La sabbia come cura

17 Agosto 2012

Sono oggetti minuscoli, rappresentano animali e uomini, personaggi letterari come Peter Pan e Corto Maltese, fantastici come i protagonisti dei film di Walt Disney, figure mitologiche di culture differenti, la dea cretese dei serpenti, la statuetta votiva etrusca che pare una scultura di Giacometti, simboli religiosi, il presepe e il pope ortodosso, il derviscio turbinante e la divinità indiana Ganesh. Ci sono pietre e foglie, rami e conchiglie, la flora e la fauna di più ambienti. Residui d’infanzia, acquistati nei negozi delle stazioni e dei musei, trovati sulle bancarelle, raccolti per caso e per piacere, creano un insieme polimorfo e kitsch.

 

 

C’è davvero qualcosa di tutto nel mondo in miniatura che occupa gli scaffali della stanza d’analisi dove si può giocare. Il terapeuta lo propone al compagno d’analisi che costruisce con gli oggetti a disposizione e la sabbiera, che sta lì accanto, è pronta ad accogliere la scena di chi, in quel momento, è un Gulliver tra i lillipuziani. Di fronte alla sabbiera siamo di nuovo i nostri arcaici, esseri in attesa di un presagio, nell’imminenza di una definizione qualcosa di animistico ci rimanda a un rapporto primitivo con gli oggetti. Vederli, scoprirli, toccarli, sceglierli. Ma a volte sullo scaffale qualcosa di immaginato non si trova. La nostalgia per l’isola che non c’è diventa così il titolo di numerose sabbie. Il mondo degli oggetti è come un vocabolario: per esprimerci li selezioniamo come selezioniamo parole. Ogni oggetto produce un suo “effetto di elaborazione”, scegliendo un oggetto scegliamo il suo potenziale di esperienza (Christopher Bollas, Il mondo dell’oggetto evocativo, Astrolabio, 2009).

 

 

Il Gioco della sabbia non è un test né una tecnica, è più appropriato definirlo un metodo che moltiplica le possibilità di “pensare per immagini” e di “sognare con le mani”. Quello che emerge si fotografa, in modo maldestro o tecnicamente più raffinato, una volta con polaroid e diapositive, oggi in digitale. Gli scenari vengono distrutti, la sabbia ripianata è di nuovo pronta ad accogliere un nuovo paesaggio. L’immagine resta, può essere rivista e commentata alla fine dell’analisi.

 

“Nel dialogo avviato dal gesto ludico, la sabbia si rivela un mezzo dotato di grande potenzialità. Ogni azione, anche minima, trova in questo materiale una pronta capacità di risposta. Il segno impresso sulla superficie rimanda al giocatore un’ampia gamma di risposte: dalla traccia appena inscritta, quando la sabbia è asciutta, alla plasticità costruttiva, quando bagnata. La costante presenza di una risposta vale anche quando il gesto è violento e distruttivo. È molto importante che la sabbia non venga distrutta, non sparisca e si ritrovi immutata nella sua struttura dopo la tempesta emotiva in cui viene coinvolta. L’attrazione da sempre esercitata sul bambino, e, in modo significativo, anche nell’adulto da questo materiale disponibile e accogliente, va fatta risalire al suo valore archetipico di madre terra” (Paolo Aite e Livia Crozzoli, Il “Gioco della sabbia” in Trattato di Psicologia Analitica, Utet, 1992).

 

 

La Sandplay Therapy suscita curiosità e provoca, introduce un elemento terzo nella stanza d’analisi, costringe i corpi a muoversi, la talking cure non è più un processosolamente verbale. In Italia è stata introdotta da gruppi ristretti di psicoanalisti di formazione junghiana che periodicamente si recavano a Zollikon, vicino a Zurigo. Lì, in una vecchia casa del Quattrocento, viveva e lavorava la donna che aveva intravisto le possibilità terapeutiche di una cassetta di sabbia.

 

Dora Kalff (1904-1990) si era trasferita con il marito banchiere in Olanda, ma dopo l’invasione nazista, tornata in Svizzera con due bambini, Peter e Martin, si era ritrovata senza più diritti perché con il matrimonio aveva perso la cittadinanza elvetica. Il marito muore poco dopo e lei affronta un passaggio cruciale della sua esistenza (F. Montecchi e A. Navone, Dora M. Kalff e il gioco della sabbia, in Carlo Trombetta, Psicologia analitica contemporanea, Bompiani, 1989). Nel 1955 aveva appena terminato un lavoro di sei anni all’Istituto Jung dove la sua analista era stata proprio Emma Jung. Con i figli e i nipoti di Jung c’era familiarità. A un congresso di psichiatria conosce la pediatra inglese Margaret Lowenfeld, che racconta l’esperienza dell’Institute of Child Psychology di Londra dove il gioco, centro della riflessione teorica di Donald Winnicott, era ampiamente diffuso come metodo terapeutico. Dora Kalff fu attratta dalle due sabbiere con dentro piccoli pupazzi che Lowenfeld chiamava “il mondo animato dei bambini”. Va a Londra per apprendere il metodo e lo sviluppa in modo originale. Nella successione dei quadri coglie l’importanza del processo psichico che avviene nella relazione a due, approfondisce il lavoro sui simboli maturato attraverso il contatto con la tradizione orientale – suo figlio Martin custodisce ancora oggi la stanza un po’ magica delle sabbie e sviluppa la dimensione spirituale come discepolo del Dalai Lama.

 

 

Sono stati i bambini i primi pazienti di Dora Kalff (i primi casi sono raccolti in un libro in italiano da tempo introvabile), i genitori però chiedevano di poter sperimentare quello che facevano i figli e così il campo si apre agli adulti.

 

“Chi inizia il gioco ha a disposizione una cassetta rettangolare di zinco di cm. 57 x 72 x 7 con il fondo dipinto di azzurro e contenente sabbia. Le dimensioni del contenitore sono ancora oggi quelle suggerite dalla Lowenfeld. Si tratta di un campo di gioco di proporzioni armoniche che seguono la regola della sezione aurea: il lato minore del rettangolo corrisponde alla sezione aurea della diagonale. (…) Ogni oggetto, nella scena tridimensionale che si va formando, è anzitutto un vissuto che assume un carattere di concretezza. Ciò che è posto vicino o lontano, a destra o a sinistra, in alto o in profondità, propone un’immediatezza di esperienza simile a quella che viviamo nei sogni” (Paolo Aite, Paesaggi della psiche. Il gioco della sabbia nell’analisi junghiana, Bollati Boringhieri, 2002).

 

 

Il Gioco della sabbia propone uno “spazio libero e protetto” con il quale ognuno entra in un rapporto diverso: chi si appassiona, chi rimane indifferente, chi non si sente capace, perché anche giocare può attivare l’ansia da prestazione.

 

C’è una certa analogia di questo metodo con un esperimento che Jung fece in un momento drammatico della sua vita: “Improvvisamente scorsi una pietra rossa: era una piramide a quattro facce, alta circa quattro centimetri. Si trattava di un frammento di pietra levigato e ridotto in quella forma dall’acqua: un puro prodotto del caso. Ma appena visto capii che doveva essere quello l’altare. Sistemai la pietra al centro, sotto la cupola, e in quel momento mi ricordai del fallo sotterraneo sognato da bambino, e provai un senso di sollievo. Ogni giorno (…) continuai a costruire (…). Così intanto i miei pensieri andavano chiarendosi e mi riusciva di individuare quelle fantasie di cui avevo avuto un vago sentore. Naturalmente riflettevo sul significato del mio gioco, e mi chiedevo: “che cosa fai in realtà? Stai costruendo un piccolo centro abitato e lo fai come se stessi compiendo un rito” (Carl Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, Bur, 1998).

 

Per la prima volta, di recente, un gruppo di analisti del Laboratorio Analitico delle Immagini, che hanno come riferimento il lavoro di Paolo Aite, hanno provato a mostrare in un percorso espositivo, Un’ecografia dell’anima, il senso e le applicazioni del Gioco della sabbia. Portare fuori qualcosa che nel setting si produce dentro, osare il rischio di una visione estetica di un’esperienza etica, affrontare il confronto con altre discipline. Antropologia, nella sezione “sabbia sapiens”, con l’universalità delle figure e dei disegni di sabbia – nella cultura aborigena australiana, tra i Navajo, nel giardino zen e nel mandala tibetano, tra i beduini che ancora oggi usano sabbie colorate per fare composizioni in bottiglia. Fino all’incredibile somiglianza delle linee Nazca nel deserto del Perù con un’immagine del Gioco della sabbia. Arte, nella sezione “amplificazioni”, con opere di artisti ispirate dall’elemento sabbia.

 

 

La ricerca può continuare. A caccia di immagini: dall’immagine sintomo all’immagine simbolo, da immagini a più dimensioni, sovradeterminate, il cui montaggio mostra, come nell’Atlante di Aby Warburg, la convivenza di elementi archetipici, storici e biografici. Apparizioni dell’antropologia concreta come quella inseguita da Georges Didi-Huberman.

 

Il confronto con interlocutori di altre formazioni è presente anche nel libro collettaneo Il mondo in un rettangolo, (a cura di G. Andreetto e di P. Galeazzi), Moretti&Vitali, 2012, che prosegue la ricerca di Giochi antichi parole nuove (a cura di F. Castellana e A. Malinconico), Vivarium, 2002, e di Il gesto che racconta, (a cura di A. Donfrancesco e M. Venier), Magi, 2007.

Un’altra raccolta è L’analisi con il gioco della sabbia dall’incontro con Dora Kalff allo sviluppo teorico della Sandplay Therapy, Franco Angeli, 2012.

In Curare con la sabbia. Una proposta terapeutica in situazioni di abbandono e violenza, Moretti&Vitali, 2011, Eva Pattis Zoja racconta l’introduzione del gioco per bambini e adolescenti nei loro luoghi: una baraccopoli di Johannesburg, un barrio di Bogotà, un asilo cinese. L’arrivo delle sabbiere in un paesaggio di baracche e immondizia, di violenza e sopruso, appare incredibile, tanto maggiore la sorpresa che produce la richiesta di non fare null’altro se non giocare.

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