Filosofia del mondo nuovo / Maurizio Ferraris. Documanità

“Come faccio a spiegare a mia moglie che mentre guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”, si chiedeva Conrad, scrittore e navigatore. Questa difficoltà di comunicazione, di coordinamento intersoggettivo – in epoca di “smart working” lo sappiamo bene – può soffocare sul nascere i migliori pensieri: “Quando fai la lavatrice?”, “Il lavandino si è bloccato!”, “Cosa mangiamo per cena?” e l’idea vola via. Per ovviare a questo annoso problema, a inizio Novecento si pensò alla tecnologia. L’“Isolator” era uno scafandro, brevettato dal fisico Hugo Gernsback, che lo scrittore indossava per non essere disturbato. Tecnicamente era perfetto: nemmeno un filo di voce passava. Ma umanamente era insostenibile. La questione, pare, fu invece risolta da un poeta, Sanguineti: mentre lavorava indossava un cappello, e quando lo si vedeva con addosso il copricapo non doveva essere disturbato. Tolto il cappello, gli si poteva chiedere di sbloccare il lavandino. Insomma, la “smartness” non è mero tecnologismo, ma è una soluzione che, al tempo stesso, risponde a un bisogno e si adatta alla nostra condizione.

 

In un’epoca in cui abbiamo il martello tecnologico e vediamo solo chiodi (Scilla), o in cui vagheggiamo improbabili fughe dalla tecnologia (Cariddi), serviva davvero la filosofia per spiegare in maniera “chiara e distinta” che, se si vuole parlare di digitale con “smartness”, bisogna innanzitutto partire dall’essere umano (e dai suoi tratti). Sul buon vecchio – tanto prezioso quanto impraticato – “conosci te stesso” poggia il nuovo libro di Maurizio Ferraris: Documanità. Filosofia del mondo nuovo, edito da Laterza. E questo è un primo e fondamentale merito del volume. Ferraris propone un’antropologia che potremmo definire “leopardiana”, se non fosse per l’esito tecnologico. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il pastore interroga la Luna sulla condizione umana. La Luna è immobile e piena. Il gregge è miserabile, ma non ha desideri né aspirazioni. L’uomo, invece, è lacerato: condivide con il suo gregge l’animalità, la mortalità, ma il suo desiderio non è terreno, va ben oltre. Questa antropologia laica conduce, in Ferraris, alla costruzione tecnologica. “L’umano – scrive Ferraris – è il solo animale insofferente e dunque sofferente rispetto a ogni ambiente”, “in quanto animale instabile, inadatto e insoddisfatto, solo l’umano è povero di mondo e bisognoso di tecnologia”. Può morire, però, “e questo cambia tutto”. 

 

Questa operazione antropologica, anti-essenzialista ma al tempo stesso umanista, permette a Ferraris di sbarazzarsi in un colpo solo di tutti i “mala tempora” legati al digitale. Non siamo “originariamente perfetti ed autonomi”, non c’è “una qualche persuasione occulta che perverte la natura umana”. Quella che Ferraris chiama “sindrome di Rousseau”, ovvero l’idea secondo la quale esiste una “Natura Umana, data per sempre, deformata dalla storia, e a cui si deve ritornare” è puro abbaglio. Piuttosto, siamo sempre al telefonino, o sui social, perché già Aristotele ci aveva definiti animali dotati di linguaggio, esseri comunicativi e sociali (questa volta, con la “i” finale). Insomma, per trattare adeguatamente il digitale bisogna innanzitutto inquadrare la condizione umana: nessuna tecnologia ci salverà (men che meno l’“Isolator” e i suoi numerosi nipotini), e nessuna tecnologia ci distruggerà (il padre preoccupato dal figlio che gioca con lo smartphone, a suo tempo, giocava con i primi videogame – ed è sopravvissuto). Piuttosto, i tratti umani sono emersi nella storia in biunivoco rapporto con la tecnologia. Vi è una connessione sistematica e indissolubile con la tecnologia, al punto che “la tecnologia deve essere considerata una parte dell’antropologia, e, reciprocamente, l’antropologia è l’altro volto della tecnologia”. Questa è, forse, la principale chiave di lettura che Ferraris consegna alla folla di curiosi che, come nel dipinto del Tiepolo, si sta accalcando per scrutare il “Mondo Nuovo” appena giunto.

 

Umanità tecnologica e tecnologia umanista sono, insieme, la cornice all’interno della quale Ferraris fornisce una concreta proposta per un “mondo nuovo”. Coerentemente, l’umano è immerso in un mondo automatizzato, ma è un polo essenziale che conferisce senso ai processi che strutturano quel mondo: così la tecnologia diventa umanista. Ciò implica generare “un webfare, che significa libertà dai bisogni materiali come pure dall’ignoranza e dal pregiudizio”. Il webfare, detto banalmente, è una forma di stato sociale pagato dalle piattaforme web (ai vertici del mondo per capitalizzazione, ma non per addetti).

 

 

Il punto centrale è che, per realizzare il webfare, occorre trovare un equilibrio tra tutti gli elementi coinvolti dalla relazione tra natura (umana) e tecnica, rimanendo proprio nell’ambito della cornice di cui sopra. Ciò significa, da un lato, promuovere senza passatismi lo sviluppo di ambienti tecnologici (in primo luogo, in questi anni, quelli delle piattaforme digitali, le celebri Gafam – Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft): l’uomo è povero di mondo e bisognoso di tecnologia. Dall’altro lato, si tratta di orientare il processo tecnologico (ed economico) in senso antropologico, secondo un ideale di giustizia umana: la tecnologia non può che essere inscritta in un ordine etico e sociale, determinato dalle vite delle donne e dagli uomini. 

 

Circa questo difficile equilibrio, risultato di spinte contrapposte eppure complementari, appare significativa una celebre raccomandazione di Metternich, citata da Ferraris nell’incipit dell’ultimo capitolo di Documanità: “Gli abusi del potere generano le rivoluzioni; le rivoluzioni sono peggio di qualsiasi abuso. La prima frase va detta ai sovrani, la seconda ai popoli”. “Quanto a noi – aggiunge e precisa Ferraris – la prima frase va detta alle piattaforme, la seconda agli utenti e ai loro rappresentanti”.  Insomma, l’umano può essere danneggiato dalla tecnologia, ma essere privi di tecnologia, rinunciare ai suoi grandi progressi, può rivelarsi un danno ancora peggiore. Il cavallo delle piattaforme va quindi addomesticato, non abbattuto. Se non si ha la forza necessaria di addomesticarlo, si cade a terra e ci si può fare male, ma, se lo si abbatte, poi tocca camminare a piedi e viaggiare molto più scomodi.

Il riferimento alla rivoluzione, a nostro parere, non è affatto campato in aria. Non a caso la benzina del cosiddetto “populismo” sembra essere la rabbia e il risentimento, ampiamente comprensibili alla luce delle crescenti disuguaglianze nelle società occidentali (proprio quelle in cui sono nate e prosperano le Gafam) e altrettanto ampiamente certificate da enti e istituzioni indipendenti. Le disuguaglianze, ovviamente, non sono semplicemente di reddito (la vecchia faglia ricchi/poveri). Vi sono altre direttrici lungo le quali le società contemporanee, oggi e domani, rischiano di esplodere: ad esempio, la faglia bassa protezione/alta protezione, oppure quella bassa istruzione/alta istruzione.

 

Nel primo caso (bassa/alta protezione), troviamo i tutelati da un sistema del lavoro eredità del sistema keynesiano e dello stato sociale: i dipendenti pubblici, i lavoratori della grande industria (spesso partecipata dallo Stato o sovvenzionata), i cosiddetti “strutturati”, i pensionati con il metodo retributivo eccetera. Dall’altro, coloro che non sono tutelati, ma subiscono i rischi tipici del recente corso storico: gli operai delle aziende che rischiano la delocalizzazione, i precari, le finte partite iva, gli artigiani, eccetera. Nel secondo caso (bassa/alta istruzione), troviamo coloro che, in un’economia della conoscenza, hanno un buon reddito ma una bassa istruzione, e quindi non possiedono il bagaglio culturale “individuale” adatto ad affrontare le turbolenze e i cambiamenti (anche digitali!) attuali e coloro che magari hanno un reddito più basso ma sono altamente istruiti, e quindi più “equipaggiati” a navigare nella complessità. Non a caso la proposta di Ferraris non riguarda la mera redistribuzione di reddito, ma più precisamente l’implementazione della versione 2.0 del welfare, inteso come protezione sociale e finalizzato anche all’educazione e alla cultura. 

 

Analizzando sociologicamente ed economicamente le grandi piattaforme digitali, sappiamo non soltanto che esse stanno accumulando enorme valore e sproporzionate ricchezze, ma anche e soprattutto che il loro successo si fonda sulla straordinaria capacità di far incontrare diverse categorie di utenti (sono dette “multiversante”). Questa capacità è alimentata proprio dai dati offerti dagli utenti: però l’umanità, il più delle volte, lavora gratuitamente per le piattaforme. O meglio, come sostiene precisamente Ferraris, “ogni registrazione è capitalizzazione attuale o potenziale, dunque valore”. In cambio della gratuità dei servizi, le persone cedono i loro dati e su questi dati – al netto del costo dell’erogazione del servizio – le piattaforme si arricchiscono enormemente: è un “plusvalore documediale”. Ancora Ferraris: “si sente e si legge sempre: se è gratis, il prodotto sei tu. Non è vero. Se è gratis, il produttore sei tu”. La rivoluzione informatica ha trasformato azioni passive, come l’ozio, in attività economicamente rilevanti e spendibili: tutto è potenzialmente sfruttabile. L’otium e non il negotium. E così i big data, “big” proprio in quanto nutriti dalle attività di miliardi di persone, potenziano l’intelligenza artificiale delle macchine, il vero e proprio asso nella manica delle piattaforme. L’analisi psicografica – resa sempre più precisa dalla massa di dati immessa dagli utenti del Web – permette una migliore profilazione, la profilazione abilita il microtargeting, il microtargeting fa fare un sacco di soldi. Per non contare tutti i nuovi servizi basati sui dati che vanno oltre l’aspetto pubblicitario: pensiamo all’ambito assicurativo, a quello ambientale, della mobilità, e chi più ne ha più ne metta. Ma, se l’input economico nel processo economico è umano, ciò va riconosciuto e, se pure il consumo è umano, ciò va alimentato, in entrambi i casi dando vita a una nuova fase sociopolitica, caratterizzata dal webfare.

 

In conclusione, parafrasando Keynes, quali sono le “prospettive filosofiche per i nostri nipoti”? Le basi su cui Ferraris concepisce il mondo in cui vivremo (un mondo, parrebbe, frutto di una concezione politica progressista) sono essenzialmente tre: il consumo, che anima l’apparato tecnico fornendogli finalità umane da soddisfare (“è tanto facile espellere gli umani dal ciclo produttivo quanto è difficile prescinderne nel ciclo economico” – argomenta Ferraris), l’educazione, ovvero la possibilità di promuovere qualcosa di esclusivamente umano, “che non è alla portata di nessun computer”, e infine l’invenzione, ovvero la capacità autopoietica degli umani. Insomma, come direbbe Popper, il futuro è aperto.

 

Documanità. Filosofia del mondo nuovo, M. Ferraris, Laterza, Roma-Bari.

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