L’omicidio Cucchi su Netflix / “Sulla mia pelle”: il fatto sussiste

26 Ottobre 2018

Coricato sul letto di un carcere ospedaliero, Stefano Cucchi, arrestato per spaccio il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo, ci appare subito, all’inizio di Sulla mia pelle, come una figura che assomiglia più a una cosa buttata che a una persona. Comincia a esistere, in senso cinematografico, come corpo ormai morto: inerme, pieno di lividi, disidratato, lasciato morire da solo.

 

 

Quelle quattro ossa per sempre incapaci di tirarsi su sembrano avverare le parole che ha lasciato Pier Paolo Pasolini in Empirismo Eretico (1972), poco tempo prima che anche il suo corpo fosse massacrato e fissato dalle immagini in testimonianza visiva perpetua di un’esistenza inconciliata. «La morte – aveva infatti scritto Pasolini – compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben descrivibile […]. Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci». 

 

Ma il corpo di Cucchi, testimoniato dalle fotografie che la sorella Ilaria ha fatto scattare all’obitorio e mostrato in nove anni di proteste, è un corpo che non conclude, ma squarcia, offende, disturba. Quel volto inteschiato dalla magrezza, sfigurato dagli ematomi e con gli occhi infossati non dà coerenza; è un corpo irredimibile, tanto che potrebbe far ripensare alle parole usate dal principe Myškin, nell’Idiota di Dostoevskij, davanti a una copia del Cristo morto nella tomba di Hans Holbein (1521): «Ma questo quadro può far perdere la fede!». 

 

Hans Holbein il Giovane, “Il corpo di Cristo morto nella tomba”, (1521). Kunstmuseum, Basilea.


 

Impersonato da Alessandro Borghi e da tutti gli altri interpreti (Jasmine Trinca, Max Tortora) con una non comune disciplina attoriale – vale a dire trattando il corpo come significante e non come figurazione caratteristica – il film di Cremonini, scritto con Lisa Nur Sultan e presentato nella sezione Orizzonti dell’ultimo festival di Venezia, deve molto alle scelte di montaggio, e in particolare all’uso del cadavere di Cucchi come immagine da cui provare a svolgere di nuovo la storia, usando dunque la morte più che come punto di arrivo al culmine di una successione ormai definitiva, come centro simbolico da cui ripartire e intorno a cui far di nuovo girare il racconto, andando all’indietro e tornando ad esso nella penultima scena del film, quando si sarà dipanato un filo che si era rianimato mostrandoci Cucchi a partire dalla giornata che aveva preceduto l’arresto, una settimana prima. Stefano entra in campo uscendo, significativamente, da quello che è anche un buco nero, ossia un sottopassaggio da cui sbuca fuori, fisicamente e simbolicamente, mentre si allena facendo jogging e ascoltando, con gli auricolari, una musica che diventa anche la colonna sonora della scena, creando e chiedendo, attraverso la soggettiva acustica, una risposta immersiva. Le nostre orecchie percepiscono i medesimi suoni che ascolta il personaggio. E così aderiamo subito alla pelle di Cucchi, in senso visivo (grazie ai continui pedinamenti e alla costruzione di un campo a misura del suo sguardo), in senso acustico, corporeo, insomma, in una parola: sensoriale. Perché il punto è che Cucchi non dice mai “io”, non guarda mai in macchina interpellandoci direttamente. L’ambiente narrativo costruito dal film non intende parlarci, prima di tutto il resto, di un procedimento giudiziario, ma di una solitudine, dentro la quale, per tutta la durata del racconto, non risuona la domanda: “chi è stato?”, ma, contro la verità “ufficiale” di “un tossico di merda morto in carcere”, “cosa far rivedere e come far rimanere questa esperienza?”. 

 

Costruendo empatia, ma sabotando il pathos, grazie all’eliminazione di qualsiasi versione direttamente e estesamente articolata da Cucchi, Sulla mia pelle risponde a questa domanda facendoci vivere l’ultima settimana di vita del protagonista addosso alla sua pelle, ma lasciandoci fuori dalla sua coscienza, dosando distanza e avvicinamento in senso espressivo, facendo lavorare gli stacchi, i tagli, gli spazi neri. E così, quando, dopo meno di venti minuti dall’inizio, accade il pestaggio, noi non vedremo l’osceno delle botte, che rimane, appunto, “osceno”, situazione fuori scena, lasciata esistere come violenza fuori campo, mentre rimaniamo, per più di otto lunghissimi secondi, in silenzio, nel corridoio livido fuori dalla porta, 

 

 

per poi entrare nel buio dell’abitacolo della volante dei carabinieri, dove cominceremo a intravedere i lividi. Da quel momento, per più di un’ora, come in una specie di Via Crucis (proprio così si chiamava il primo trattamento) il corpo martoriato di Stefano sarà continuamente trasferito e buttato da uno spazio all’altro, sottomesso a decine di sguardi che non vedono. 

 

Donato Bramante, Cristo alla colonna (1480-90 ca.). Pinacoteca di Brera, Milano.


 

Non sono però soltanto gli occhi gonfi, le ecchimosi, la mascella fratturata, tutto questo insieme di dettagli così vistosamente invisibili, a costruire, nel corso del film, l’esperienza di un racconto cinematografico così impressionante e affaticante; perché, forse ancora più delle immagini, è il sentimento complessivo sprigionato dal loro insieme a colpirci, vale a dire il senso di isolamento, non solo fisico ma simbolico, vissuto dal quel corpo vulnerato che sempre di più (per sconforto? per dolore? per rabbia? non lo sapremo mai) non si fida più di nessuno («“Di che c’hai paura? C’hai paura di qualcuno?” “Basta, vattene!”»), fatta eccezione per le voci disincarnate e fantasmatiche che gli arrivano passando tra i muri.

 

Questa espropriazione di ogni fede è, forse, la violenza più terribile, e questo è il terreno attraverso il quale Sulla mia pelle, mostrandoci un corpo sempre più rappresentato come corpo afasico, abbattuto, orizzontale, restituisce immanenza alla verità che sta componendo. In un quadro complessivo in cui interagiscono almeno cinque piani temporali diversi, scanditi dai tagli di montaggio e che si alternano e si confondono come in una dimensione sospesa; il film mette in scena anzitutto il tempo della testimonianza di quell’evento rielaborato dal trattamento di regia e subito esibito dalla costruzione di una narrazione disarticolata che riparte dalla fine; poi il tempo vissuto da Stefano e che riviviamo sulla sua pelle; ancora, il tempo degli eventi messi a verbale e registrati; il tempo della latenza (delle cose che il personaggio non dice, coprendosi dietro i tanti “niente”; ma pure delle cose che i molti sguardi che lo scrutano in controcampo non ci fanno sapere); e, infine, il tempo che comincia dopo la morte di Cucchi, quello del processo, delle battaglie dei familiari, il tempo legato alla testimonianza fotografica che ha costruito memoria e discorso condiviso. 

 

A affaticarci, a emozionarci, durante la visione di Sulla mia pelle, è proprio l’esperienza di rientrata in contatto con la possibilità di una condivisione, anche civile, con un cinema «che ci riguarda», avrebbe detto Marco Dinoi. A sorpresa, quasi per dispetto: contro ogni complottismo, contro ogni facile adesione all’ideologia e all’estetica della post-verità. Quel corpo a cui da vivo non si trovava mai posto, sta ancora lì. Quel corpo è un fatto che sussiste. 

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