Pro e contro Milo Rau / La morte di Lenin a Berlino

Imbalsamare. Scomporre. Deformare 

 

“Siamo soggiogati dalle menzogne di cui noi stessi siamo gli autori. Nella sua disarmante semplicità questa idea può aiutarci a elaborare una critica dei linguaggi della politica e delle sue immagini”. È Carlo Ginzburg in Paura Reverenza Terrore (Adelphi, 2015) a mettere con forza l’accento sulla necessità di decodificare e poi smontare l’iconografia del potere, in tutta la sua ambiguità e tutta la sua “portentosa efficacia”.

Dagli stessi presupposti sembra prendere le mosse Lenin, il nuovo spettacolo che Milo Rau ha presentato alla Schaubühne di Berlino: una tappa del tutto coerente – ma non per questo prevedibile – del suo articolato percorso di indagine intorno ai meccanismi della rappresentazione. 

Lenin. L’icona della rivoluzione. Un volto su campo rosso, accanto a quelli di Marx ed Engels. Una salma intatta, esposta ancora oggi in una teca di vetro all’interno di un mausoleo.

 

Ph. Thomas Aurin.


L’intero spettacolo di Rau – che racconta le ultime ore prima della morte di Lenin – procede alla sistematica scomposizione di quelle immagini e del loro potere subliminale, agendo in due direzioni. Il primo livello, come sempre accade nelle creazioni di Milo Rau, viene affidato al dispositivo scenico. Una struttura tonda e girevole rappresenta la casa che ospita Lenin nell’ultimo giorno della sua vita: la cucina, la sala da pranzo, il tinello compaiono alternativamente davanti agli occhi dello spettatore, proseguendo instancabili il loro giro per tutta la durata dello spettacolo. Nello stesso tempo, una telecamera riprende luoghi e personaggi, e il girato viene presentato in diretta su uno schermo: Lenin è dunque a tutti gli effetti un film storico, con tanto di titoli di coda e ambientazione pseudo-realistica. Niente di troppo diverso da quello che le fiction e il cinema offrono spesso su grande e piccolo schermo, ricostruendo frammenti esistenziali dei più rilevanti protagonisti della storia moderna (da poco nelle sale, per esempio, Il giovane Marx di Raoul Peck).

 

Ma Rau ama giocare a carte scoperte, e lascia che lo spettatore acceda a due dimensioni off-stage: dalle poltrone del teatro, si possono vedere anche le immagini e i luoghi esclusi dal girato; e allo stesso tempo, ai lati della casa, gli attori che si truccano e si preparano per l’entrata sul set. La narrazione storica, che implica la scelta di una prospettiva proprio come una regia cinematografica, è dunque necessariamente falsificata e falsificante: lo sguardo di Stalin e quello di Trotskij – personaggi dello spettacolo, e testimoni chiave di quelle ultime ore – restituiranno infatti alla storia due racconti opposti e inconciliabili (è stato riedito di recente in italiano, a cura di Alan Woods, il volume di Trotskij dedicato al suo acerrimo rivale politico). E il film che stiamo guardando? Da chi è girato, di quale prospettiva storica è specchio? O siamo noi, senza accorgercene, a rubare da schermo e palco gli elementi che servono a suffragare la nostra tesi?

 

Ph. Thomas Aurin.


Ma Rau non si limita qui a mettere sotto i riflettori la dimensione artefatta e parziale della rappresentazione mediatica, come già magistralmente accadeva in altre creazioni (tra le ultime: Five Easy Pieces e Empire). Pare, per la prima volta, interessato anche alla deformazione grottesca dell’immagine, al suo mortifero decomporsi, quasi volesse offrire un controcanto scenico alla candida e immutabile immagine della salma di Lenin. I quattro atti che scandiscono l’ultima giornata del rivoluzionario morente – rispettivamente Mattina, Pomeriggio, Sera e Notte – segnano anche il passaggio da atmosfere diurne e luminose a un clima notturno e febbrile: la malattia di Lenin avanza, gli uomini che lo circondano paiono tutti pronti al tradimento, e così l’algido docu-film dell’esordio pare progressivamente trasformarsi in un thriller onirico in stile Polanski. I corpi si fanno sempre più gonfi, la telecamera indugia sui primi piani, i più semplici atti quotidiani diventano sanguinosamente simbolici (la pulizia delle interiora del pesce prende i connotati di una disturbante scena splatter), la masticazione dei commensali produce suoni osceni. L’imminente arrivo della morte trasfigura i contorni di cose e persone, e gli attori paiono lentamente perdere la propria fisionomia. La trasformazione più rilevante è naturalmente quella del protagonista (meravigliosamente interpretato – ma il verbo è limitante – da Ursina Lardi): l’attrice, che non nasconde i suoi lievi tratti da donna nella prima parte dello spettacolo, scompare progressivamente dietro una maschera di trucco e baffi “à la Lenin”. La morte è ormai in arrivo, e il rivoluzionario perde il controllo persino del suo stesso volto, rinchiudendosi nel monolitico profilo che resterà alla storia: saranno altri a decidere per l’imbalsamazione, una sorte postuma forse lontana dai suoi desideri (“non innalzategli monumenti”, ebbe a dire sua moglie, nello spettacolo personaggio quasi silente: “in vita si curò assai poco di queste cose”). E la rivoluzione? Anche quella, forse, non resterà altro che un’immagine immobile da guardare dietro una teca. Con il suo Lenin, Milo Rau si dimostra ancora una volta capace di intrecciare con sapienza storia collettiva e individuale, verità umana e finzione storica. E se altrove la sua raffinata arte performativa può talvolta sembrare fredda e cerebrale, in questa creazione pone coraggiosamente al centro l’uomo nella sua natura caduca, fragile, mortale.

 

Maddalena Giovannelli

 

Ph. Thomas Aurin.


Una poltrona per lo spettatore borghese di sinistra 

 

Quella vertigine che avvertiamo quando ciò che è vero si confonde con ciò che pretende di rappresentarlo. Pochi come Milo Rau riescono a innescare questo spaesamento, e a mettere in questione le certezze attorno ai confini dell’arte, alle sue residuali possibilità in ambienti globali sempre più mediatizzati ed evaporanti. Noi tutti pretendiamo di fare esperienze grazie alla mediazione di schermi macchine e algoritmi. Il teatro dell’International Institut of Political Murder diretto da Rau allora sfida la consistenza gassosa di un reale sempre più rappresentato, senza arretrare o arroccarsi per difendere l’autenticità della scena ma moltiplicando piani livelli e filtri. Con lui pochissimi altri come Rimini Protokoll, Gob Squad, She She Pop, per restare nella sola area germanofona.

Così avveniva nel precedente Five Easy Pieces, dove attori bambini recitavano le vittime dell’omicida di Marcinelle dirette da un finto regista che li riprendeva rimandandone le immagini sullo schermo, o in Compassion. Storia di una mitragliatrice, dove vigeva l’assunto che il lavoro dell’attore su se stesso (e nel mondo) potesse assumere come partitura la riscostruzione di un genocidio, facendone rivivere i contorni in scena mentre una testimone reale degli eventi raccontati assisteva al lato, quasi sempre muta (dunque un lavoro di “teatro e realtà” ma sulla realtà del teatro, come l’ha giustamente definito Roberta Ferraresi). Seguendo questa linea non stupisce, dunque, che l’attenzione dell’artista si sia spostata precisamente sul teatro, mettendo in scena un testo teatrale basato su fatti storici come è l’ultimo Lenin. Non più, per giunta, ricostruendo avvenimenti di periferie geografiche e culturali, ma osservando la Storia nel centenario della ricorrenza della rivoluzione d’ottobre.

Questo solo in apparenza, perché come già raccontato la scrittura di Lenin sceglie di osservare le vicende del leader morente come fossimo ammessi a spiare da un buco della serratura, costruendo un suo correllativo scenotecnico con grandissimo dispiegamento di risorse. Una scena fastosa per ottenere il paradossale effetto di un kammerspiel nel quale si parla e si parla e si parla mentre la storia gira dentro una dacia di campagna, ricostruita con le sue stanze, le scalette, i balconi. I personaggi contornano Lenin (un cameriere, una cameriera, ma anche il segretario del partito Stalin, il futuro commissario del popolo Lunačarskij, Trotskij e altri) sembrano non dirsi davvero nulla. Dal loro dialogare restano impresse alcune immagini, non a caso molto spesso legate all’orizzonte extradiegetico, così tipico della poetica di Rau: l’incipit con la presentazione degli attori nello schermo in alto, come una fiction televisiva, dove si indicano nomi reali e personaggi; la vestizione su un lato degli stessi, in particolare di Ursina Lardi, che via via da donna in borghese letteralmente si trasforma nell’anziano leader, assumendone fattezze fisiche e portamento curvo; un tavolo imbandito con Lenin che osserva una fotografia che lo ritrae insieme a Marx ed Engels, a cui seguirà un bacio fra l’attore che interpreta Stalin e Ursina-Lenin.

Non c’è dunque quasi nulla della “grande storia”, in questa rappresentazione, nulla dei fatti del 1917, nulla su Lenin intellettuale, nulla sulle Tesi di aprile e su Stato e Rivoluzione, pochissimo se non vaghi acenni sul dibattito sul comunismo da attuare in più stati o da realizzare in uno solo, nulla sulla politica interna ed economica prima della svolta staliniana e dei piani quinquennali. È un flusso di parole intimo quotidiano, in un cinema in diretta basato su un dramma da camera senza un vero centro drammatico. Si tratta di premesse invero dense di potenzialità, ma che a conti fatti paiono più rilevanti dal punto di vista teorico rispetto al teatro capace di sostenerle: la scelta di un frammento di biografia “privata”, sebbene colto in uno snodo storico nel quale la rivoluzione cambia pelle; la messa a punto di un meccanismo scenotecnico dove la storia è in movimento, dove non ci sono di fatto protagonisti, perché è il potere e il suo inevitabile processo di consunzione a essere messo in primo piano; infine, come già si accenava, un generale impianto postdrammatico/postbrechtiano dove l’attore si mostra per quello che è, poi assume le fattezze del personaggio, poi ne esce e rientra, e sempre viene ripreso da operatori cinematografici a vista così chi guarda abbia da chiedersi chi stia guardando, e quale sia la sua stessa aspettativa (un meccanismo, va detto, di certo anche molto vicino ai lessici teatrali della sinistra culturale tedesca ed europea, su tutti si pensi a René Pollesch, direttore della sezione sperimentale della Volksbühhne nell’era di Franz Castorf, ma anche i meccanismi in bilico fra cinema e teatro dei già citati Gob Squad, o il recente Tristesses di Anne-Cécile Vandalem, acclamato ad Avignone nel 2016). Insomma si ha la sensazione che tutti questi elementi insieme questa volta “non reagiscano”, restino un materiale inerte, per ragioni diverse. Probabilmente i meccanismi di destrutturazione del reale di Rau sono diventati una sintassi difficile da mettere in discussione per il regista stesso, eppure non adatti a ogni storia da raccontare. Che questo lavoro presentasse o meno il raddoppiamento fra teatro e cinema in diretta è apparso, a conti fatti, poco rilevante, perché non pareva che l’intimità, lo scavo, la focalizzazione della telecamera fossero in grado di costruire un vero discorso sulle pieghe della storia, ma si limitasse a intrigare lo sguardo degli spettatori. Probabilmente l’assunto che nei vuoti, nei fatti laterali della storia si possa leggere tutto ciò che le sta attorno non funziona senza il dispiegarsi di un contesto, per il quale sono necessari ampi lavori di saggistica storiografica, non così direttamente trasportabili nell’arte senza correre il rischio di presentare la crudezza di fatti davvero minori, non essenziali, dunque noiosi. Probabilmente, infine, tutta la mole della aspettative di una borghesia acculturata di sinistra con in tasca 50 euro per acquistare un biglietto alla Schaubühne, tutte le narrazione su Lenin, le biografie, i saggi, tutte le ricorrenze della Rivoluzione, tutto questo ha finito per mettere in primo piano una serie di cautele sotto il peso delle quali il teatro di uno dei più radicali registi dei nostri anni finisce per mostrarsi nudo, una volta levata la cortina di intelligenza che lo circonda, svelando l’inteleaiatura di quasi tutto il teatro in cui crediamo: il discettare di una borghesia acculturata di sinistra che rischia rinunciare alla sua stessa contestazione, dunque all’autocritica. Qui si cammina su un bilico affascinante e coltissimo, ai confini fra consenso che sfioria il mainstream e frustrazione delle aspettative di un’elite culturale, comprese quelle di chi scrive.

 

Lorenzo Donati

 

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