Lo sguardo di un’antropologa / Margaret Mead. America allo specchio

2 Ottobre 2019

Chi sono gli americani? A porsi la domanda, alla vigilia dell’ingresso in guerra degli Stati Uniti, è Margaret Mead. Siamo nel 1942 e un “inventario preciso” del carattere nazionale le appare necessario e urgente quanto la conta delle forze materiali in campo. Il risultato è America allo specchioLo sguardo di un’antropologa (pp. 264, trad. Lina Franchetti e Ada Arduini), uno dei suoi testi più noti appena riproposto da il Saggiatore, dove, spaziando dalla famiglia al mito del successo, s’inoltra nell’identità e nella cultura degli Stati Uniti per ritrarne i punti di forza e le debolezze. 

Scritto nell’arco di poche settimane, il libro nasce dall’esperienza maturata nelle ricerche in Oceania ed è figlio di un’urgenza politica che si dichiara a ogni pagina. Vincere la guerra contro i totalitarismi è fondamentale, ripete Mead, al tempo impegnata nello sforzo bellico per conto di diverse agenzie governative. E nulla meglio del “carattere americano”, con il suo “miscuglio di praticità e di fede nel potere di Dio”, può riuscire in quest’impresa che è “preludio a un compito più grande – la ricostruzione della civiltà del mondo”. 

 

And Keep your Powder Dry, come più bellicosamente il libro s’intitola in inglese dalla celebre esortazione di Cromwell “Abbiate fede in Dio, ragazzi miei, e tenete asciutte le polveri”, indica come si possa “combattere e vincere alla maniera americana”. Per dirla con Mead, è ciò “che l’antropologia come scienza può offrire per aiutare questa guerra, per dire a ogni americano: ‘Ecco uno strumento che potete usare, per sentirvi forti, non deboli, per sentirvi sicuri e orgogliosi del futuro’”. 

È uno spostamento di prospettiva che conquista il pubblico. Scritto in un linguaggio semplice e diretto, America allo specchio sfonda i confini specialistici e diventa subito un classico che entra come libro di testo nelle università. Se alla luce di quel ritratto sia ancora possibile ottant’anni dopo leggere il Paese, è però un altro discorso. 

Da quando vivo negli Stati Uniti, l’interrogativo di Mead mi tormenta ogni giorno. Chi sono gli americani? Perché fanno, pensano, ridono così? Sarà perché abito nel Deep South, lontana da New York o San Francisco che mi sembrano più familiari, ma la percezione di uno stacco fra me e loro non mi lascia e ogni tanto finisco a sbatterci la faccia. 

È un mondo altro, ha le sue regole e i suoi codici. Ho smesso di chiedermi se è meglio o peggio. È così. È un’altra lingua da imparare. Ho dunque letto America allo specchio con la curiosità pressante di chi ha bisogno di capire. Più che impadronirmi di un pugno di risposte, mi sono ritrovata però a moltiplicare le domande. 

 

Lo strumento messo a punto da Mead risente del mutare dei tempi, come lei stessa nota nell’introduzione all’edizione del 1965. La vibrante fiducia nel futuro che ha accompagnato l’uscita del libro lascia qui il posto a un disincanto alimentato da temi ancora di stringente attualità: la disparità crescente fra ricchi e poveri, le tentazioni isolazioniste e la reviviscenza dell’estremismo di destra. “Non è che gli americani siano cambiati poi molto”, conclude. “Ciò che è cambiato è il mondo e la nostra capacità di comprendere e agire in base alla nostra comprensione di questo mondo diverso”. 

Da allora il mondo non ha smesso di cambiare e così l’America. Non solo i 130 milioni di americani di cui parla Mead sono diventati quasi 330, ma il loro profilo demografico si sta rovesciando come allora non si poteva immaginare. Entro il 2050, dicono le proiezioni, negli Stati Uniti i bianchi sono destinati a diventare minoranza e avviarsi a un lento declino. Le minoranze continueranno invece la loro rincorsa – al primo posto gli ispanici, seguiti dagli afroamericani, dagli asiatici e dalle sempre più numerose famiglie multietniche.

 

 

L’America di Mead è un’altra cosa. “Tutti siamo della terza generazione”, s’intitola il capitolo che celebra il mito fondativo del melting pot. E questa generazione, “sempre occupata a spostarsi, sempre occupata a sistemarsi”, abbandona le enclave dove i nonni e i padri si erano stretti ai conterranei (“le Piccole Italie”, “il Quartiere ceco”, la “Chiesa polacca”), cerca altre opportunità e lungo la via costruisce una nuova società, con nuove norme e nuovi rituali. “Ogni americano ha seguito una via lunga e tortuosa: se le vie sono cominciate nello stesso posto in Europa, meglio dimenticarlo – questo legame conduce addietro nel passato che è meglio lasciarsi alle spalle”. 

Il paese che si riflette in questo specchio è bianco. E quel bianco si sfoca ad accomunare in una medesima identità tedeschi e irlandesi, polacchi e italiani. Come se la whiteness non si fosse articolata nel tempo in una gerarchia razzista portatrice di odio e discriminazioni – basti ricordare com’erano considerati allora gli italiani del Meridione, per non parlare degli ebrei. Quanto agli afroamericani, sono evocati ma non si vedono come le altre minoranze. Per la cronaca, nel 1940 le statistiche registrano come Non Hispanic White l’88.3 per cento della popolazione e Mead comunque esclude dalla sua analisi il Sud, dove la popolazione afroamericana si concentra. 

La sua descrizione finisce così per prescindere dal colore, il genere o la classe, ignorando il retaggio di violenza razziale e sociale con cui peraltro l’antropologa si confronterà in altri scritti. È un ritratto d’epoca che, forse per l’imminenza della guerra, forse per la volontà di parlare a un ampio pubblico, tende a sfumare nell’idealità del mito. È un filtro che va aggiustato con cura per guardare all’America di oggi.

 

Se gli Stati Uniti non sono più quelli, il sistema di valori che Mead delinea in pagine memorabili resiste nel discorso pubblico e nell’intenzione dei buoni propositi. Non per caso il titolo inglese, perfetto per il tempo di guerra, rimanda a Cromwell. Nel motto puritano Mead rintraccia la formula che ha fatto grande l’America – quel misto di fede, buon senso e duro lavoro che crea e alimenta il successo perché in esso riconosce il favore di Dio e il premio alla virtù. 

Non per caso al tempo del New Deal, ricorda Mead, la drammatica catena di fallimenti e il programma di sussidi pubblici hanno fatto vacillare “l’edificio morale dell’universo” agli occhi degli americani. Se non erano più il lavoro e il timor di Dio a portare con sé la loro ricompensa, il fondamento puritano su cui il Paese poggiava finiva per sgretolarsi. 

Pur in uno scenario economico e sociale radicalmente mutato, quell’edificio per quanto traballante è ancora in piedi. Il successo rimane valore e desta ammirazione, come la ricchezza che ne deriva (basti pensare alla trionfale mitologia che circonda gli eroi della Silicon Valley o alla traiettoria del presidente Trump). 

 

La competizione per riuscire non conosce sosta o reti di salvataggio. Si comincia da piccoli e si va avanti fino all’ultimo respiro. “L’orgoglio è possibile nei termini della distanza da cui [siamo] venuti”, scrive Mead. In altre parole, per riuscire si deve fare meglio dei nostri genitori e un giorno i figli dovranno fare meglio di noi. Ogni estate il rituale isterico della corsa al college più prestigioso ci rammenta questa verità. Chi non migliora, si vergogna. Fermarsi è un’alternativa da perdenti.

È il volto buio dell’American dream, la condanna morale di chi resta indietro. L’insuccesso è colpa di chi fallisce, spiega Mead. Il povero è tale perché non s’impegna. Ridotta a una questione di buona volontà del singolo, svincolata da ogni determinante storico-sociale, la povertà finisce per essere associata alla colpa. Non ce la fai perché non vuoi, è il leit motiv che ancora segna il discorso pubblico e affossa i tentativi di migliorare il sistema di supporto sociale o avviare un sistema sanitario universale. 

È un tessuto morale che ogni giorno la realtà s’incarica di smentire. La fluidità sociale immaginata da Mead si spegne nel divario sempre più profondo fra ricchi e poveri, nel razzismo pervasivo, nella violenza delle armi da fuoco, nell’epidemia di overdose, nella crisi della classe media, nelle crudeltà della stretta sull’immigrazione. E i millennial che accorrono al richiamo di Bernie Sanders sono la testimonianza vivente del fatto che il sogno ha eluso perfino loro, la generazione più istruita di tutti i tempi. 

Le pagine di America allo specchio non forniscono facili ricette per decifrare questa realtà così complessa e in costante evoluzione, ma senz’altro indicano la strada. Non per caso l’epigrafe del libro rimanda a Archibald Mac Leish – “Abbiamo imparato le risposte, tutte le risposte: è la domanda che non conosciamo”.

 

Spiega Margaret Mead, “Soltanto di recente abbiamo smesso di formulare risposte e abbiamo cominciato a fare domande; fare domande accurate, utili e adeguatamente elaborate, ponendoci dei problemi invece che sottometterci al disastro o trovare nuovi modi di sottometterci ai vecchi disastri”. Ottant’anni dopo, servono nuove domande. I disastri ormai li conosciamo bene.

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