Patrizia Cavalli / Capricci di Moda

3 Dicembre 2017

La moda ha un temperamento incostante, volubile, e averci a che fare vuol dire impelagarsi in una serie di faccende capricciose, le Flighty Matters descritte in versi da Patrizia Cavalli, poetessa alle prese con sei oggetti nel cui nome “c’è il loro destino”.

La moda portata, percepita, incomprensibile, inservibile, trova spazio in sei poesie e un racconto, raccolte in un libro edito per la prima volta nel 2011 su commissione della Deste Foundation for Contemporary Art, ripubblicato in versione economica da Quodlibet nel 2017.

La penna di Patrizia Cavalli incontra, interpreta e circoscrive l’estro degli stilisti Diane de Clerq, Stefan Janson, Nasir Mazhar, Alexander McQueen, Issey Miyake e Victor & Rolf, le cui creazioni sono accomunate da fili conduttori che spaziano dalla dicotomia tra inservibilità e usabilità alla rimediazione del mondo animale.

 

L’opposizione fra inservibile e usabile è rappresentata mediante due paia di scarpe, gli ankle boots Armadillo di McQueen e le stringate di Miyake: le seconde sono così comode ed “estatiche che ballano da ferme”, le prime sembrano chiederci «ma è proprio necessario camminare?», per via dei loro 30cm di tacco, e della tomaia a scaglie dalla forma bombata che esaspera il collo del piede e rimanda agli artigli e alle placche ossee del dorso degli armadilli, nomen omen. Le suggestioni animistiche continuano nella poesia ispirata alla cappa Cerf-volant di Janson, la cui denominazione, in francese, assume il doppio significato di aquilone e cervo volante, la specie più grande di coleottero europeo. La cappa in questione è composta di piume di oca, di fagiano e faraona, le quali compongono un pattern “a righe trasversali” simile a quello impresso sugli aquiloni. In questo caso la poetessa esplicita il desiderio innato dell’essere umano di condividere la forza degli animali, di assorbirne le qualità caratterizzanti, come propugna l’ottica animistica e sciamanica, trasformando gli indumenti a loro immagine e somiglianza, per fare in modo che siano vitali per l'esistenza umana quanto lo sono per uccelli e coleotteri piume e ali, cercando di replicarne anche le funzioni termiche, di protezione e copertura. Cosa accade nell’indossare la cappa di Janson? Cavalli ha la risposta pronta: “scrollo il culo come anatra riemersa: sarò dritta, impermeabile, protetta”.

 

 

Sotto la cappa, la metamorfosi da volatile piumato a robusto coleottero avviene veloce e impercettibile come un battito di ali, o meglio di elitre, che pur se hanno perso la loro ragion d’essere perché indurite, dall’evoluzione della specie o da chissà quale progetto di madre natura, offrono protezione dagli agenti esterni. Le elitre avviluppano il corpo e il capo, come le falde del cappello realizzato da Mazhar con cui si navigano “spazi siderali” tracciando orbite eccentriche come quella di Mercurio, pianeta, ma anche elemento chimico impiegato nella fabbricazione del feltro dai cappellai del Settecento e dell’Ottocento, i quali, a causa del costante contatto con il metallo liquido, spesso finivano per esserne intossicati, sviluppando il disturbo neurologico conosciuto col nome di mad hatter disease, da cui deriva il Cappellaio Matto del romanzo fantastico di Lewis Carroll.

 

Il cappello di Mazhar non copre il capo, fa respirare il cervello, poiché le sue falde avvolgono il capo con volute incostanti, mercuriali (nell’accezione anglosassone del senso), barando sulla sua ragion d’essere, come la giacca di Diane de Clerq che “tra le righe nasconde carte false”. 

Con Victor & Rolf, invece, attraverso un tutù destrutturato, si indossa il distacco che non vuol dire allontanamento spirituale o disinteresse, bensì una scomposizione per pezzi, per tasselli, della realtà, giusto per comprenderne il funzionamento, indagando il suo sostrato emozionale.

Ciò ci porta a riflettere sulle passioni dello shopping, magistralmente narrate da Cavalli riportando un’esperienza sinestetica autobiografica, riguardante l’acquisto delle stringate di Miyake servibili, comode, che obnubilano la mente a prima vista, capaci di far sentire “un brivido aristocratico che dai piedi mi saliva su lungo le gambe, e saliva saliva e raggiungeva le spalle, e poi, trascorrendo sulla nuca, con circonvoluzione della testa, mi scendeva davanti fino a irradiarsi nel cuore. Se delle scarpe riescono a fare un giro simile, non sono certo scarpe qualunque!”. 

 

Cavalli non è una shopaholic soggetta a “incontenibili furori acquisitivi”, bensì una compratrice occasionale, svogliata, che soffre per il distacco provato nel momento dell’imbustamento successivo alla conquista delle cose amate. Già, se si desidera tanto un oggetto di moda – si chiede Cavalli – perché bisogna privarsene subito dopo la congiunzione e aspettare l’occasione giusta per indossarlo? E soprattutto esiste davvero l’occasione perfetta o è soltanto un costrutto mentale? Così facendo si rischia di recludere le cose negli armadi, condannandole a un’esistenza ancor più breve di quella già insita in loro per via dei cicli di vita stabiliti a priori dalla moda, sempre più compressi e volatili. Insomma, le scarpe con cui sembra di galleggiare dovrebbero essere indossate subito, ogni giorno, senza aspettare il momento giusto che potrebbe anche non arrivare. 

 


Flighty Matters non solo è utile a comprendere la passioni della moda, ma anche quelle della scrittura, infatti i testi sono accompagnati da diciotto riproduzioni dei manoscritti originali, ovvero gli appunti della poetessa, in cui sono inglobate le immagini dei capi e delle calzature descritti sinora, che svelano al lettore i passaggi fondamentali della stesura definitiva, in cui sono incisi frammenti di quotidianità frammisti a insight germinali.

 

I manoscritti assurgono a vere e proprie opere, valorizzate, seguendo Schapiro, per “la loro condizione di non finito”, e dunque i fogli con cancellature e sottolineature portano il lettore a ricostruire la genesi del risultato finale in potenza, a partire dall’idea creatrice. Sembra quasi di potersi immedesimare nella circostanze della produzione, in una sorta di simulazione della presa diretta, immaginando Patrizia Cavalli durante la stesura della sua poesia, proiettandosi nel tempo della creazione. Questi appunti, per dirla con Eco, ripercorrono le tappe del processo di produzione e sono da considerare come “discorsi nascosti” a cui generalmente il lettore non dovrebbe mai poter avere libero accesso, perché rientrano nell’ambito di una “intertestualità del profondo” in cui prende forma una focalizzazione interna dell’autore, incentrata sul suo intimo sentire, attraverso cui scaturiscono le associazioni analogiche e le sinestesie per connessione innescate dagli oggetti fonte d’ispirazione.  

 

I manoscritti di Patrizia Cavalli rappresentano il nucleo dell’intenzionalità autoriale, la traccia delle sue ricerche stilistiche e della sua partecipazione emotiva nella redazione dei testi, dove l’opera finale emerge per sottrazione, la colonna portante della creazione dei suoi testi, decisamente più brevi delle versioni embrionali tratteggiate penna su carta. E qui la scrittura a mano contribuisce a sottolineare la presa di coscienza di un processo passionale in fieri, atto a rappresentare il ciclo di vita di un sentire lessicalizzato, di uno stato d’animo che sorge nel soggetto, poi riconosciuto, compreso, nominato e ratificato rispetto alle categorie culturali di riferimento.

Se le poesie di Cavalli colpiscono all’istante per via della loro brevità, il lettore attento dovrà impiegare più tempo e fatica a leggere le parti manoscritte, decifrando la calligrafia tipica degli appunti scritti di getto, grazie a cui l’opacità del senso diviene trasparente, visto che la sua generazione è resa esplicita, sic et simpliciter. 

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