Giocare in casa

20 Dicembre 2011

Molte tra le voci più significative della pesante manovra del governo Monti ruotano attorno alla casa, croce e delizia degli italiani, spingendoci ad una riflessione, dal punto di vista dell’immaginario, su cosa sia stata la casa negli ultimi vent’anni. Il romanzo più bello che ci è capitato di leggere sulla casa è Homer & Langley di Doctorow (2010), ma anche Emilio Tadini può darci un aiuto per l’analisi. Uno schema ripetuto nei suoi romanzi vede la presenza di due narratori. Il primo si rivolge al lettore, imposta la vicenda e offre la cornice. È un giornalista, ascolta e riporta la voce del secondo narratore che ha effettivamente la storia da raccontare. Il giornalista va dal vero narratore. Ne La lunga notte (1987) si reca da Sibilla, amante del Comandante, un gerarca fascista di cui lei ripercorrerà la biografia in un estenuato monologo. Ne La tempesta (1993) si tratta d’un bizzarro individuo che, insieme ad un compagno armato, sta tenendo in scacco la polizia. Entrambi i veri narratori giocano in casa, mentre il giornalista li va a scovare accettandone le regole di relazione e di comunicazione. La villa sul lago di Como è importante: probabilmente acquistata a prezzi stracciati da una famiglia ebraica in fuga, rappresenta il crepuscolo della Repubblica Sociale e del Comandante, nonché il centro delle nuove attività di Sibilla, cuoca e cartomante. Ancora più decisiva è la casa per Prospero, il guscio da cui non può separarsi, il museo vivente che ne è la continuazione fisica. Egli resiste con la forza a uno sfratto che significherebbe distacco letale e via via mostra come ha reso le diverse parti della casa luoghi irripetibili e generatori di narrazione.

 

Tadini coglie un tratto peculiare della società degli anni novanta, ovvero l’iperdomiciliarità. Già nel decennio precedente la casa aveva assorbito molte delle energie diffuse nelle strade e nelle piazze, e la tivù, con la molteplicità dei canali, era diventata sempre più formatrice dell’opinione pubblica e di una cultura comune (come si vede soprattutto nella generazione di bambini-adolescenti d’allora). I giovani italiani degli anni novanta assistono alla caduta del muro di Berlino e al protagonismo altrui in varie parti d’Europa, si appassionano al crollo del proprio decrepito e corrotto sistema politico, ma partecipano solo come spettatori per via indiretta e filtrata. Lanci di monetine da parte di pochi, al massimo invii di fax, spasmodica e generale attesa alla tivù del nuovo avviso di garanzia costituiscono l’azione collettiva. Mani pulite è stata dunque una rivoluzione giudiziaria che ha avuto un gran sostegno popolare, pronto però a cambiar canale nel giro d’un paio d’anni.

 

Si parla molto negli anni novanta di telelavoro, intanto alcune attività esterne di svago si domiciliano sempre più. Chiudono moltissime sale cinematografiche e cresce il numero di videoregistratori[1]. Ultimamente esplode il fenomeno dei programmi televisivi di cucina, la vendita di libri di ricette che ci fanno tutti “adepti del fuoco e del fornello”, per citare Casalingo di Bugo. È ovvio che il salto di qualità nel risucchio del mondo in casa avviene attraverso la Rete. Tutte le notizie del globo, tutte le possibili ricerche per lo studio, il lavoro e l’intrattenimento sono a disposizione. Alle strade reali si sostituiscono quelle virtuali dove vagabondare per ore. Le amicizie s’accumulano insieme ai contatti resi velocissimi, puliti e indolori. Insomma, tornando a Bugo, davvero “stare a casa è qualcosa di spettacolare”.

 

I cantori della Rete ne hanno sottolineato spesso le possibilità d’acculturamento orizzontale, di democraticità e d’intervento. Un mezzo, a differenza della tv, rizomatico ed attivo, come si è visto in Iran o in Nord Africa, che i governi tendono perciò a sorvegliare o a soffocare come in Cina. Un ragazzo, seduto nella poltrona della sua cameretta, in una cellula di miele della periferia più profonda del mondo, sarà collegato con il resto dell’umanità ed eventualmente, indossata la bandana del pirata, potrà aggredire e mettere in crisi multinazionali e amministrazioni potentissime. Se all’artista, e ancor più al filosofo e allo scrittore, era già sufficiente per operare lo spazio di casa, forse nella musica si ha il maggior sovvertimento, tanto per i fruitori che per i facitori. Lo scarico ha messo in crisi il mercato, mentre il pc può sostituire un’intera orchestra e non più solo le star miliardarie si possono approntare uno studio in casa: ai nuovi strumenti si può sommare la rivolta del rap, cosicché con economia di mezzi ognuno può cominciare ad agire. In tal senso Frankie hi-nrg scrive nel 1993 (Faccio la mia cosa) il manifesto più calzante del cambiamento: “[…] mi guardo intorno, m’informo e torno a raccontare nella forma verbale a me più congeniale, quella dell’istinto razionale che mi spinge a commentare, a sottotitolare quel che vedo a cui non credo. Usando il rap interferisco e ledo e non mi siedo, eccedo là dove intravedo uno spazio libero d’azione per fare informazione e incominciare a rosicchiare quello che ci viene messo a disposizione dai media, dalla televisione: comunico l’idea e la rima il ritmo sposa… io sono un home-boy e faccio la mia cosa… […] nella casa… faccio la mia cosa”

 

Alla casa come punto di rilancio dell’intervento nel modo attraverso gli strumenti delle nuove tecnologie, fa da contraltare la casa come buco nero della regressione e dell’incistamento. Un’intera generazione precarizzata e spesso senza lavoro è costretta a rinchiudersi in casa a vegetare. Naturalmente la casa non è letteralmente la propria, ma quella dei genitori da cui, come evidenziano sadicamente le statistiche, un numero sempre maggiore di giovani italiani (altrimenti definiti bamboccioni) non si schiodano più. In tali domicili coatti si scatena anche il maggior numero di violenze, specie sui minori e sulle donne. In un omicidio complesso ed efferato – Franzoni, Gatti, Olindo e Rosa, Scazzi – raramente si sbaglia azzardando quale colpevole il genitore o i figli, il vicino o i il parente, il coniuge o il fidanzato, con le pareti domestiche, chiuse come quelle d’una scatola cranica, quale luogo e causa del fatto. Il mare di sangue inspiegato fatto correre da Erika e Omar, il cupo dramma svolto in casa Maso per impossessarsi della proprietà, hanno fatto sì che garage o rimessa, camera da letto o mansarda diventassero tante stanze della tortura. Il plastico di una casa assurge a simulacro dell’orrore, oppure, come nell’esasperazione del Grande fratello, ad occasione di voyeurismo dell’intimità in cui si rinchiude un’intera società, aggressività più o meno recitata da ratti in gabbia, dove alla fine vince chi resta solo nella casa. L’ossessione italiana per il mattone e il mutuo, in parallelo alla crescita costante delle rapide separazioni coniugali, appare un riflesso condizionato. E l’azione verso il mondo, anche grazie alle istruzioni disponibili sul web con un semplice click, può mutarsi in attacco distruttivo sulla scorta di Unabomber, icona dell’intellettuale anarchico e folle che contrappone se stesso, autosufficiente nella sua casetta eco-compatibile del Montana, all’andamento generale della società e che baratta i messaggi via posta con i suoi pacchi ben indirizzati. Più miti, ma non meno inquietanti, appaiono gli adolescenti giapponesi, avversi all’aria e alla luce naturale, e attaccati invece ai computer come ad una bombola d’ossigeno velenoso, che si danno ad una depressione casalinga di massa.

 

Nel romanzo di Tadini la casa è un’infaticabile generatrice d’immagini. “La mia casa! Il mio regno!”, proclama Prospero (p. 16), e subito il narratore lo corregge in “arsenale di follie”. Di volta in volta la casa si trasfigura; all’inizio è l’isola, come suggerisce il suo abitatore e come c’è scritto sulle piastrelle di ceramica vicino alla porta, poi è “miniera” (p. 65) se si osserva la ricchezza dei diversi filoni nel magazzino di stracci. Il cortile viceversa, popolato dai più vari animali, è un’arca di Noè, mentre alcune stanze sono tappezzate dalle foto della figlia tossicomane e lontana, e fanno pensare perciò a un santuario. Realtà e simbolo, mito personale e costruzione poveramente artistica, “e tutto quanto lui si era illuso di averci fabbricato, dentro questa casa”, conclude il commissario – terza voce, traduttrice ed interpretante –, “una specie di grande macchina anestetica, no?” (p. 381). Così l’elemento creativo e metamorfico della casa coesiste con quello, più sottointeso ed inquietante, di chiusura e di morte in una lampante esemplificazione.

 



[1] G. Pedullà, in In piena luce. I nuovi spettatori e il sistema delle arti, Milano. Bompiani, 2008, sottolinea il passaggio per il cinema, dal “cubo opaco”, che comporta “costrizione e concentrazione” (p. 138), all’individualismo dei media “della libertà” che, invece, coinvolgono più superficialmente e rapsodicamente” (p. 140).

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