Un libro di Matteo Serra / L'inconscio della fisica

22 Aprile 2022

Per quanto implausibile, l’intuizione di Leonardo Sciascia è suggestiva: parlare di scomparsa in riferimento a Majorana ha un che di sviante e rivelativo a un tempo. Sviante, perché dissimula i segni di un progetto studiatissimo; rivelativo, perché quel progetto contemplava la dissimulazione delle proprie tracce. In questa chiave, quello di Majorana fu un gesto di duplice sottrazione: sottrarre sé stesso al peso di una svolta epocale e ingovernabile e sottrarre un peso così poco sostenibile a un mondo che aveva intuito, ma non ancora elaborato, un piano strategico per l’autodistruzione, la cui première sarebbe andata in scena a Hiroshima il 6 agosto 1945.

 

Sciascia proietta sul fisico catanese una capacità anticipatoria che non è né chiaroveggenza né pura sensazione, ma una ponderatissima logica deduttiva che da certe premesse portava a certe conclusioni. In risposta all’inconsapevole cupio dissolvi dei suoi colleghi, secondo Sciascia, Majorana decise di inscenare la sua scomparsa (“perché la sua scomparsa noi la vediamo come una minuziosamente calcolata e arrischiata architettura” – L. Sciascia, La scomparsa di Majorana, Torino: Einaudi, 1975, p. 54) per dare massimo risalto alla “cecità” improvvida e fatale della comunità scientifica e per trovar riparo in ben altre comunità. Insomma, mentre i giovani fisici in fermento degli anni Venti e Trenta rompevano i protocolli della fisica classica con sconsiderata esuberanza e avviavano la nuova fisica verso quel futuro che oggi è presente, Majorana, Pizia riluttante, preferiva sottrarsi a quelli che, ai suoi occhi giudiziosi, sarebbero stati di lì a breve gli esiti deflagranti di quegli entusiasmi giovanili: la fissione nucleare. 

 

Al di là di una storia che ancora affascina nei suoi tratti di romanzo incompiuto, la figura di Majorana qui vale come una sorta di inconscio tacito ma operoso della fisica contemporanea, un rimosso che appunto non è scomparso e la cui presenza incombente vuol fare da contrappeso a un’inconfessabile propensione all’eccedenza: la fisica è un sapere che nella perimetrazione, nella determinazione dei confini, nel rispetto degli argini, vede sempre una sorta di sacrificio autoimposto, di detestabile contenzione in uno stato di minorità – una condizione che saprebbe ben superare se potesse sciogliere le briglie della sua innata propensione per le teorie del tutto. Perché la sua aspirazione congenita è al superamento dei limiti che si impone per pensare il suo oggetto, là dove un modello, in fisica, è sempre una riduzione della complessità tesa a ignorare l’incidenza di alcune variabili per dedicarsi al solo studio di altre. Anche oggi, i progetti più ambiziosi e avvincenti in fisica teorica sono proprio quelli che hanno l’ardire di mettere in questione le teorie più accreditate, accusate di aver introiettato lo stigma del modello e di non sapersi liberare di premesse, limitate e limitanti, che erano state introdotte al solo scopo di dare l’abbrivio alla ricerca. Queste proposte di frontiera – che, va detto, incontrano una certa resistenza, soprattutto da parte di chi deve usare le teorie, non tanto valutarne lo statuto epistemologico – cercano così di superare ogni approssimazione per giungere a quel punto di vista “fuori dalla storia” in cui l’universo fisico si lascia descrivere in tutta la sua interezza. 

 

La fisica è dunque attraversata da una sorta di tensione mai sopita tra l’ossequio per i rigidi canoni del modello di partenza e l’istintiva vocazione al trascendimento di sé, come dimostra la serie di interviste condotte da Matteo Serra a studiose e studiosi di fisica né alle prime armi né al termine della carriera in Dove va la fisica? Undici dialoghi sul presente e sul futuro della ricerca (Torino: Codice edizioni, 2022). Meno rarefatta e grandiosa l’aria che si respira tra i giovani che cent’anni dopo si fanno eredi dei fisici del primo Novecento, ma certo non meno intenta a individuare traiettorie per sempre nuovi superamenti, specie quando il percorso sembra giunto al termine, là dove sorge “in modo spontaneo una domanda ovvia: ‘E adesso?’” (p. 48). Si tratta di quei viaggi di frontiera che, nell’esplorazione di diversi ambiti della fisica, vengono descritti da ricercatori e ricercatrici con entusiasmo, ambizione e un ponderato equilibrio tra collaborazione e competizione. In questo regime affettivo al plurale, l’“e adesso?” emerge quando i paradigmi ereditati vengono posti al vaglio e affrontati in tutta la loro pretesa di conclusività, che si scontra però con sempre nuovi enigmi.

 

Nei suoi passaggi, il libro mostra come, nella fisica contemporanea, questa dialettica senza sintesi tra consolidamento del già dato e desiderio di esplorazione crei un’incertezza tra due opzioni, egualmente angosciose: manchiamo di dati che possano definitamente asseverare quanto già sappiamo o quanto già sappiamo si rivela insufficiente per interpretare i dati che possediamo? In altri termini, abbiamo bisogno di ulteriori dati o di nuove teorie? 

Esempio di questo asino di Buridano in laboratorio è quel che si racconta nel quarto capitolo circa due metodi che, a partire dalla fine degli anni Novanta, sono stati adoperati per valutare la cosiddetta costante di Hubble. Quest’ultima, che figura nell’omonima legge enunciata dall’astrofisico statunitense Edwin Hubble nel 1929, stabilisce una relazione di proporzionalità diretta tra la velocità di allontanamento di una galassia da un certo sistema di riferimento – nel caso specifico, la Terra – e la sua distanza da quest’ultimo. Tale legge ha pertanto il compito di misurare il tasso di espansione dell’universo e costituisce un elemento essenziale per il cosiddetto modello cosmologico standard, vale a dire la teoria che al momento meglio sintetizza e spiega le evidenze sperimentali raccolte nell’ambito della cosmologia.

 

Un primo metodo per stimare il valore della costante di Hubble consiste nello sfruttare le proprietà di alcune supernove – esplosioni caratterizzate da straordinarie emissioni di energia che si verificano nelle fasi terminali di vita di stelle particolarmente massicce – la cui luminosità intrinseca rimane costante nel tempo, sicché variazioni nella loro luminosità apparente, vale a dire quella misurata nel sistema-Terra, si lega a una loro differente distanza rispetto a questo. Un secondo metodo tiene conto delle fluttuazioni microscopiche della radiazione cosmica di fondo – ossia la radiazione elettromagnetica che pervade l’universo, considerata un effetto residuo del Big Bang – per valutare la legge di Hubble basandosi sull’universo primordiale. Al di là dei dettagli di questi due metodi, quel che si rileva è un fatto eclatante: le stime cui essi consentono di giungere sono significativamente diverse l’una dall’altra, al punto tale da non poter trovare alcuna conciliazione entro i confini della teoria a disposizione. 

 

Di qui, non ci rimangono che due opzioni, che potremmo definire l’umile e la titanica: andare alla ricerca dell’errore in una delle due misurazioni oppure interpretare l’incompatibilità tra le due come la traccia di una fisica altra, una fisica nuova, che il modello cosmologico standard approssima ma non è in grado di restituire. Matteo Serra e Pratika Dayal, dell’Università di Groningen, si soffermano su questo duplice indirizzo e sulla diversa ipoteca che impongono al mestiere della fisica.

 

 

L’umiltà richiederebbe una costante verifica dei dati e dei metodi adoperati per processarli; eppure, il grado di incompatibilità sembra crescere in misura proporzionale all’accumulazione di nuovi dati. Il titanismo si lascia invece prendere la mano dalla spinta in avanti di una conoscenza al momento solo ipotizzabile; eppure, il grado di speculazione che esso richiede ha il difetto – esiziale in fisica – di non poter disporre proprio di quei dati che sembrano tradire la notizia della sua esistenza. La cautela, per ora, pone un argine efficace alla sete di auto-trascendimento. Dayal espone così la sua professio humilitatis: “Personalmente sto cercando di capire quanto di tutto ciò possa essere guidato da effetti di selezione nei dati, piuttosto che da un problema fondamentale. Sinceramente sarei molto cauta nel dire che stiamo affrontando una crisi in cosmologia […]. La mia sensazione è che ci siano davvero molti bias che ancora non comprendiamo” (p. 77). 

 

Altro esempio felicemente affrescato nel terzo capitolo di Dove va la fisica? concerne il modello standard delle particelle, vale a dire la teoria che mette assieme tre delle quattro forze fondamentali: nucleare forte, nucleare debole, elettromagnetica (lasciando dunque fuori la forza gravitazionale). Nei primi anni Settanta del Novecento, l’idea di una “unificazione” delle forze apriva a una descrizione completa della realtà a livello subatomico. Ma a questo modello mancava qualcosa. Teorizzato nel 1964 da Peter Higgs (Nobel per la fisica 2013), il bosone di Higgs era la particella che avrebbe consentito al modello standard di dimostrarsi una teoria completa, valida a qualunque scala di energia, in quanto sarebbe proprio questo particolare bosone a conferire massa alle particelle elementari descritte dal modello. La sua lunga ricerca ha occupato quasi un cinquantennio di ferventi attività e ha incontrato persino qualche scetticismo presso alcuni vertici della fisica mondiale – noto è l’apologo secondo cui la star britannica della fisica, Stephen Hawking, dovette versare a Gordon Kane l’astronomica cifra di cento dollari per aver perso la scommessa sull’effettiva possibilità di scovare la particella in questione. Il 4 luglio 2012, gli esperimenti ATLAS e CMS al Large Hadron Collider del CERN provarono l’esistenza di una nuova particella compatibile con il bosone di Higgs. Passata l’ebbrezza indotta dalla scoperta, per la fisica del modello standard sembra giunta l’ora dell’umiltà. Serra scrive: “[U]n inevitabile momento di cesura per l’intera comunità dei fisici delle particelle. Una volta confermata trionfalmente l’esistenza dell’ultimo tassello del puzzle, il modello standard poteva dirsi infatti pressoché completo” (pp. 47-48). 

 

Doccia gelata per chi, già sin dai tempi della laurea, si figura come l’Auguste Dupin dell’universo. Eppure, anche in questo caso, si ripresenta l’alternativa tra umiltà e titanismo. Secondo Lesya Shchutska, di stanza all’École polytechnique fédérale di Losanna, nuove feritoie si aprono per lo spirito dei titani. La ricercatrice offre l’esempio dei dati ottenuti sul cosiddetto fattore giromagnetico, una proprietà dei muoni – particelle sì previste dal modello standard, eppure dotate di caratteristiche che sembrano eccederlo. I dati ottenuti nell’aprile del 2021 al Fermilab di Chicago, laboratorio in cui si studia la fisica delle particelle elementari, restituisce una significativa discrepanza rispetto ai valori attesi: “E i conti non tornano”, chiosa Shchutska. “Se confermata […], tale discrepanza potrebbe davvero essere la spia di qualcosa di nuovo, per esempio l’effetto di una nuova forza o di particelle sconosciute, sebbene rimangano alcune questioni aperte anche sul fronte dell’esattezza della previsione teorica” (pp. 52-53).

Insomma, il quadro che si ricava dal libro è utile per misurare la rilevanza di questa schisi connaturata, che provoca un moto oscillatorio senza sosta: eccitazione per le conferme e delusione per il fine corsa, ricerca affannosa di prove empiriche e rimandi a gradi di speculazione che fanno impallidire le ontologie classiche, orientamento alla tecnologia di immediata applicazione quotidiana e indagini su scenari avveniristici.

 

Ma il libro mostra come queste oscillazioni siano costitutive della fisica, cioè tali da non doversi leggere come destinate a prevalere l’una sull’altra. Anzi, la forza d’impatto della fisica contemporanea sulla vita ordinaria, quella cioè per cui le ricerche condotte nei laboratori trascolorano in GPS, touchscreen, strumenti diagnostici, computer quantistici, è legata a questa oscillazione che promette instabilità. Ha ragione Serra, pertanto, quando sottolinea il filo doppio, diafano ma non resecabile, tra i due spiriti contrastanti che sopra ho chiamato umiltà e titanismo: “Senza mai dimenticare (e si potrebbero fare decine di esempi al riguardo) che anche la ricerca di tipo fondamentale ha spesso ricadute a lungo termine difficilmente prevedibili nell’immediato” (p. 5).

 

E qui torna, con rara puntualità, lo spettro dello scomparso, alla cui storia Giorgio Agamben di recente ha proposto un correttivo. La sottrazione volontaria sarebbe sì relativa alla capacità di trarre le giuste conseguenze dalle premesse a disposizione – ma non tanto quelle che riguardano il bombardamento di un nucleo di uranio ad opera di un neutrone, quanto il più generale riorientamento della fisica del primo Novecento, che “non cercava più di conoscere la realtà, ma […] soltanto di intervenire su di essa per governarla” (G. Agamben, Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Vicenza: Neri Pozza, 2016, p. 19). Il correttivo fa luce sul volto meno visibile del rapporto tra le due anime della fisica: il carattere speculativo non è pura vertigine teoretica, ma sforzo immaginativo che indirizza la ricerca e orienta i suoi effetti sul reale, vale a dire scienza a pienissimo titolo. 

 

La fisica dell’ultimo secolo ha saputo unire umiltà e titanismo in uno sforzo congiunto di governare effetti che essa determina ma troppo spesso non riesce a prevedere – quantomeno, senza il giusto tempismo. Se è vero che, come rileva Serra, in fisica – e qui si riferisce in particolare ai sistemi complessi, ma il caveat non vale solo in quell’ambito – “[l]a differenza tra previsione e scenario è chiaramente un punto chiave” (p. 35), è altrettanto vero che la descrizione dello scenario, in fisica, non è mai pura ostensione, ma sempre anche prodotto di una reazione mutua di componenti che si co-determinano, vale a dire le aspettative sulla realtà indagata, gli strumenti adoperati e i risultati dell’indagine.

 

Per questo, come sa bene il Majorana qui convocato a principio dominante nella vita psichica di un intero ambito, le responsabilità in fisica sono tali e tante da non potersi sostenere sulle spalle di un solo uomo – soprattutto se molto perspicace. Bene, quindi, che il libro di cui qui si scrive parli al plurale, consigli perlopiù umiltà e distribuisca cautele. L’immaginazione collettiva, quella in cui l’intelligenza è reticolare e nasce dall’alleanza tra i punti prospettici, è la forza direttiva più affidabile e sicura: proprio quel tipo di intelligenza, tanto votata alla speculazione quanto orientata alla pratica, che ha reso monasteri e conventi – abbiano ospitato o meno Majorana – tra le istituzioni più longeve, solide e rassicuranti della storia del mondo cristiano. 

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