Berlinale

Si è da poco concluso il festival del cinema di Berlino, tra le critiche che la vedono come una manifestazione troppo poco commerciale (eppure è il festival cinematografico con la più alta partecipazione di pubblico al mondo) e alcuni dei premi assegnati a piccoli grandi film.

Ecco cosa ha visto una nostra collaboratrice, tra i film della competizione ufficiale.

 

 

W imie… di Malgoska Szumowska

 

Il concorso della Berlinale è stato aperto da un film polacco che riconferma la tendenza del festival ad aprirsi al cinema dell’est europeo. Escluse alcune vedute della campagna estiva, tanto assolata e affollata di campi di grano da far impallidire la produzione nostrana post Io non ho paura, il lavoro della Szumowska lascia parecchio perplessi. Un prete cattolico molto energico viene trasferito in una piccola parrocchia di provincia che è anche sede di un riformatorio per giovani problematici. L’estate è calda e, si sa, scalda anche gli animi più pacati. I ragazzi giocano a pallone ma sono irrequieti. Irrequietissimi, perché omosessuali! La morale del film si dispiega tra il dubbio e l’equivoco, attraverso una trama che fin dall’inizio si spera non sia così ovvia e che invece si riconferma quasi offensiva, sia per lo spettatore sia per i tipi umani che cerca di rappresentare.

 

 

Promised Land, di Gus Van Sant

 

Premiato con una menzione speciale della giuria, il nuovo progetto di Gus Van Sant, con soggetto di Dave Eggers e sceneggiatura anche di Matt Damon (inizialmente pensato anche per la regia), affronta una tematica che – sorprendentemente – il regista non aveva ancora toccato: la salvaguardia dell’ambiente. Damon e Frances McDorman sono due impiegati della Glocal, un’impresa che si occupa di fracking, cioè la trivellazione chimica del terreno per l’estrazione del gas. Amano il loro lavoro e sono pronti a farlo senza porsi troppe domande etiche: insomma, sono dei buon-cattivi. Peccato però che il paesino dove decidono di agire mostra le prevedibili ostilità, ambientaliste e non, costringendo il serafico Matt Damon a una profonda autocoscienza professionale. Il colpo di scena finale dovrebbe suscitare sdegno e simpatia, ma rischia di seppellire nella poltrona con un grande sbadiglio. Difficile distinguere la retorica dell’eco-sostenibile e quella del regista “indipendente”, poiché in entrambi i casi domina la sensazione di aver già visto tutto.

 

 

Paradies: Hoffnung, di Ulrich Seidl

 

Si è chiusa a Berlino la trilogia sul Paradiso del regista austriaco, cominciata a Cannes con l’episodio Liebe e proseguita a Venezia con Glaube. Seidl è stato definito il “regista delle cantine”, un po’ perché esplora tutto quello che non vogliamo avere sotto gli occhi ma di cui non riusciamo a separarci, un po’ per un malizioso riferimento ai fatti di cronaca per cui l’Austria si è fatta notare negli ultimi anni (e non a caso il prossimo progetto di Seidl sarà proprio dedicato alla vicenda di Joseph Fritzl). Ma oltre a una certa dose di “morbosità”, di sguardo dal buco della serratura, Seidl, un po’ come Haneke, costruisce un’estetica e un’etica fatta di dettagli personalissimi eppure ampiamente condivisibile e, soprattutto, capace di toccarci un po’ tutti. Paradies: Hoffnung si svolge in un Diätkamp per ragazzini sovrappeso e segue le disavventure sentimental-alimentari della tredicenne Melanie, che si prende una cotta per il suo nutrizionista. Seidl riesce di nuovo a dirigere magistralmente un gruppo di attori non professionisti (a esclusione delle due figure maschili), allontanando il film dal rischio di una storia alla Lolita, e anzi apre davvero alla speranza del titolo: come l’adolescenza, l’ultimo capitolo del paradiso austriaco non uccide del tutto lo spettatore e gli fa intuire che, dopotutto, si può sopravvivere.

 

 

Dolgaya schastlivaya zhizn - A Long and Happy Life, di Boris Khlebnikov

 

Altro film proveniente dall’Europa orientale, A Long and Happy Life si dimostra migliore del polacco W Imie... e conferma i temi dell’ambiente e della sostenibilità dell’industria verde come uno dei tempi dominanti della competizione. La vita dell’agricoltore Sasha sarà ben lontana da essere felice: costretto da oscure leggi russe a rinunciare ai suoi terreni nella sperduta (ma mozzafiato) penisola di Kola, decide di schierarsi al fianco dei contadini suoi dipendenti, che chiedono la rivoluzione. Ma i tempi sono diversi e la gente, capito come tira il vento, impara presto ad arrangiarsi individualmente. L’unico a rimanere con un’ideale di collettività – seppur confusa e chiaramente irrealizzabile – è il protagonista. Una parabola dai tempi strani e tesissimi negli ultimi dieci minuti, A Long and Happy Life è il racconto di una solidarietà all’incontrario, cercata dal singolo e rifiutata dalla massa.

 

 

Gold, di Thomas Arsland

 

Il ritrovato vento del western si è abbattuto anche sul cinema tedesco, con risultati esilaranti. Se anche Tarantino ha zoppicato un po’ per recuperarlo, forse è un segnale che – tra tutti i generi – il western è il più difficile da ricontestualizzare. Un gruppo di immigrati tedeschi si ritrova in Canada per cercare l’oro a nord del paese. Lungo il viaggio verranno poco a poco eliminati dalle condizioni esterne o dagli egoismi interni alla carovana. In sala si sghignazzava di gusto, ma il vero dramma non è quello interno alla trama, dell’avidità e del rischio, ma piuttosto il fatto che Gold non sia un film goffo e comico come sembra, anzi. Un film che fa ridere senza farlo apposta ha comunque qualche pregio?

 

 

Epizoda u zivotu beraca zeljeza - An Episode in the Life of an Iron Picker, di Danis Tanovic

 

Diretto dal regista di No Man’s Land, vincitore dell’Orso d’argento e del Premio per la migliore interpretazione maschile (quella di Nazif Mujic), un film difficile da classificare: a metà tra il documentario e la finzione drammatica, è una specie di “antropologia condivisa”, dove i protagonisti sono attori non professionisti e in scena vanno i loro problemi quotidiani. L’argomento, caro al festival di Berlino e lontano dalla consueta retorica sulla cultura rom, ricorda il vincitore del Gran premio della giuria dello scorso anno, l’ungherese Csak a szél di Benedek Fliegauf, tratto da fatti di cronaca e dedicato alle condizioni di vita dei rom, dalla discriminazioni sociali al rifiuto d’integrazione al desiderio di emigrare. Entrambi i film riescono finalmente in una rappresentazione “neutrale” delle comunità rom, senza patetismi e senza mitizzazioni. Le condizioni di questo successo sono condivise da entrambe le opere: la narrazione di storie realmente accadute, la durata della vicenda ridotta a pochi giorni, la reticenza a mostrare i personaggi in gruppo, ma piuttosto individualmente per quanto impegnati nel comune sforzo di aiutarsi; l’utilizzo di attori non professionisti, spesso coinvolti personalmente non solo nel film, ma nelle stesse questioni rappresentate. 

 

 

Side Effects, di Steven Soderbergh

 

Un regista prolifico come Soderbergh potrebbe andare a genio al pubblico tedesco. I suoi film, e in particolare questo Side Effects, assomigliano molto alle serie poliziesche che ogni domenica in Germania paralizzano gli spettatori davanti alla televisione. E in effetti il film potrebbe sembrare un prodotto per la televisione, con un trama intricata, un paio di colpi di scena fasulli prima del finale e una confezione “chiusa”, inattaccabile. Il film racconta la storia di una ragazza depressa (Rooney Mara) che, tramite l’assunzione di uno psicofarmaco, diventa sonnambula e uccide il marito; molto interessante è il rapporto tra la protagonista e il suo psicanalista (Jude Law), un rapporto che a tratti si converte dal modello del medico e del suo paziente a quello della vittima e del colpevole, e viceversa. Peccato che la vicenda sia troppo tirata agli estremi per convincere davvero e che anche in questo caso talvolta si ridacchi invece che trattenere il fiato: una cosa che in teoria non ci si aspetta da un thriller.

 

 

Prince Avalanche, di David Gordon Green

 

Con questo film Gordon Green ha vinto meritatamente il Premio per la miglior regia. Remake di un film islandese del 2010 (vincitore del Torino Film Festival), Prince Avalanche racconta la storia di due operai molto diversi fra loro, costretti a trascorrere molto tempo insieme nei boschi del Texas. Alvin (Paul Rudd) ama pescare, impara il tedesco con le audiocassette e riflette sulla propria condizione sentimentale; Lance (Emile Hirsch) è invece il fratello ventenne della fidanzata di Alvin, è pigro, si annoia e aspetta con ansia il weekend per provarci con le ragazze. Gli eventi sono quasi minimi e lo sviluppo psicologico non è sorprendente; sono però i piccoli cambiamenti d’umore a rendere interessante il film e a farne un oggetto “carino”. Certo, la categoria del film carino sembrerebbe disprezzabile, ma in questo caso dimostra come un piccolo film, senza troppe pretese eppure curatissimo, possa regalare emozioni allo spettatore.

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