A Palazzo Morando (Milano) fino al 9 aprile 2017 / Manolo Blahník: ossessioni in mostra

3 Aprile 2017

“Siate audaci, siate differenti, siate poco pratici, siate qualsiasi cosa che possa affermare l'integrità della convinzione e dell'immaginazione contro i prudenti, le creature del luogo comune, gli schiavi dell’ordinario”. Non potevano che essere le parole dello scenografo Cecil Beaton ad aprire il volume Manolo Blahník. The Art of Shoes. La ricerca delle perfezione (Skira 2017), considerato dal noto creatore di calzature colui che più di quarantacinque anni fa lo ha ispirato a intraprendere questa carriera. Le visioni creative di Blahník vengono narrate nel catalogo dell’omonima mostra internazionale itinerante, che ha come prima tappa il Palazzo Morando di Milano, dal 26 gennaio al 9 aprile 2017, seguito dal prestigioso Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo e poi dal Museum Kampa di Praga. Nelle 128 pagine a colori Manolo Blahník prende per mano il lettore e lo accompagna in un tour alfabetico con soste scandite da aneddoti di vita quotidiana e passioni, ricostruite a partire dalle conversazioni con la curatrice della mostra e autrice del volume Cristina Carrillo de Albornoz, presenza talmente discreta da far sembrare il testo un’autobiografia. 

 

Bardot e Moreno.


La centralità dell’istanza autoriale di Blahník è così vivida che sembra di percepire visivamente il giardino delle Canarie dove ha trascorso la sua infanzia, come se chi legge potesse chiudere gli occhi e percepirne i colori, adoperando lo stesso metodo applicato dal creativo prima di trasferire le sue idee su carta. Blahník tiene molto a spiegare nel dettaglio il suo approccio pittorico alla creazione delle calzature, da lui considerato una vera e propria forma di meditazione “manuale”, sottolineando un totale rifiuto per il computer, strumento che impedirebbe alle sue “idee surreali” di prendere forma. Nella mostra e nel volume, infatti, sono presenti quelli che uno sguardo non attento potrebbe definire bozzetti, anche se in realtà sono vere e proprie opere d’arte raffiguranti scarpe, realizzate con inchiostro di china o acquerelli. Dunque, non si tratta di modelli da cui partire per realizzare le calzature, bensì di loro ritratti. La riproduzione ostensiva dei temi ripetuti ossessivamente nelle sue scarpe, da osservare e in cui osservarsi, genera effetti di rispecchiamento della personalità di Blahník, portando le diversità evocate all’uniformazione in uno stile. 

 

Il percorso espositivo della mostra si dirama nelle sale dell'Appartamento nobiliare settecentesco di Palazzo Morando dove le calzature di Blahník vengono a contatto con il loro ambiente di elezione, dominato dal decorativismo aggraziato del rococò, stile che solletica spesso l’inventiva del designer, specialmente durante i suoi viaggi in Italia, in particolare a Palermo. Il Settecento ricopre un ruolo primario nella sezione “Gala e collezione Marie Antoinette”, dove trovano collocazione le 22 paia di scarpe realizzate da Blahník per il noto film di Sofia Coppola, commissionategli dalla costumista Milena Canonero, premio Oscar per Barry Lyndon di Kubrick, una delle pellicole più apprezzate dallo stilista proprio per la perfetta ricostruzione del XVIII secolo. Blahník confida all’autrice del catalogo che avrebbe voluto nascere in quel periodo storico, non solo perché gli uomini erano liberi di indossare i tacchi, ma anche per la fervente promozione dell’eleganza nella società. Le scarpe create per Canonero hanno previsto l’utilizzo esclusivo di sete francesi e riflettono il processo certosino di ricerca condotto da Blahník sugli stilemi del tempo, estrinsecando il pathos, la tensione, l’esuberanza e la sensualità che lo stilista riconosce al Settecento. In questa sezione emerge con particolare vigore una piccola parte dell'ampia documentazione calzaturiera del Museo, che nella sua interezza copre il Rinascimento fino alla prima metà del Novecento. Le décolleté in broccato pastello, appartenenti all’universo finzionale di Marie Antoinette, posano accanto a scarpe che hanno realmente calcato le strade di quell’epoca, condividendone ricami e finiture, come accade anche in altre teche dell’esposizione, dove ciò che fa distinguere la ricostruzione postuma dall’originale è l’usura.

 

La durata nel tempo di queste calzature rispecchia l’accezione di eleganza di Blahník, una continua ricerca della perfezione da declinare nel rispetto e nella diffusione delle tradizioni. 

Manolo Blahník condivide in pieno la filosofia del “guardare al passato per reinventare il futuro”, chiave di lettura degli edifici impossibili di Zaha Hadid, che insieme a Renzo Piano e Rafael Moneo, autore dell’introduzione del catalogo della mostra, costituisce la triade degli architetti a cui il designer si ispira maggiormente. 

Tra le sue opere, inoltre, spiccano anche due calzature-museo, le Guge del 1976 ispirate al Solomon R. Guggenheim Museum di New York progettato da Frank Lloyd Wright, e le Rebord del 2010, che riprendono le bordature curvilinee della sede di Bilbao, ideata da Frank Gehry.

In questo modo Blahník è stato capace di collegare il genius loci allo stile rappresentato, intervenendo sul mondo in cui avvengono le interazioni tra spazi, soggetti e pratiche, citando le componenti plastiche che contraddistinguono i due edifici.

Manolo Blahník rivendica la sua identità poliedrica attraverso l’intertestualità e il citazionismo per creare e istituzionalizzare un universo di riferimento che vada oltre la Moda, rappresentando forme di vita. 

Attraverso le calzature si genera un circolo virtuoso di citazioni che comporta in primis un dialogo tra generi diversi che convergono in un processo di sedimentazione dei tratti caratterizzanti i testi rilevanti per la memoria storica dello stilista.

 

 

Blahník si appropria delle parole di Gore Vidal «sapere chi sei, cosa vuoi dire e fregartene», dichiarandosi fuori dalla giurisdizione del sistema moda, contravvenendo ai suoi imperativi, specie quando si tratta del glamour e dell’idolatria delle celebrity, che a suo parere hanno comportato lo svilimento della creatività degli stilisti, come è successo con il suo modello Hangisi, diventato oggetto di culto per la serie Sex and the City.

Da quanto si legge nel catalogo della mostra, questa totale autonomia di pensiero trova la sua massima espressione nel modello ispirato al Giappone chiamato Jetta (2001), esposto per contiguità geografica nella galleria cinese di Palazzo Morando. Jetta consiste in una rivisitazione degli infradito tradizionali geta, come suggerisce già il nome per assonanza, trasformati in sabot dalla base in alluminio a quattro tacchi, con tomaia gialla di cavallino maculato, un pattern dalle suggestioni manga, che ricorda il costumino succinto di Lamù, la ragazza dello spazio. Con Jetta Blahník aggira tutti i canoni stilistici e strutturali, sincretizzando le diverse identità estetiche del Giappone, dalla tradizionale shibusa alla superflat postmoderna di Takashi Murakami, spinto dalla volontà di dichiarare un amore incondizionato per i codici di comportamento della cultura nipponica, espressi tramite una gestualità da lui definita sensuale. Infatti è proprio il movimento di persone, animali e piante a costituire la fonte primaria di energia di Blahník, e che innesca il suo più grande talento creativo, la percezione visiva. 

Le pose del corpo contribuiscono a veicolare stati tensivi e a valorizzare gli abiti e, a tale proposito, una delle muse di Blahník, la storica del costume e della moda Anna Piaggi, da lui celebrata con lo stivaletto open-toe optical del 1976, ha scritto nelle sue leggendarie “Doppie Pagine” di Vogue Italia (supplemento haute couture del numero 715 di marzo 2010) “A Pose is a pose, a pose is a pose”. 

 

La ripetizione della stessa parola rende dal punto di vista retorico l’iteratività dei gesti, rendendone tangibile il ritmo. Una posa è sì una posa pura e semplice, ma resta una potente espressione dello Zeitgeist di un'epoca, che grazie al portamento assunto si cristallizza e diventa durativa nel tempo, esprimendo tramite il corpo il legame indissolubile tra individui, cultura e società. Blahník imprime nella forma e nei dettagli delle calzature l’impatto che avranno sull’andatura, che dipende dalla lavorazione, dalla tipologia del modello, dalle caratteristiche del tessuto, dalle componenti strutturali e/o decorative. Umberto Eco direbbe che le scarpe dello stilista sono artifici semiotici perché impongono un contegno, assurgendo a “macchine per comunicare”. Le scarpe risiedono nelle estremità del corpo e dunque potrebbero essere considerate come la parte più profonda della struttura sintattica del linguaggio vestimentario, quella che permette il movimento e lo plasma secondo il suo modo di esistenza. 

Le scarpe sono così importanti da determinare la stabilità di chi le indossa. Blahník lo ha provato sulla sua pelle, in quanto la sua prima collezione, realizzata per una sfilata di Ossie Clark del 1972, aveva dei difetti strutturali rilevanti determinati dai tacchi di gomma che imprimevano alle modelle un ondeggiamento traballante. Il caso ha voluto che giornalisti e critici abbiano inneggiato a una nuova andatura, ma da quel momento in poi Blahník ha prestato molta attenzione alla fattura delle sue calzature, alla centratura del tacco e al bilanciamento complessivo.

 

Forgiare l’andatura significa anche esaltarne la bellezza, soprattutto quella del passo, da cui Blahník viene di sovente impressionato, come è accaduto in Russia, mentre osservava alcuni monaci camminare sulla neve indossando sandali, oppure che ha determinato la sua ammirazione per le movenze regali della cantante Rihanna, sino a giungere a collaborare con lei nel 2014 per la collezione Denim Desserts, in cui il designer ha impiegato per la prima volta il tessuto di jeans. 

Prima della musica pop però, Blahník è stato sempre affascinato dal cinema, che considera molto più reale della vita stessa, un mezzo per plasmare e diffondere posture atteggiamenti del corpo, come nel caso del portamento severo di Greta Garbo o del broncio di Brigitte Bardot, da lui considerata l’archetipo universale di donna. L’attrice francese ha raggiunto il successo perché, al pari di Blahník, se ne infischiava delle regole, ripudiando il dress code di calze e cappelli, e non rispecchiava neanche i canoni estetici della sua epoca. Blahník ha realizzato in suo onore due paia di scarpe, le décolleté BB del 2008, con motivi degli anni ‘50 e tacco ispirato a quelli di corte, ormai un imperativo del guardaroba contemporaneo, e il sandalo Xenan del 1999, esposto a Palazzo Morando. La tomaia in percalle di cotone Vichy della scarpa estiva sussume i tratti iconici dello stile di Bardot, riproponendo lo stesso pattern della gonna indossata nella scena del ballo con Darío Moreno, parte del film diretto da Michel Boisrond, intitolato Voulez-vous danser avec moi? (1959). 

 

Blahník non perde occasione per dimostrare la sua competenza cinematografica, uno dei fil rouge più evidenti della mostra, e molte volte, nelle sue creazioni e nel volume, non perde occasione per citare Luchino Visconti in qualità di regista preferito. Il gattopardo (1963) è tra le pellicole che l’hanno più impressionato, e per rendergli omaggio ha scelto il corallo come latore delle atmosfere siciliane della narrazione, creando un modello dedicato allo scrittore del romanzo da cui è stata tratta, Principe di Lampedusa (2003). Oltre a Il gattopardo e al rococò, la Sicilia continua a colpire l’immaginazione di Blahník con Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni, alle cui arie sente di essere legato in modo particolare, affermando di essere nato per cantarle. I brani dell’opera lirica sono densi di quei gesti patemici e plateali che Manolo Blahník riconosce quale maggior pregio degli italiani, un popolo dall’innata artisticità e artigianalità, tanto da essere scelto dallo stilista per produrre le sue creazioni, in una piccola azienda vicino Milano.

 

Ogni modello di Blahník evoca storie, realmente accadute, narrate o immaginate, o custodisce la memoria delle persone che hanno plasmato la sua vita, come la madre, Diana Vreeland, Tina Chow e tanti altri. Visitando la mostra o leggendone il catalogo, sembra di guardare la proteiforme figura di Manolo Blahník al caleidoscopio, dove, al pari di specchi e colori, vibrano i motivi dominanti delle sue collezioni, la cui leggerezza visiva è destinata a rispecchiarsi in una strutturazione tattile. 

Le ossessioni di Blahník si fanno strada nella mente del lettore, incominciando pian piano a diventare sue.

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