Speciale

Dopo l'Impero latino

18 Agosto 2015

D'accordo, l'iniziativa di Sarkozy varata nel 2008 sotto il nome di Unione per il Mediterraneo si è risolta – è il caso di dirlo – in un buco nell'acqua, e forse qualcuno non se ne dispiacerà. Difficile in effetti evitare il sospetto che il presidente francese coltivasse ambizioni di leadership sull'area; troppo pretendere che la sensibilità post-coloniale (forse l'unico vero fattore ideologico in comune tra i paesi interessati) accettasse senza diffidenza questa prospettiva. Eccessiva era forse anche l'ambizione del progetto, che mirava a coinvolgere tutti gli Stati membri dell’Unione europea, l’Albania, l’Algeria, la Bosnia-Erzegovina, la Croazia, l’Egitto, la Giordania, Israele, la Libia (come osservatore), il Libano, il Marocco, la Mauritania, Monaco, il Montenegro, l’Autorità Nazionale Palestinese, la Siria, la Tunisia, la Turchia: paesi legati tra di loro da interessi regionali di diversa natura, oppure da nessun interesse. Inutile aggiungere che dal 2008 a oggi il paesaggio geo-politico del Mediterraneo è radicalmente mutato. In particolare, con l'avanzata dell'Isis in Libia e Siria, gli attentati terroristici in Tunisia, la minaccia di flussi migratori massicci in fuga dalla povertà e dalle guerre civili nel nord-Africa, l'attualità del Mediterraneo consiste più nell'essere un fossato difensivo per l'Europa che «un foro» tra i popoli, o «il fattore di unificazione e il centro della storia del mondo», per usare alcune belle espressioni di Hegel.

 

Al silenzioso naufragio dell'Unione ha poi certo contribuito l'avversione della Germania (e dei paesi nordici a lei più vicini); un atteggiamento giustificato da molte diverse ragioni: la competizione con la Francia per la leadership sullo spazio europeo; la difesa del primato dei porti tedeschi (di Amburgo in particolare) nelle rotte commerciali globali, il desiderio non venir implicata nella spinosa questione dei respingimenti. A monte c'è però anche una fondamentale ragione geopolitica: per tradizione e cultura la Germania è ancora, per dirla con Mackinder, una potenza terranea del tutto estranea a una visione marittima dello spazio. Una potenza che da sempre proietta i suoi interessi di politica estera verso Heartland, il cuore terraneo del pianeta che si estende verso la Russia. Anche le energie diplomatiche spese dalla Germania nella recente contesa con Putin per l'Ucrania, se paragonate al totale disinteresse per l'area mediterranea, confermano questa propensione. Tuttavia, nonostante l'insuccesso dell'Unione, la questione mediterranea non può essere accantonata, e anzi, nel pieno di una crisi regionale dai contorni allarmanti e indefiniti, è diventata ancora più decisiva di prima.

 

La filosofia della storia (quella di Hegel e Marx, o di Schmitt e di Braudel) ci ha insegnato a guardare al Mediterraneo come a un mare storicamente sommerso dalla dimensione planetaria che la politica e l'economia hanno assunto una volta conquistata e dominata l'immensa estensione degli oceani. Marginalizzato dalla Grande Storia del moderno, il "nostro mare" sarebbe tornato a essere quello che era per Platone: uno stagno di rane. Oggi questa prospettiva non regge, perché è mutata la scala dei problemi internazionali. Le più forti tensioni globali hanno carattere locale, e molte di queste intersecano lo spazio Mediterraneo facendone un punto nevralgico degli equilibri mondiali. Nello ratio della politica, tuttavia, il Mediterraneo non esiste. È stato rimosso insieme alla vecchia geo-politica coloniale. Inoltrarsi in questo terreno vuol dire perciò aprirsi uno spazio critico non autorizzato; uno spazio dal quale l'Europa è rifuggita, preferendo alienarsi in una sterile discussione sulla propria identità spirituale nella quale l'unico punto fermo è sempre rimasto il confine mediterraneo, o il mediterraneo come confine, finis terrae.

 

Se però si vuole fare qualche passo in questo spazio politico discorsivo contestato o emarginato, converrebbe ascoltare l'insegnamento del pensiero storico di Braudel, Matvejević, Hodgson o Dov Goitien, che in modi diversi hanno dimostrato come l'effettività storico-culturale del Mediterraneo sia innanzitutto impensabile alla luce di quella del moderno stato-nazione. Ed è paradossalmente in questo anacronismo, in questa natura irriducibile alla storia dello Stato, che si racchiude l'attualità del paradigma mediterraneo: un potenziale storico e politico che si ripropone a mano a mano che la globalizzazione decostruisce il primato politico delle stato e le sue prerogative esclusive. La rete trans- e meta-nazionale di cui il Mediterraneo si compone contesta ed eccede sia la grande narrazione dell'epoca statuale, sia la costituzione di uno spazio politico come quello dell'Unione europea, decisamente troppo compromesso con la semantica della sovranità territoriale centralizzata e con le sue derive bio-politiche e immunitarie. Non solo, se il Mediterraneo è in questa fase storica il nodo gordiano del sistema-mondo, lo si deve al fatto di annodare tre continenti e tre monoteismi in un unico sottosistema globale privo di ogni tipo rappresentazione. Ancor prima di essere una realtà politica, l'area mediterranea è il punto cieco all'intersezione tra lo spazio globale dei flussi economici delle merci e dell'energia, la mobilità interregionale delle persone (migrazioni interne e internazionali), i conflitti etnici e religiosi con maggiore rilevanza mondiale e l'ordine statuale dei territori. Una ridda di contraddizioni che si presta a diventare uno straordinario campo di sperimentazione concettuale in chiave politica e geo-politica. Questo, sia ben chiaro, a patto di dividerne le sorti dal paradigma europeo, lo stesso che faceva da modello all'Unione mediterranea voluta da Sarkozy, condannandola anche per questo a un precoce fallimento.

 

 

Occorre riaprire un archivio dimenticato per elaborare una visione all'altezza dello stato delle cose. Date le premesse da cui siamo partiti, non sorprenderà scoprire che le prime moderne formulazioni di un pensiero politico mediterraneo appartengano agli ambienti anarchici. Che io sappia, l'idea di una Federazione mediterranea emerge alla fine dell'Ottocento con la proposta del geografo Élisée Reclus, allievo e collaboratore di Bakunin. Partendo dagli elementi della geo-morfologia dell'area, Reclus forzava la geografia politica attraverso la dimostrazione di uno spazio storico, economico e culturale fortemente integrato, un environnement géographique che si abbinava a una definizione economica del Mediterraneo come «culla del commercio europeo». Asse della civilizzazione, punto d'incontro tra il Nord e il Sud, l'Est e l'Ovest, il Mediterraneo diventava allora non solo un oggetto geografico, ma un valore di civiltà, di equilibrio, di misura, di felicità, vale a dire una barriera politico-spirituale contro i pericoli della cultura tedesca. All’interno di questa rete di interscambio il potere di identificazione territoriale era poi per Reclus talmente forte da costituire un senso di appartenenza ad un mondo comune e ad un unico popolo mediterraneo. Qui si dava la base antropologica per immaginare uno Stato federale fortemente decentrato. Mediata dalla geopolitica tedesca, quest'idea assumerà forma compiuta nel saggio Il Mediterraneo (1938) di Hans Hummel e Wulf Siewert, dove la civiltà mediterranea giunge ad assimilare paesi come l'Algeria, la Tunisia, la Turchia, sottraendoli alla loro tradizione arabo-islamica. Ma in un'analoga direzione aveva già lavorato Le Corbusier, molto attivo tra il 1930 e 1934 gruppo editoriale di Prélude, anch'esso di forte ispirazione anarchica.

 

La dottrina politica del gruppo consisteva, nel clima della grande depressione e sotto il timore di uno scontro di civiltà, nel riordinare il caos geopolitico degli anni '30 attraverso una nuova visione. Nel sesto numero della rivista (giugno-luglio 1933) l'Europa veniva divisa in tre grandi regioni: una federazione orientale russo-sovietica-slava, una federazione centrale europea, guidata dalla Germania, e una greco-latina chiamata "quadrilaterale" e avente come vertici Parigi, Barcellona, Roma e Algeri, mentre all'impero britannico non veniva riservato alcun ruolo, perché considerato non facente parte del territorio europeo. Nel settimo numero, intitolato La Féderation Latin (siamo nell'agosto-settembre 1933), la rivista si sforzava poi di assegnare a queste regioni precisi confini geo-politici. Le Corbusier sposò questa visione fino al punto da presentarla, in una lettera del 27 luglio 1933, a Monsieur Brunel, sindaco di Algeri. Nel quadro dell'economia mondiale diventava auspicabile per l'architetto la formazione di nuovi raggruppamenti, una nuova scala geopolitica indispensabile alla riconfigurazione delle grandezze spaziali, alla ridistribuzione delle ricchezze e alla pace, per quanto ancora ambiguamente compromessa con gli interessi coloniali francesi. Lo schema quadrilaterale ambiva allora a prefigurare un "grande spazio" Mediterraneo (la cui formazione appariva a Le Corbusier "imminente") legittimato da un comune tessuto culturale millenario, da un ineffabile spirito latino impresso nella disseminazione delle architetture riconducibili alla storia del mare, alla qualità della luce, a uno stile di vita comune caratterizzato da un inconfondibile concezione dello spazio pubblico. Ma poi, per altro verso, questa stessa geografia immaginaria descriveva anche uno spazio economico-politico autonomo dove l'urbanistica, intesa come «ordinatore sociale per eccellenza», «espressione dell'attività di un'epoca», veniva ad allargare il suo raggio fino ad abbracciare una spazialità simile a quella immaginata da Reclus (autore di cui Le Corbusier era un fervente ammiratore). Ma il culmine di questa tradizione è certo il progetto del filosofo hegeliano Alexandre Kojève di costituzione un "Impero latino" (il testo è parzialmente tradotto in Il silenzio della tirannide, Adelphi 2004) capace di apparentare tra loro le nazione europee mediterranee, ma in prospettiva non solo queste. Va detto che Kojève all'epoca (siamo nel 1945) aveva assunto i panni di alto burocrate dello stato francese, e che la sua proposta aveva come referente il governo di De Gaulle (ragion per cui il testo rimarrà a lungo segreto, e la sua pubblicazione censurata nei suoi aspetti più sinistramente realistici). A scanso d'equivoci, l'idea di Impero non ha qui nulla a che spartire con quella proposta da Hardt e Negri. Piuttosto dialoga con la teoria dei grandi spazi (Großräume) formulata da Schmitt alla fine degli anni '30, quando il destino dello Stato sembrava al giurista tedesco già segnato, e si faceva perciò urgente la ricerca di una matrice politica nuova, radicalmente post-statuale. Nella teoria dei grandi spazi, adeguata a un mondo poliarchico, l'Europa avrebbe dovuto essenzialmente costituirsi come forza autonoma rispetto al dualismo America-Unione Sovietica, anche se la genesi di analoghe formazioni (guidate per esempio dall'India o dalla Cina) risultava altamente auspicabile. Sul piano teorico, la novità stava nella ricerca di uno jus gentium che presupponeva il superamento della sovranità statale, ma non quella delle nazioni (Reiche). Per quanto largamente indeterminato quanto al suo contenuto giuridico a alla modalità della sua istituzione, Schmitt ci ha lasciato a proposito del Großraum alcune importanti precisazioni. In particolare il fatto che esso preveda al suo interno quattro tipi di relazioni giuridiche:

 

  1. 1) relazioni tra grandi spazi, poiché questi non sono blocchi ermeticamente chiusi ma reciprocamente legati da relazioni commerciale nelle quali si struttura un'economia mondiale;
  2. 2) relazioni tra i Reiche dominanti all'interno dei singoli grandi spazi;
  3. 3) relazioni tra i popoli all'interno di uno stesso grande spazio;
  4. 4) relazioni di popoli tra diversi grandi spazi.

 

È evidente che il "grande spazio" non presume un legame fusionale tra le nazioni che lo compongono, e forse neppure un legame federale, dato che la pluralità dei popoli che lo compongono impedisce che si possa esordire, come nella costituzione americana, con la formula «Noi, il Popolo degli Stati Uniti...». Kojève, nel suo rapporto segreto al governo francese, apporrà a questa impostazione importanti modifiche, sulle quali occorrerebbe oggi tornare a riflettere. Data per acclarato il tramonto dello Stato-nazione che tra Napoleone e Hitler ha tentato di realizzare in forma imperialistica l'idea universale della cittadinanza, e dunque di uno Stato mondiale della terra, occorreva alla politica un principio aggregativo inedito, cui l'impero latino avrebbe fatto da modello: non un'unità astratta, ma una libera associazione politica ed economica di Stati sintonici quanto a tradizione, stile di vita, cultura. Con questa premessa, l'impero latino di Kojève avrebbe dovuto includere in prima battuta la Francia (ancora una volta promotrice del progetto), la Spagna e l'Italia. L'attualità di questa visione è stata recuperata in chiave anti-europeista da Giorgio Agamben in un articolo apparso su «Repubblica» il 15 marzo 2013, poi ripreso da «Libération» il 24 marzo, che suscitò in Germania una forte reazione. Il motivo era semplice: l'aggregazione proposta da Kojève e rilanciata, a suo modo, da Agamben, escludeva esplicitamente la Germania (la cui impetuosa crescita economica – notava già il filosofo russo – avrebbe messo all'angolo gli stati del Mediterraneo) in favore di una coalizione più omogenea, centrata sulla regione del mare nostrum. Non a torto, Agamben notava che la pretesa unità europea, costituitasi come un semplice patto tra governi, senza alcun coinvolgimento dei popoli e senza alcun riguardo per le diverse forme di vita e i diversi patrimoni culturali regionali, aveva in realtà accentuato le differenze, e si era infine ridotta all'egemonia economico-culturale di una parte sulle altre (quelle meridionali). Allora, nel 2013, pareva una tesi provocatoria ma attraente e giustificata quella di restituire realtà politica a ciò che Kojève chiamava l'Impero latino, ma oggi?. A cinque anni di distanza, in un quadro non certo immutato, potrebbe essere ripresa sotto una diversa prospettiva. Il Mediterraneo è effettivamente, come ha scritto Danilo Zolo, «un pluriverso irriducibile di popoli e di lingue che nessun impero mondiale oceanico può riuscire a ridurre ad unum». Ma oggi il problema è forse proprio quello di trovare una strada per dotarlo di una specifica forma e fisionomia geopolitica che fronteggi il rischio della sua riduzione ad zerum.

 

Innanzitutto, non occorre pensare a una forma politica che non sia né alternativa all'Unione europea (come nell'ipotesi di Kojève e Agamben), né ad essa organica (come nel caso dell'Unione mediterranea di Sarkozy). Più plausibile, e forse interessante, sembra oggi la possibilità di immaginare una governance regionale che accolga dentro di sé tutti gli stati interessati (a cominciare dalla Francia, dall'Italia, dalla Spagna, dalla Grecia) e mirante a ottenere quattro diversi scopi: stipulare accordi per progetti (economici e infrastrutturali) volti a sviluppare politiche energetiche comuni e a promuovere i settori di mercato tipicamente mediterranei; controbilanciare lo strapotere economico e culturale del nord Europa; concordare politiche condivise sulla gestione dei flussi migratori. Su questa base, le nazioni europee del Mediterraneo potrebbe fungere da avanguardia per agganciare in un sistema di scambi privilegiato anche gli Stati del nord Africa e tutti quelli, per usare una categoria di Matvejević, in cui cresce l'ulivo e la vite. Non ci sarebbe neppure la necessità di arrovellarsi alla ricerca di un comun denominatore storico-culturale tra le nazioni apparentate da un simile progetto, poiché il fattore collante sarebbe oggettivo: il Mediterraneo come bene comune e in comune. Perciò stesso una federazione mediterranea sarebbe persino il rovescio dell'Unione europea: non uno spazio chiuso e introverso dove la sovranità del nomos coincide con i limiti e i confini territoriali, che si vorrebbero pure identitari, ma una società unita da un vincolo di responsabilità verso ciò che i suoi membri condividono, pur non appartenendo a nessuno di loro. La sola parola “Mediterraneo” – alla lettera: il mare tra le terre – sta a indicare una certa comunione del mare rispetto ai territori, alle civiltà, alle diverse culture ed etnie che ne condividono le acque. Che poi questa “comunione”, stratificata in un plurimillenario intreccio storico di relazioni, influenze, conflitti, risulti da sempre irriducibile a qualsiasi dimensione comunitaria e identitaria, a qualsivoglia rappresentazione politica, cioè in definitiva a un nomos, non può, in quest'ottica, sorprendere.

 

Il mare limita per definizione il diritto terrestre: sulle onde non si possono scrivere confini, soglie, appartenenze. Qui la logica che separa il “mio” dal “tuo” fallisce: in mare aperto si dischiude uno spazio politicamente neutro, libero, comune, contendibile, anomico. In altre parole, nell’acqua si sciolgono i vincoli che valgono sulla terraferma; nessuno può imporre la propria legge agli altri (come invece accade sullo ius soli), nessuno può dettare valori condivisi, nessuno può rivendicare diritti di possesso esclusivo. Anche in virtù di questi caratteri il mare è da sempre l’elemento ideale per il commercio, lo scambio, la comunicazione e l’ibridazione. Il mare-tra-le-terre, mentre unisce le civiltà, le divide, mentre le avvicina le distanzia, le spazializza, lasciando a ciascuna la propria auto-nomia.

 

Fedele al suo nome, il Mediterraneo potrebbe risultare uno spazio di mediazione efficace tra l'Europa e le sue frontiere meridionali, oltre che tra i tre monoteismi che si fronteggiano lungo le sue sponde. A suo modo, era ciò a cui pensava anche Kojève quando, estendendo il suo progetto al mondo mussulmano del nord Africa e ai paesi di influenza araba, auspicava «un'intesa tra latinità e Islam».

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