Franco Basaglia, il dottore dei matti

1 Agosto 2012

L’Italia, che oggi è un paese profondamente malato e la cui malattia non è certo e soltanto la crisi economica, ha prodotto negli anni Sessanta e Settanta un formidabile corpus di pratiche e teorie critiche che hanno allagato il nostro sistema politico e legislativo, rendendolo per un breve arco di tempo un po’ meno lontano dai cittadini reali e dai loro bisogni.

 

Basti pensare al movimento delle donne, che d’un colpo, con una irriverente spallata, si smarca dai luoghi della politica istituzionale, ma anche dalle sedi delle organizzazioni più anti-istituzionali, e comincia a porre a gran voce non l’uggiosa ‘questione femminile’ cara alle Sinistre, bensì le questioni che nascono da un modo diverso di guardare, abitare e pensare il mondo. I femminismi di quegli anni non vanno all’assalto del Palazzo per impadronirsene e neppure per spalancarne i cancelli e partecipare da pari alla gestione del potere. È proprio il discorso del potere in sé e della sua origine sessuata a essere indagato, rivelato e messo a testa in giù. E, insieme ad esso, i suoi strumenti, le reti di dipendenza, servilismo, omertà, esclusione che esso crea, il suo immutabile indiscusso statuto di sola forma possibile della relazione tra individui e tra gruppi.

 

O alla magnifica esplosione di ardite – e ancora non manipolatorie – pratiche antiautoritarie nel campo dell’educazione. Pensiamo a Don Milani e alla sua scuola di Barbiana: un esperimento efficace proprio perché situato e per niente intenzionato a diventare un modello esportabile o replicabile, a trasformarsi in esempio da seguire come un’’autorità buona’, speculare e contrapposta a quella cattiva, ma pur sempre autorità. O a Danilo Dolci che, in uno dei lembi più poveri e oppressi della Sicilia occidentale, fa un lavoro sociale e educativo fondato sul coinvolgimento e la partecipazione diretta degli interessati, sulla “capacitazione” di chi è abitualmente escluso dal potere e dalle decisioni.

 

Franco Basaglia – e con lui il multiforme insieme di sperimentazioni che hanno come obiettivo lo svelamento e la destrutturazione di un sistema di gestione della ‘devianza’ e della ‘malattia mentale’ che, invece di recuperare e curare, opprime, isola, disumana – è una delle figure più emblematiche di quegli anni. Psichiatra-filosofo, consapevole che idee e azioni non possono essere disgiunte, che dietro al fare deve esserci un pensiero che di continuo si verifica e si aggiusta in un nuovo fare, è stato e resta uno degli intellettuali italiani più ‘organici’ e meno cooptabili della generazione che per comodità si associa al ‘68.

 

Oggi, a poco più di trent’anni dalla sua morte, Oreste Pivetta, un giornalista milanese schivo e assai poco affascinato dalle luci intermittenti della società dello spettacolo, gli dedica un volume ‘biografico’(Franco Basaglia. Il dottore dei matti, Dalai editore, Milano 2012) che suggerisco soprattutto ai più giovani di leggere. L’operazione ‘biografica’ compiuta da Pivetta è infatti un paziente e accurato lavoro di accostamento alle idee e alle pratiche di Basaglia, così come sono andate applicandosi prima a Gorizia poi a Trieste. Le ricchissime fonti su cui l’autore lavora sono gli scritti di e su Basaglia, i suoi interventi in varie assisi internazionali, ma anche i numerosi articoli di giornale, spesso a lui ostili, che accompagnano la sua frastagliata e inevitabilmente avventurosa attività di sperimentatore, di vero e proprio apripista. E accanto alle fonti scritte ci sono le voci dei tanti suoi collaboratori e compagni di strada: psichiatri come lui, amministratori locali che credono nella propria responsabilità, uomini e donne di teatro e di cultura che lo affiancano nella creazione di strutture capaci di ridare dignità, di non trasformarsi in strumento per sorvegliare, punire, far morire in vita.

 

L’energia creativa di Basaglia, l’uomo che riesce a ‘far chiudere i manicomi’ per legge, nasce da una lucida consapevolezza della natura di classe di tanta sofferenza psichica e soprattutto del classismo di una società e di un sistema sanitario e giudiziario che non chiamano con lo stesso nome e non trattano nello stesso modo la ‘follia’ dei poveri e quella dei ricchi.

 

“Nel 1961, quando Basaglia entra da direttore nel manicomio di Gorizia”, riflette Pivetta, “è l’anno che celebra un secolo dall’unità d’Italia. Il 1961 è l’anno del boom economico, che declina rapidamente nella ‘congiuntura’, cioè nella crisi e nella rivelazione di un’Italia divisa, classista, cresciuta in modo assai difforme […] È un Paese nel quale si migra dal Sud verso il Nord per lavorare in fabbrica e vivere nelle ‘coree’ e dal quale si emigra verso la Svizzera, la Germania, verso l’America. All’estero, lavorando, si muore. Nel 1965, una valanga travolge le baracche degli operai che stanno costruendo la diga di Mattmark: ne muoiono novanta, cinquantatre sono italiani. L’anno prima, in autunno, una montagna di terra precipita nel lago artificiale del Vajont, l’onda d’acqua risale a monte e s’inabissa e valle. Duemila morti. L’Italia scopre che la sua fortuna, la fortuna del boom, è costruita sulla rapina della natura e sullo sfruttamento degli uomini, manodopera a basso costo che abbandona campagne poverissime, lasciandosi alle spalle disagi di ogni genere, creandone di nuovi”.

 

Solo all’interno di questo quadro complessivo, di questa trama di eventi, è possibile collocare e capire – suggerisce acutamente l’autore – la ‘biografia’ di Basaglia, un iniziatore, non un innovatore. Perché nell’Italia di quegli anni “si diventa matti d’abbandono nelle campagne, si diventa matti alla catena di montaggio nelle nuove case delle periferie torinesi o milanesi… È la storia del bravo contadino che non sa diventare un bravo operaio, alla svelta come vuole la fabbrica, e non sa più che farsene delle sue mani”.

 

Ricostruire la vicenda di un uomo che non ha accettato le interpretazioni della psichiatria classica per la quale il ‘malato’ non è più una persona con una storia di vita che sola può far luce sulla sua sofferenza è dunque inevitabilmente affondare le mani nel tessuto sociale, culturale, politico e economico di quegli anni. Il fascino del libro di Pivetta sta proprio nella capacità di tenere insieme, accostare e connettere fatti all’apparenza non correlati, di leggerli nel loro intreccio, ponendosi come una sorta di ‘biografia’ nazionale, come il racconto di ciò che ci ha portati a essere quello che siamo e a non essere quello che saremmo potuti diventare. Ed è prezioso che qualcuno ci ricordi che l’Italia non è sempre stata quella in cui viviamo oggi, che c’è stato un prima e ci sarà un dopo, e soprattutto che la direzione che le cose prendono è sempre frutto di una decisione, di una scelta e dunque anche di chi tali decisioni prende e di chi da tali scelte è escluso.

 

Questa affettuosa “biografia del dottore dei matti” è il ritratto di un paese e del suo popolo in un’epoca aperta alla speranza e al cambiamento e tuttavia già segnata da quella che oggi possiamo tranquillamente definire una ‘mostruosa mutazione’. Dalla miseria e da un’economia contadina al consumismo e all’inebetimento/sedazione: non più “matti da slegare”, ma zombi felici di comprarsi le proprie catene.

 

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