Lady Diana tra i cannibali

11 Settembre 2013

Pur non credendo più ai fantasmi, la nostra epoca ha avuto quantomeno la fortuna di scoprire come il tempo sia popolato – un po’ come una volta si diceva lo fossero i vecchi castelli – di sopravvivenze, di tracce, di latenze: forze che, a lungo dormienti, d’improvviso si riattivano. Di questo arsenale di gesti, atteggiamenti, ritualità, che resterebbero altrimenti inespressi, l’umanità si serve all’occorrenza, per lo più senza saperne niente.

 

Gli articoli che Claude Lévi-Strauss scrisse su richiesta di “Repubblica” in un arco di anni che va dal 1989 al 2000, raccolti ora da Seuil sotto il titolo di Nous sommes tous des cannibales, offrono un lucido esempio delle latenze che intessono la trama del tempo, “tracce di una condizione antica che risorge quando la si credeva definitivamente scomparsa, ma che sono anche sempre attuali, per quanto solitamente invisibili, sepolte nelle profondità delle strutture sociali”.

 

  

 

Valga come esempio il testo memorabile che l’anziano antropologo scrive a qualche mese dalla morte della principessa Diana Spencer. Quando erano già visibili i segni del culto che avrebbe portato l’ex moglie dell’erede al trono del Regno Unito a incarnare quella figura mitica che va sotto il nome di “Lady Di”, l’articolo di Lévi-Strauss registra un fenomeno che chiama le retour de l’oncle maternel. Se quella dello zio è oggi una relazione parentale senza alcun significato particolare, anticamente era invece dotata di una potenza tutta propria, se è vero che la parola “zio” discende dalla radice the- che è quella del greco theós, il dio. Lo zio sarebbe dunque niente meno che un parente divino. Così nell’orazione funebre tenuta alle esequie nell’Abbazia di Westminster il fratello di Diana, Charles avvalora l’esistenza di un legame speciale tra lui e i figli della sorella, che gli dà il diritto e il dovere di proteggerli, eventualmente anche contro il padre e la stessa famiglia reale. Qui Charles occupa l’antica posizione del “donatore della donna”, che ha nei confronti della sorella o della figlia (e dei loro figli) il dovere di intervenire nel caso in cui la creda maltrattata. Singolare è in effetti che, oltre che alla sorella, Charles indirizzi direttamente il suo discorso ai giovani figli di Diana. Se da un lato solo un parente di sangue (we, your blood family) è qui legittimato a parlare in questi termini, d’altra parte la cosa più importante non è questa consanguineità: la parentela non si esaurisce certo nell’affermazione di un dato biologico, ma implica invece un specifico impegno in prima persona – lo si potrebbe chiamare: un impegno etico. Qui si rivela quale sia la vera posta in gioco: lo zio eredita l’impegno della madre di allevarne i figli nel suo nome e nella traccia da lei segnata.

 

A essere istituita a meno di una settimana dalla morte drammatica di Diana è pertanto un’altra linea di filiazione che mette lo zio in una posizione privilegiata rispetto allo stesso padre biologico. La formula di questa supplenza è on your behalf: lo zio – non il padre, non la nonna, non altre parti pure più nobili della nobile famiglia – si assume il ruolo di unico sostituto legittimo della madre morta, in suo nome.
Occorre non confondere questa risorgenza della figura dello zio materno con l’esistenza di una linea matriarcale: è invece proprio il patriarcato che necessita di correttivi e che ne trova uno nella figura dello zio materno, vera e propria “madre maschile”, che ha l’autorità di opporsi all’altrimenti irresistibile potere del padre e della famiglia paterna. Per questo là dove la relazione tra padre e figlio è amichevole, lo zio assume le sembianze di un’autorità severa; quando è il padre a essere severo, la figura dello zio è piuttosto una figura di tenerezza e di libertà.

 

ph. Patrick Demarchelier

 

È forse il divorzio ad aver reso possibile questa scena? Lévi-Strauss dice no: non si è trattato tanto di una polemica contro la casa reale, ma di una regola codificata dalle società più diverse. A questo proposito esistono numerosi esempi in ambito antropologico che mostrano come la famiglia possa fare a meno della presenza del padre, al di là del concepimento biologico, ma non possa fare a meno di una presenza maschile, “di casa”, com’è quella del fratello della madre. In altri termini la competizione è sempre tra padre e zio materno, a prescindere dall’esistenza di altri motivi di conflitto. Lo conferma pochissimi giorni dopo il funerale la stizzita presa di posizione di Charles (l’ex-marito) nei confronti di Charles (lo zio materno) riportata dai giornali dell’epoca: sarà lui e solo lui a occuparsi dell’educazione dei figli.

 

Anche un culto fiabesco (nel senso disneyano del termine) come quello di Lady Di non rinuncia dunque alle sue figure arcaiche, ai suoi fondamenti magico-teologici. In questo senso è indicativo come Diana venga posta dal discorso del fratello come creatura divina, a cominciare dal nome, dotata di un “particolare tipo di magia”. Ma è una divinità dalla sorte inversa, il cui culto si declina a partire dal lutto che ne costituisce parte integrante: la dea della caccia era diventata, come Charles non manca polemicamente di notare, “la persona a cui più si è data la caccia nell’età moderna”.

 

 

Non si farebbe certo troppa fatica a vedere in tutta questa vicenda un ulteriore capitolo della società spettacolare. Del resto Charles Spencer non è solo un fratello, ma anche un esperto comunicatore, giornalista della stampa e della televisione britannica. Ed è anche significativo che Diana sarà sepolta proprio nella tenuta di campagna del fratello, in cui accanto al mausoleo verrà allestito un museo con gli effetti personali, tra cui il celebre abito da sposa. Occorre certamente riconoscere questo discorso funebre per quello che è: un testo fondamentale per comprendere il tardo XX secolo che si avvicinava al suo tramonto, consegnandoci i suoi eroi.

 

D’altra parte il gesto di Charles va al di là delle esigenze di protocollo e al di là della stessa insofferenza degli Spencer per la famiglia reale o delle stesse interpretazioni polemiche a cui il suo discorso è stato troppo spesso ricondotto. Benché all’interno dei rituali arcaici di una monarchia antica, l’intervento del Nono Conte Spencer mostra in maniera esemplare che cosa un atto di questo tipo implica: è attraverso il suo eccesso che si rende capace di misurarsi con un momento a cui si era impreparati, ma che richiede risposte che vadano al di là degli stereotipi o delle soluzioni prestabilite, con cui si tenderebbe a reagire. Un atto di questo tipo incarna quella discontinuità che il momento richiede. Un gesto così non è mai dato: è ogni volta da inventare, perché ogni volta chiede a chi lo compie di sporgersi verso il suo fuori, verso la dimensione esorbitante implicata nel suo stesso farsi. È forse solo in virtù di una tale invenzione che ci si assume la responsabilità di un dire e di un fare al di là del previsto, per quanto questo non possa essere avvertito che come strano, inaudito, non previsto dalle convenzioni, in una parola: perturbante. Così sulla comparsa di questo “zio materno” si misura anche la necessità d’inventare di volta in volta risposte uniche e singolari a ciò che di singolare e unico accade nelle nostre vite. Il paradosso è che nel farlo ci si trova talora in compagnia – per lo più senza saperne niente – dell’autorità a lungo trascurata di figure antichissime e dimenticate che, se ora appaiono nuove, è perché sono capaci di declinarsi sin dentro l’urgenza di una situazione che non ha uguali.

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