Città frontale

27 Marzo 2014

Pubblichiamo un estratto dall'ultimo libro di Luca Rastello, I buoni (Chiarelettere). Il volume che sarà presentato a Milano martedì 8 aprile alle 18.30 (Frigoriferi Milanesei, Via Piranesi 10) - interverranno con l'autore Daniele Giglioli, Antonio Scurati e Francesco M. Cataluccio - è il primo titolo della collana narrazioni di Chiarelettere. Sul senso della nuova collana tutta dedicata alla narrativa ne parliamo con il direttore editoriale, Lorenzo Fazio, subito dopo l'estratto.

 

 


 

Dalla strada non si vedono i fuochi, frustati dal vento che batte gli scheletri d’acciaio. Prima erano templi del lavoro, capannoni alti come basiliche o grattacieli, centrali d’energia al servizio di un sogno d’industria, officine, luoghi della fatica feriale difesi con orgoglio da quelli che dentro scontavano il loro ergastolo e sbuffavano e smadonnavano per otto ore almeno, su tre turni, ogni giorno che Dio posava sulla terra, luoghi dannati eppure desiderati. Ora la città vive una sua vita sghemba da insetto, o da serpe bastonata, un nuovo sogno sognato con meno tenacia, che moltiplica i cantieri, parassiti di un futuro terziario promesso ogni sera e rimandato, e la sua gente ora cammina di lato, scarta a ogni passo cambiando preghiera. Il sogno ha la forma di scatole di calce a poco prezzo, arancione e azzurro a sedici piani, da tirare su in fretta perché arrivano le olimpiadi e allora tutto cambierà.

Si muovono veloci, come fanno i tarli nel legno o i castori quando costruiscono in mezzo all’acqua, ma su un territorio vasto, e tanta parte rimane inesplorata, protetta per decenni dalle mura delle fabbriche, accessibili solo a orari precisi a livelli diversi, da persone con diversa qualifica. Adesso quel terreno è aperto, gli spazi un tempo inviolabili se ne stanno violati, sventrati a ridosso delle strade, la vegetazione li invade, oscena anche d’inverno, e si aprono trappole proprio vicino ai piedi di chi passa. La vecchia industria ha perso il suo pudore e si offre a chiunque, per un’ultima emozione segreta prima delle ruspe: rimane sempre qualche angolo selvatico, fra le macerie e i rovi, dove sopravvive un intero popolo alla macchia, come le blatte nelle crepe dei muri, in lenta fuga dalla colonizzazione immobiliare.

Sono i saltatori di muri. Sono loro che accendono i fuochi la notte, per scaldare buchi provvisoriamente scampati al progresso: amano le erbacce, bruciano bene quando l’inverno le ha seccate, se sono abbastanza folte coprono le loro case alla vista delle avanguardie nemiche, assi e putrelle abbandonate sui cantieri. Sono lenoni e lavoranti in nero, badanti, aspiranti puttane, piccoli ragazzi con le idee confuse, gente che chiede elemosina e gente che sfrutta e gente che fa le pulizie negli uffici vuoti la notte. E poi intere famiglie, con i vecchi: arrostiscono ali di pollo rimediate a chiusura dei mercati all’ingrosso, dove arrivano a piedi o sui pullman, pronti a piangere o saltare alla vista dei controllori.

Non andarli a cercare: la loro è una terra pericolosa, sottratta alle abitudini della città. Basta appostarsi la sera sul marciapiede e guardare le murate delle vecchie fabbriche, e allora li vedi saltare. Volano al di sopra dei muri e atterrano sul marciapiede flettendo le ginocchia, scarpe da ginnastica o talloni nudi: iniziano il turno oppure hanno due soldi da spendere e vogliono per sé almeno una fetta della grassa notte di questa città occidentale. Saltano a uno a uno, per non farsi vedere troppo, hanno capito la mente del luogo che rifiuta quel che si nota e apprezza chi tace. Hanno addossato pedane di fortuna alle mura dei loro fortini, sul lato interno, e le usano come trampolini. Sono pochi a vederli, per ora: la città ha gli occhi impastati del suo magnifico futuro, pattini d’argento, sorriso di architetti, la cravatta dell’assessore ottimista.

Saltano solo i più giovani, i vecchi restano nei vani inesplorati ancora qualche tempo, arredano minuscoli spazi, sempre pronti a retrocedere progressivamente, come un esercito prudente davanti a un nemico con cui non è bene ingaggiare battaglia, smontano e rimontano i piccoli appartamenti che hanno inventato in mezzo ai detriti. I saltatori invece non amano i vani, abitano grandi capannoni, micidiali alla sferza del vento, loro si accucciano e, se possono, dormono. Quando possono, come fanno i soldati. Le famiglie dormono in un modo diverso: sono ammalate di quiete e villaggio, e grattano dentro stanze a piastrelle, fra le turbine di una centrale in disuso, negli ex chioschi per i guardiani o nelle palazzine degli uffici, appendono mensole di latta, attaccapanni, hanno lettini di ferro da mettere al riparo dove c’è appena un po’ di soffitto, la cucina economica a bombola, anche fiori per quel che rimane di una finestra. E inventano simulacri di casa, con simulacri di soglia, i vecchi si siedono a guardare la fangaia, e a registrare la vita che scorre tra le future macerie come in una piazza. Qualcuno appiccica candele sottili a quel che resta di un muro, qualche sguardo si alza verso il cielo.

Pagano anche l’affitto: di tanto in tanto arrivano i mediatori, uomini esperti, con la giacca, e tengono lo sguardo un po’ di lato, per assicurarsi che non venga nessuno a interrompere. Portano sempre la stessa notizia: i costruttori si avvicinano, bisogna togliere tende, smontare le mensole, ma c’è un altro piccolo spazio un po’ più in là, più in fondo, appena al di là dei rovi. E allora gli abitanti delle vecchie fabbriche riprendono la ritirata nel fango, come fanti slavi di un imperatore già morto.
Magari c’è posto anche dietro il carroponte, è solo questione di soldi, pochi per altro. E intorno fioriscono ancora nuovi parallelepipedi arancioazzurri per classi medie, disposte alla proprietà a prezzo contenuto, che per ora non esistono. Verranno su anche loro, come i rovi, l'assessore e l'architetto a ricordargli di esistere, accordarli sul diapason del brillante futuro cablato, terziario e fluido. In città il denaro gira ormai soltanto attraverso le mani dei costruttori.

 

Aza corre a perdifiato lungo le linee di questa fuga, a margine della città segreta dei saltatori: lei la vede come uno spazio tagliato da luci abbaglianti, improvvise. Quando può ferma il tempo su questa terra di nessuno, conosce il segreto del sonno e delle sue soglie, dove non sai mai bene dove sei, e neanche chi sei, bambino o uomo, amante abbandonato o soddisfatto o vecchio solo o parente assopito sulla seggiola di un ospedale. È questo ora il suo rifugio, senza colla e senza i canali, senza l’abbraccio caldo di Adrian e della sua gente, Aza dorme. Adesso può farlo ovunque, in qualunque ora del giorno o della notte, si acquatta e dorme subito, fino al fondo di sé. A volte si sveglia con quella sensazione insoddisfatta, derubata, dei bambini che credono di avere appena chiuso gli occhi. Dorme ogni volta che riesce a scavare una nicchia fra i rottami del capannone, e nelle case altrui e, se fa caldo, all’aperto, nei gerbidi di prima periferia dove non passano le ronde. Chiude gli occhi e si possiede per intero, così perfettamente: per pochi, brevi minuti tira di spada come un cavaliere medievale, cuce un abito da sposa colossale, e tende ricamate per una casa piena di luce, cammina su tacchi da vertigine, segna gol in rovesciate volanti e para rigori nella finale dei mondiali, corre in formula uno, si tuffa in piscine sospese in aria, attraversa il Mediterraneo su navi da crociera o libera la sua terra dai turchi cavalcando criniere volanti sopra certe valli vertiginose al confine dei Carpazi, facendo fruttare quei segnetti luminosi che ballano nell’occhio chiuso, lasciandoli danzare e componendo immagini con la mente. (Se il sogno continua anche quando dormi, porta fortuna). L’arrivo del sonno la rende golosa.


È in Italia da tempo, salta i muri con la sua eleganza d’acrobata, ha anche lavorato per i mediatori dell’affitto clandestino, riscosso, fatto i conti. Ha stretto amicizie, sa annusare la violenza quando arriva e si fa trovare sempre un passo a lato.

 


 

Con il romanzo di Luca Rastello I buoni, Chiarelettere innaugura una nuova collana dedicata alla narrativa. Abbiamo incontrato il direttore editoriale Lorenzo Fazio chiedendogli il senso di questa nuova iniziativa

 

Lorenzo Fazio

Perché una nuova collana?

L’idea è quella di provare a ampliare il nostro raggio d’azione e arrivare a più lettori con libri di fiction, quindi d’invenzione, che però traggono spunto e si riferiscono a situazione e temi ben reali. Non pubblicheremo quindi libri sentimentali, psicologici, o di semplice intrattenimento, andremo avanti sulla nostra strada, quella di raccontare e testimoniare la realtà, quella più indicibile e contraddittoria, attraverso non più l’inchiesta o il pamphlet ma attraverso una storia e dei personaggi inventati. Libri quindi che si pongono su una linea che sta a metà tra la narrativa e la saggistica.

Qualche esempio?

Esempi di libri così non mancano, primo fra tutti Gomorra di Saviano. Non saremo  vincolati però a un’unica formula, tanto è vero che già il secondo libro è un romanzo storico, La figlia Papa di Dario Fo che ricolloca i problemi dell’Italia di oggi nell’Italia del Quattrocento. Ci prendiamo quindi la libertà di  usare anche il passato per raccontare con personaggi  e fatti veri e documentati situazioni e dialoghi assolutamente frutto dell’invenzione. Una realtà o una fiction aumentata dunque dove  piani differenti si sovrappongono come d’altra parte succede sempre di più anche oggi dove spesso la dimensione virtuale  entra a far parte della nostra esperienza diretta.

Nuovi libri per nuove verità?

Questa collana dà modo agli autori di raccontare più liberamente quanto a loro sta più a cuore e che magari altrimenti avrebbero difficoltà a ricostruire. La verità, anche quella più evidente, se non suffragata da documentazione e prove vagliate in sede giudiziaria, non sempre si può dire, in questo modo usando nomi d’invenzione e realtà simulate, invece l’autore può far arrivare lo stesso ai lettori un messaggio e l’urgenza di una problema. Come sappiamo spesso la letteratura, lo stile letterario, per il suo modo obliquo di veder la realtà, può essere più incisivo e rimanere impresso nella mente di chi legge più di mille denunce documentatissime. Il sentimento della realtà è più forte della stessa realtà.


Quali sono i primi libri della collana Narrazioni?


Rastello con il romanzo I Buoni (in libreria da oggi) riesce a far vedere le contraddizioni all’interno di una comunità per il recupero dei tossicodipendenti  che è collegata a molte opere di bene in difesa della legalità. Basta una ragazzina povera e incolta che arriva dai bassifondi di Bucarest a far saltare tutti gli equilibri di chi si sente certo delle proprie verità. Ci voleva lei per poter raccontare una realtà troppo scomoda. E ci voleva una storia di dissoluzione e di corruzione come quella di Lucrezia Borgia per far vedere come l’Italia del Duemila sia precipitata  così in basso. Il passato viene in aiuto al presente.  Lo dimostra appunto Dario Fo nel secondo libro della collana, La figlia del Papa,  in uscita il 10 di aprile.  Il primo romanzo vero scritto dal premio Nobel per la letteratura. Anche questo è un evento.

 

Terzo libro quello di Luigi Bisignani, Il direttore, in uscita il 28 aprile, un romanzo sul potere, quello vero, che fa male, che incrocia interessi diversi e che attraverso l’informazione, più esattamente un giornale, governa e orienta i fatti del paese. Stiamo parlando dell’Italia di oggi, di adesso. Ancora una volta Chiarelettere racconta il potere anche se in una chiave narrativa. Un vero thriller in cui illustri banchieri, cardinali, spie e servizi segreti, giornalisti e magistrati fanno a gara per inseguire ciascuno un pezzo di verità. E nasconderla, a modo loro, usando tutti i mezzi, anche l’omicidio.

Quale sarà la veste grafica della collana?


Naturalmente nel mare di libri di narrativa esistenti sul mercato Chiarelettere ha voluto trovare una propria collocazione originale. Così come ha fatto per le precedenti collane di saggistica. Anche questa sarà firmata da David Pearson, già grafico della Penguin inglese, e anche questa non userà in copertina le solite illustrazioni a tutta pagina che siamo soliti vedere nelle collane di narrativa (unica eccezione il libro di Fo che utilizza una sua illustrazione). Il primo libro di Rastello ha una copertina rigorosamente grafica ma con la scritta dell’autore e del titolo che formano insieme una croce obliqua che richiama il tema del libro. Il libro di Bisignani ha invece il titolo montato su due rulli che esemplificano i rulli di una rotativa di un giornale.

 

Una copertina che per le caratteristiche anche fisiche che presenta – i rulli sono in rilievo e il sangue che cola ha una rilevanza cromatica diversa rispetto agli altri elementi della copertina – ha una sua originalità di forte impatto. In più c’è una sorpresa: nelle prime pagine due disegni illustreranno il libro, una specie di presentazione raffigurata del testo, un “proscenio” che ospita illustratori italiani e stranieri di volta in volta chiamati a raccontare il “loro” libro. Anche questo è un modo per lanciare un messaggio ai lettori: il libro rimarrà un oggetto unico e prezioso, sempre di più, ed è frutto di intelligenze e stili diversi, ognuno frutto di un’alchimia irripetibile.
 

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