intera tribù, le Grafidee, tappezza il sostegno di scritture indecifrabili. A caratteri minuscoli o maiuscoli, immersi o in rilievo: lineari, forcuti, cinesi, cuneiformi. Altri, le Calciee, visibili a stento a occhio nudo, si rivelano sotto la lente paesaggi fulminati, apocalittici, dove cobra eretti sulla coda fumano come tripodi dall’imbuto che han per il capo.

 

Ramalina fastigiata

 

Simula il lichene ogni sorta di manufatti: encausti, intarsi, trafori, mosaici; bissi e feltri; coppe, clave, aghi, fibbie, caschi, scudi, chiodi; fiammiferi; nastri, reti, flabelli; cuoi impressi; velluti e pizzi al tombolo.

Par fatto, in tutto o in parte, delle sostanze più disparate: d’amido e di farina; di lana e di porpora; d’oro, zolfo, ceralacca; di spugna, sughero, antracite; di pergamena, di guttaperca.

 

Verrucaria marmorea

 

E così via, in un tripudio elencatorio, anche delle policromie, che pare voler esaurire tutte le possibilità morfologiche. Fino alla conclusione paradossale: «il lichene è un enimma». Ma, in questa prosa Sbarbaro coglie con esattezza ciò che era «congeniale» al suo comporre erbari: «appagavo senza saperlo il “supino amore delle cose”», la «predilezione per le esistenze in sordina», gli scarti. Come ebbe a dire altrove, la passione durevole attecchita in lui per i licheni rispondeva a ciò che di più vivo aveva: «il senso della provvisorietà». Per gran parte della sua esistenza si era dato il compito di battezzarli, lui che a mala pena distingueva una magnolia da un pino. Questa la motivazione di democrazia (se non di carità) botanica: «Gli è che l’albero vive d’una vita tanto più piena e armoniosa della nostra, che dargli un nome è limitarlo; mentre gli incospicui e negletti licheni, a salutarli a vista per nome, pare di aiutarli a vivere». 

Nel suo repertorio poetico del Novecento, Franco Fortini – al solito incisivo – così definiva il ligure Camillo nella sua angustia: «Sbarbaro è subito al fondo, e di lì non si muove». Ma l’«estroso fanciullo», come lo ritrae in Epigramma un Montale più generoso, di quel fondo d’esistenza ci ha detto tutto. Anche i licheni che ci crescono. 

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