‘Fuori’, La Quadriennale d’arte di Roma / L’iper hype contemporaneo

5 Aprile 2021

Tra i privilegi di condividere una piccola casa con altri coinquilini per destreggiarsi economicamente nell’archeologia stratificata della vita romana, c’è quello di condividere spazi con persone più giovani. «Cosa significa hype?», chiedo al mio coinquilino venticinquenne. «Non so come spiegarlo bene, è come quando esce un nuovo videogioco o una nuova canzone e tutti wow, anche se magari è una merda e dopo due giorni non se la caga più nessuno». Hype è andare su di giri, perlopiù per droghe, ma è anche una montatura, un processo di marketing per lanciare fortemente un prodotto, qualunque sia il contenuto. Uno dei privilegi di convivere con persone più giovani è quello di scoprire mondi che altrimenti sarebbero restati sepolti: quello che ti fa Roma ogni giorno. «Siamo giovani affamati, siamo schiavi dell’hype», canta Willie Peyote a Sanremo, perculando Sanremo, le sue logiche, le nostre illogiche. Il brano festivaliero di Peyote l’ho ascoltato per la prima volta grazie al mio giovane coinquilino: «non so se mi spiego, dipende dal prezzo / lo chiami futuro ma è solo progresso / sembra il Medioevo più smart e più fashion /se è vero che il fine giustifica il mezzo / non dico il buongusto ma almeno il buonsenso / ho visto di meglio, ho fatto di peggio». Non si potrebbe dirlo meglio, e con più ritmo.

 

Il rischio della Quadriennale d’arte a Palazzo delle Esposizioni di Roma, “Fuori”, è di avere tratti hype. Il rischio dell’arte contemporanea è che a tratti “sembra il Medioevo più smart e più fashion”. Ma non “è vero che il fine giustifica il mezzo”, è vero il contrario: il mezzo giustifica il fine. Sono infarcito di McLuhan – lo ammetto preliminarmente –, ma quest’uomo ci aveva avvertito. “Il mezzo è il messaggio” l’avevamo tutti scambiato per lo slogan di una pubblicità di un’automobile. Sembrava troppo hype per rivelarsi un concetto sul quale riflettere lungamente. Solo che poi il contenuto è finito veramente, il contenuto è superato, i contenuti li abbiamo sviscerati tutti, li abbiamo esauriti. E quindi ci stiamo concentrando, e dobbiamo concentrarci, sulla forma. Sanremo non è forse interessante – c’è qualcosa di interessante in Sanremo (?) – per la sua forma, per la confezione, il packaging melodico? Adesso nell’analisi siamo passati, come la scienza da decenni, al subatomico. La forma festivaliera è passata dalla sfera di Sanremo che avvolgeva i “contenuti” alla sfera degli artisti in gara che nelle loro forme incamerano come un guscio i “contenuti”. Allo stesso modo nell’arte contemporanea il passaggio alla forma è divenuto sostanziale da qualche decennio. Esemplare è Salvo, uno degli artisti della Quadriennale che letteralmente illumina l’esposizione. Il suo contenuto è la forma, il suo contenuto è la luce, e la luce è contenuto.

 

Scrive McLuhan in Gli strumenti del comunicare che la luce (elettrica) «è un medium, per così dire, senza messaggio, a meno che non lo si impieghi per formulare qualche annuncio verbale o qualche nome». O qualche annuncio visuale. «Che la si usi per un’operazione al cervello o per una partita di calcio notturna non ha alcuna importanza. Si potrebbe sostenere che queste attività sono in un certo senso il “contenuto” della luce elettrica, perché senza di essa non potrebbero esistere. Ma questo non fa che confermare la tesi secondo la quale “il medium è il messaggio”, perché è il medium che controlla e plasma le proporzioni e la forma dell’associazione e dell’azione umana». Salvo prende il colore e lo fa luce, poi plasma la luce e ne fa contenuto. È la luce l’opera. Gli scorci raffigurati sono angoli di una metropoli plastica, fori romani fermi nella luce, come se fosse la luce a dare forma all’altare della Patria, e difatti nel catalogo della mostra si fa riferimento a Huxley e alle porte della percezione. Salvo parla una luce allucinata, disegna notti verdi e rosa, tramonti da “fenomeno intellettuale”, per dirla con Pessoa. Cosa ci direbbero altrimenti quei fiori giganti di Petrit Halilaj e Alvaro Urbano se non la loro colossale forma, il loro gigantismo, la loro elefantiaca grandezza? I peni di Lydia Silvestri – che peraltro ricordano la statua fallica con cui il protagonista di Arancia meccanica colpisce a morte la donna in tuta verde – di cosa ci informano se non della loro morfologia? Curvi, abbracciati, auricolari.

 

Cosa cerchiamo anche in una prosa, in un romanzo contemporanei? Che diano forma, attraverso il linguaggio, al caos, all’informe, all’informazione del mondo. Le fotografie di Lisetta Carmi potrebbero chiederci: e qui allora? Il contenuto non conta? È ancora la luce il contenuto, specie negli scatti che ritraggono le statue del cimitero di Genova. E la forma: il parto, la gravidanza, la forma che annuncia il contenuto. 

Visitare la Quadriennale è una esperienza formale, e tutto possiamo fare tranne che toccare la forma; niente desidereremmo di più se non toccare le forme nel loro atto di seduzione. «Quando si apre la Quadriennale molte signore si aggirano sulle guide rosse dei vari saloni. La maggior parte si fermano accanto ai ritratti di donne e bambini, alle nature morte di frutta e cacciagione e ammirano sinceramente, esclamando, a brevi intervalli: “molto carino! Guarda quella conchiglia, sembra vera! Guarda quelle spighe come sono fatte bene! Quel fagiano è fatto benissimo! Quel broccato!”». Ercole Patti così descriveva i visitatori della Quadriennale nel libro del 1940 Quartieri alti. E invece oggi alla Quadriennale le signore non ci sono più, non le vedi queste signore che si fermano davanti alle nature morte. Piuttosto s’incontrano giovani, giovanissimi. Una coppia in particolare – lui in polo a righe orizzontali verdi, lei in minigonna di jeans – si posizionava sempre al centro esatto delle opere, nel vertice dello sguardo, nel vortice del senso: in due avranno avuto quarant’anni, e forse non fanno l’età di una di quelle signore. Non hanno la disponibilità economica di quelle signore.

 

 

Ma stanno sviluppando un gusto, un gusto che – parafrasando il saggio di Zygmunt Bauman Per tutti i gusti. La cultura nell’età dei consumi (Laterza, 2016) - magari li porta ad ascoltare Peyote mentre scrutano le opere mash-up della loro coetanea Caterina De Nicola e controllano il feed di instagram cui aggiungono una storia di quanto live stanno vedendo e appoggiano al senso delle opere “in presenza” il senso di altre opere che giungono da un luogo imprecisato della rete. Come ho fatto anch’io, ficcandomi spesso nella forma di opere che, più che riflettere sull’ambiente, riflettono l’ambiente. L’arte si fa tutta selfabile, pronta a farci entrare come Alice attraverso lo specchio. «Puoi dare una sbirciatina al corridoio nella Casa dello Specchio se lasci la porta del nostro salotto ben aperta; è un corridoio somigliantissimo al nostro, per quanto se ne può vedere, soltanto che potrebbe essere completamente diverso più in là. Oh, Kitty, come sarebbe bello se potessimo penetrare nella Casa dello Specchio! Sono sicura che ci sono un mucchio di belle cose! Facciamo finta che ci sia un modo per entrarci, Kitty.

 

Facciamo finta che il vetro sia morbido come una garza, così che si possa attraversarlo. Diamine, sta mutandosi in una specie di foschia adesso, ti dico! Sarà abbastanza facile attraversarlo…». Nel formidabile volume dell’editrice Ippocampo la Casa dello Specchio somiglia ai corridoi di Palazzo delle Esposizioni, e ognuno di noi è l’Alice di Carroll, uno che avrebbe dovuto avere a che fare con numeri, con dati, e invece intuiva la forma.

Qualcosa di contiguo ai vetri e alla foschia di Alice e a questo concetto del passaggio dal contenuto alla forma, dell’ingresso nella forma, dell’attraversamento dello specchio è espressa anche da alcune opere di Leandro Erlich. Erano esposte fino a dicembre 2020 nella mostra “Soprattutto” alla sede romana della Galleria Continua presso il Grand Hotel St. Regis, a pochi passi dal Palazzo delle Esposizioni in cui è ancora in corso la Quadriennale d’arte. L’opera “The clouds” dell’artista argentino, ad esempio, è la “riproduzione” della “forma” di alcune nuvole catturate attraverso lastre di vetro parallele verticali esposte in una teca simile ad un acquario. Fermi, ancora: il contenuto di ogni opera è la forma. La forma di una nuvola che ricorda una lupa, omaggio a Roma. Erlich dedica alle nuvole praticamente l’intera retrospettiva. In una intervista per Exibart egli stesso spiega questa forma di “pareidolia”: «Gli esseri umani sono gli unici animali in grado di fare associazioni, visualizzare e costruire un’immagine e forse è la prima azione nella costruzione di qualcosa: creiamo un bozzetto prima di realizzare qualsiasi cosa, di fatto visualizziamo un’immagine». Come appuntava Roland Barthes nel 1975, «Insomma, niente di più culturale dell’atmosfera, niente di più ideologico del tempo che fa».

 

Lo riporta Riccardo Venturi in uno splendido intervento sul catalogo della Quadriennale dal titolo “Il tempo delle meteore” in cui si ragiona sull’irragionato, ciò su qualche cosa su cui non abbiamo mai ragionato abbastanza: i fenomeni atmosferici, che si fanno fenomeni artistici, “arte meteorologica”, proprio per la loro ineffabilità. Il vento non si tocca, l’aria non si pizzica, la nuvola non si afferra. Scrive il poeta Nicola Bultrini nel libro “La forma di tutti”: «Così dobbiamo vivere/ consapevoli nel paesaggio/ un mondo di sostanze/ in disordine apparente». E quando iniziamo a mettere ordine, cominciamo col toccare forme per collocarle altrove, generando un nuovo spazio.

Una medesima esposizione del contenuto della forma era, fino a pochi giorni fa, anche alla Galleria Alessandra Bonomo nei pressi di largo Argentina, nelle opere di Chung Eun Mo, artista coreana ormai in Italia da un trentennio. Virtuosismi della linea e del colore, percezioni da cogliere come stringendo gli occhi la sera di fronte al traffico per farne un insieme di punti e linee che ci ridiano un senso al senso perduto. Pittura formale, lego di colori che costruiscono l’immagine che ogni spettatore può creare. Una composizione ricorda, come in assemblaggio di palette di colori, il Cristo deposto di Masaccio, quella angolatura dei piedi da vertigine, da verticalizzazione, ma magari l’ho vista soltanto io, l’ha vista solo la mia vista, la forma della mia mente. Un’altra opera sembra ridurre a solidi che s’incastrano come nel famoso videogame Tetris (altro elogio della forma che origina il contenuto) l’immagine di un bambino che entra letteralmente nello schermo non piatto di un televisore. Ma probabile anche questo l’abbia visto solo io, in fondo noi formiamo la forma, vediamo quello che percepiamo. È come se il contenuto si esteriorizzasse, se il cervello si mostrasse sottopelle a guisa d’un foruncolo, se la voce, pura forma, fosse anche nei capelli o sul dorso dei piedi.

 

A proposito di forma come spazio, nel suo intervento sul catalogo della Quadriennale il critico d’arte Stefano Chiodi parla, in riferimento a un volume di Edward Soja, Third space, di «un continuo processo di produzione di spazio, sempre aperto e inesauribile, un terrain vague situato al confine tra proprio e altrui»: un terzo spazio che somiglia proprio a questa incessante produzione (in)formale.

«Se torniamo ora a proporci la domanda: che ne è dell'arte? Che significa che l'arte rimanda oltre se stessa? - possiamo forse rispondere: l'arte non muore, ma, divenuta un auto-annientantesi nulla, sopravvive eternamente a se stessa. Illimitata, priva di contenuto, doppia nel suo principio, essa vaga nel nulla della terra aesthetica». Lo sostiene ne “L’uomo senza contenuto” il filosofo Giorgio Agamben, secondo il quale «La ricerca di un significato assoluto ha divorato ogni significato per lasciar sopravvivere soltanto dei segni, delle forme prive di senso. Ma, allora, il capolavoro sconosciuto non è, piuttosto, il capolavoro della Retorica? È il senso che ha cancellato il segno, o è il segno che ha abolito il senso? Ed ecco il Terrorista messo a confronto col paradosso del Terrore. Per uscire dal mondo evanescente delle forme, egli non ha altro mezzo che la forma stessa; e quanto più vuole cancellarla, tanto più deve concentrarsi su di essa per renderla permeabile all'indicibile che vuole esprimere». Il saggio di Agamben percorre questo confine tra contenuto e forma, tra prodotto e processo: «L'esperienza centrale della poiesis, la pro-duzione nella presenza, cede ora il posto alla considerazione del "come", cioè del processo attraverso il quale l'oggetto è stato prodotto. Per quel che concerne l'opera d'arte, ciò significa che l'accento viene spostato da quella che per i greci era l'essenza dell'opera, e, cioè, il fatto che in essa qualcosa venisse in essere dal non-essere, aprendo così lo spazio della verità (“a-letheia”) e edificando un mondo per l'abitazione dell'uomo sulla terra, all'operari dell'artista, cioè al genio creativo e alle particolari caratteristiche del processo arti stico in cui esso trova espressione».

 

Nel catalogo della mostra della Quadriennale d’arte “Fuori” c’è la memoria. C’è un riferimento ad un’esperienza artistica imprescindibile della Roma a ridosso del secondo conflitto mondiale: l’almanacco delle lettere e delle arti “Beltempo” di de Libero e Falqui. Il primo, soprattutto, poeta e formidabile svelatore della scuola romana di pittura e animatore della galleria “La Cometa” della Contessa Pecci Blunt entre deux guerres. In un volumetto per i “Quaderni di Piazza Navona” stampato a Roma nel 1978 Libero de Libero fotografa la “Roma fatta a scale”: «Le scale di Roma sono semplicemente tre e indicano all’uomo tre modi di salire al cielo: un modo medievale, la scala dell’Aracoeli; un modo rinascimentale, le scale del Campidoglio; un modo barocco, le scale della Trinità dei Monti. Come atto devoto, come atto eroico, come atto musicale». A queste tre scale potremmo aggiungere quelle di Palazzo delle Esposizioni perché oggi assumono un significato nuovo. Come testimoniano anche le ultime due foto che chiudono l’apertura del catalogo di “Fuori”, il Pontefice e il Presidente della Repubblica su scale vuote che danno su piazze vuote. La scala di Palazzo delle Esposizioni è un modo elettrico di salire, un atto mitico: salendole è difficile abbracciare una visione d’insieme, è un’ascesa piatta eppure veloce, orizzontale, una progressione di cui non ci siamo accorti ma da cui siamo avvolti. Come questo iper hype contemporaneo. Dobbiamo smontare questa montatura, come togliendo degli occhiali o guardando una facciata senza l’impalcatura. È nato prima il nuovo o il prima?

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