Speciale

L’outsourcing del confine

6 Luglio 2015

Il Mediterraneo è oggi immensa “tonnara di passanti”, abbattoir di speranze in luttuosa cornucopia. Ma non da oggi. I dati raccolti dal progetto The Migrant Files parlano di oltre 29.000 donne, bambini, uomini morti nel tentativo di approdare in Europa dal 2000 a oggi. Stima per difetto, certamente, dacché nemmeno l’atto di recuperare i cadaveri sembra avere una qualche necessità forense per Creonte, e di quella umana Antigone farebbe bene a dimenticarsene. Come mostra la carta di The Migrant Files, il mar di sangue del Mediterraneo si estende ben al di là dello spazio racchiuso tra le Colonne d’Ercole e i Dardanelli, annovera i vecchi porti Atlantici della tratta degli schiavi, i centri di detenzione dell’Unione Europea e quelli del Sinai, dove bande di predoni praticano impunemente il ratto degli Eritrei, le piste di sabbia del Sahara e le tracce di gomma lasciate dai mercenari africani al soldo di signori della guerra – un tempo Gheddafi ora chissachi – al soldo di Bruxelles. Ogni giorno i migranti e i loro aguzzini disegnano nuove geografie che maltrattano il confine moderno, il confine certo e rassicurante della sovranità territoriale. Lo dilatano in traversate di mare e sabbia, lo comprimono in una pletora di campi – di passaggio, di detenzione, di identificazione, di accoglienza, di prigionia – lo localizzano ora al di qua ora al di là di check-point e di dogane.

 

Questo quarto incontro tra Terra Mobile e Doppiozero ragiona sulle mutazioni del confine (del/nel) (M)mediterraneo e intende farlo a partire dal concetto di outsourcing. Qual è il rapporto tra una – se non la – pratica fondamentale del capitalismo organizzato e l’atto fondante della sovranità territoriale, ovvero il governo dei confini tra due spazi politici e, soprattutto, delle consuetudini di passaggio e attraversamento? A far mente locale, è storia ben nota la pervasività delle pratiche neoliberiste che, per vocazione e natura proprie, non possono non tracimare i limiti dell’economia e affogare di sé la politica – ma quando mai politica ed economia non sono state serrate l’una all’altra? Se il neoliberismo implica e predica una privatizzazione della statualità, nel governo del rischio sociale e del welfare in primis, perché tale privatizzazione (outsourcing) dovrebbe astenersi dal ridefinire l’esercizio stesso della sovranità territoriale?

 

Operation Triton, 2014. Fonte: Frontex.europa.eu

 

Proverò ad abbozzare qualche risposta a queste domande partendo dal programma Frontex, vale a dire la European Agency for the Management of Operational Cooperation at the External Borders of the Member States of the European Union. Istituita il 26 ottobre 2004, l’esistenza di Frontex è una diretta conseguenza degli accordi di Schengen. Alla libera circolazione di persone, merci e capitali all’interno dello spazio europeo non può non corrispondere il contrappasso di una ridefinizione di ciò che è interno e di ciò che è esterno, di chi e cosa può circolare e a quali condizioni, di chi e cosa è di volta in volta ammesso, integrato, tollerato, escluso, al limite estremo demonizzato e sacrificato alle ragioni di Creonte. La studiosa olandese di diritto comunitario e di politiche per le migrazioni, Elspeth Guild ha ripetutamente osservato che il controllo dei confini – vale a dire dei punti di accesso allo spazio europeo – è ormai sconnesso rispetto alla sovranità territoriale definita dagli accordi internazionali. Le pratiche di controllo della territorialità europea sono deliberatamemene dislocate al di qua e al di là dei confini legalmente e internazionalmente sanciti dello spazio Schengen. La gouvernamentalité foucaltiana del confine, di conseguenza, si sostituisce alla routine del mero governo, si dilata sino ad annettere parti cospicue dei continenti africano e asiatico e, al tempo stesso, si moltiplica sino al cuore dello spazio europeo, con la moltiplicazione dei controlli e dei campi per migranti sans papier, il cui essere qui e ora non è sancito da alcun diritto documentabile. In migliaia di siti ubicati dentro e fuori dal territorio europeo, migliaia di fuggiaschi sono esposti a un vero e proprio stato/spazio di eccezione, sanzionabili di pene – non solo nel senso giuridico della condanna ma anche, e prima, in quello, troppo umano di sofferenze – incerte e sospese, in cui il rimpatrio non è nulla più che un orizzonte e il presente è un susseguirsi aleatorio di detenzioni, schedature, isolamento, immobilità, stigma economico e sociale. Le mappe tracciate da Philippe Rekacewicz per Le Monde Diplomatique ci restituiscono una complessità spaziale e territoriale che ormai trascende la linearità del confine moderno westfaliano cui le carte geografiche ci avevano assuefatto. Questa trasformazione della governamentalità del confine non può non riverberarsi sui modi con cui concettualizziamo l’idea stessa di confine. Potremmo dire che il confine cede a quella che era il suo antecedente naturale, la frontiera, qui intesa non come sinonimo di confine ma nella sua accezione statunitense, come borderland, come terra di frontiera, aperta alla trasformazione, non ancora sigillata in un confine riconosciuto. L’immaginario della frontiera/borderland come spazio non lineare ma dotato di una profondità, come soglia che introduce una non-decidibilità tra interno ed esterno, è oggi uno dei capisaldi dei cosiddetti border studies, soprattutto nell’accademia anglo-americana, tra geografia politica e relazioni internazionali. La frontera tra Stati Uniti e Messico o la triple frontera tra Argentina, Brasile e Paraguay sono probabilmente le principali localizzazioni della frontiera, dello spazio sottratto alla dicotomica chiarezza della decisione sovrana su chi è interno o esterno rispetto ai diritti e doveri sanciti dalla cittadinanza moderna. Ça va sans dire che la frontiera è luogo pericoloso, proprio in quanto sottratto alla sovranità statuale, dove giovani donne scompaiono nel nulla o dove surreali gaucho islamisti finanziano le jihad globalizzate.

 

Pensare il Mediterraneo come frontiera oltre che come confine non significa affermare che i soggetti tradizionalmente depositari della violenza legale – gli eserciti e gli apparati di polizia – siano scomparsi dal tavoliere liquido. Come ben dimostrano le operazioni Mare Nostrum (gestite dalla Marina Italiana e dalla Aeronautica Militare) e successivamente l’operazione congiunta Triton sotto l’egida dell’agenzia Frontex, il pattugliamento militare dello spazio mediterraneo non cessa di rievocare lo spettro del controllo territoriale da parte del potere sovrano. La mappa di Amnesty International mostra le differenti competenze di Mare Nostrum e Triton. Mentre la prima operazione era decisamente spostata al di fuori della territorialità dell’Unione, a ridosso dell’area in cui maggiori erano le esigenze di salvataggio, lo spazio di ingaggio di Triton appare decisamente modellato sul confine dello spazio Schengen. Potremmo dire, spingendo il nostro ragionamento al limite, che Mare Nostrum si faceva carico di uno spazio-frontiera, quella soglia extra-territoriale dove il Mediterraneo nutre i suoi pesci di carne umana, mentre Triton non sarebbe che la proiezione dell’ossessione comunitaria per lo spazio-confine della Fortresse Europe. Le perplessità sull’efficacia umanitaria di Triton espresse da Romano Prodi o da William Lacy Swing, direttore generale dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) sono cupa fotografia di famiglia degli egoismi europei.

 

Non solo: nel momento stesso in cui lo spazio-confine che perimetra l’area Schengen si dilata in uno spazio-frontiera dalla governamentalità complessa e multipla, non possiamo stupirci del fatto che lo Stato westfaliano deleghi/perda il monopolio dell’uso della violenza sulla popolazione e che altri soggetti – mafie, scafisti, mercenari, Ong, terroristi, multinazionali, predoni – occupino a diverso titolo e con diversi progetti questi spazi-soglia, parzialmente deterritorializzati, e li riterritorializzino senza razionalità alternative/complementari/antagoniste a quella della sovranità territoriale. Non dobbiamo, quindi, nemmeno meravigliarci che siano gli stessi Stati sovrani e l’Unione medesima a delegare attivamente la governamentalità della frontiera ad alcuni di questi soggetti, in un processo di vero e proprio outsourcing della territorialità. È esattamente ciò che è avvenuto con Frontex, nel momento in cui una parte rilevante del controllo e della gestione di questo spazio soglia è stata deverticalizzata e delegata a un’ampia gamma di fornitori di servizi specializzati.

 

Si crea uno spazio topologico, reticolare, estremamente simile a quello che negli US viene denotato come “prison-industrial complex”, un intrico insolvibile e insolubile di fobie pubbliche e profitti privati, in cui alla crescente complessità delle pratiche biopolitiche di sicurezza risponde l’eco di una governamentalità neoliberale, deverticalizzata e decentralizzata di fornitori di tecnologia e di volenterosa manovalanza della repressione – un tempo chiamati mercenari. Lo stesso outsourcing della frontiera investe dal torcersi del terzo millennio l’Unione e il Mediterraneo, forse con un’ambiguità ancora maggiore. Tanto nel caso statunitense quanto in quello europeo, infatti, ciò cui assistiamo è un collasso di quelle geografie rassicuranti che separavano con decisione sovrana interno ed esterno – anzi per il giurista (tra le altre cose, nazista) Carl Schmitt separare interno ed esterno era nella modernità l’atto politico per eccellenza, a stabilire una coincidenza ontologica tra agire spaziale e agire politico. In un caso, l’aumento della popolazione carceraria statunitense (ciò che avviene all’interno del territorio nazionale) è spesso gestito dagli stessi contractors privati che si fanno carico della sicurezza dei confini meridionali degli US (ciò che avviene all’esterno, ai bordi della territorialità sovrana del Leviatano).

 

Nel Mediterraneo, per contro, sono i controlli dell’immigrazione a operare, come abbiamo visto, questa espansione/contrazione dello spazio Schengen, che connette – non idealmente, assolutamente no: anzi, assai pragmaticamente e, azzarderei, programmaticamente – i sans papier della chiesa parigina di Saint-Ambroise, i respinti a Ventimiglia, gli affogati del Canale di Sicilia, i sequestrati del Sinai. Invero programmaticamente, e qui echeggia il ghigno delle gorgoni libiche. La governamentalità in outsourcing della frontiera mediterranea, infatti, è sensibile ai tempora e ai mores e non si contenta di privatizzare i profitti della paura, con sofisticati appalti di controllo dei confini e pattugliamenti di tritoni camuffati da Eumenidi. Più sottilmente, la governamentalità della frontiera mediterranea tiene insieme, nella medesima intrapresa, organizzazioni non governative, mafie, sovranità tribali del deserto, stati-canaglia. In questo spazio topologico i passati accordi con il regime di Gheddafi per impedire il passaggio attraverso il Sahara sino ai porti di Zuwara, Zawia, Tajoura, Garabulli e Misurata e da qui l’imbarco sui gommoni degli scafisti con occhi di bragia, sono improvvisamente e improvvidamente connessi con gli appalti per la gestione dei campi di varia natura che accolgono, trattengono, sospendono, inghiottono e rigettano migranti in Italia e in Europa. I pasticciacci brutti di Mafia Capitale ci mostrano che esistono modi molteplici di guadagnare i propri denari di usura e che una rete – al tempo stesso economica, politica e spaziale – è venuta ad esistere. Ciò che ora ci spetta è non credere alla rettorica dell’eccezione, della devianza. Gli odevaine, i buzzi e i carminati che si giuocano a dadi gli stracci dei migranti non rappresentano un errore, un tradimento, una falla della governamentalità dei processi migratori. Sono solo un pezzo, demonico, di una nuova divisione internazionale del lavoro, oscura e oscena, che ha luogo sotto lo sguardo compiacente del mercato cosmico. L’outsourcing del confine è oggi un’immensa macchina antropologica, un dispositivo che produce il migrante come sottocategoria dell’umano e che trasforma il movimento di uomini e donne in dinamo, in un processo di produzione. Il fatto che al di là del Mediterraneo la produzione implichi cicatrici, aborti, stupri e sventramenti e che i suoi profitti sostengano le spese delle jihad non sia letto più, allora, nell’immaginario orientalista che sogna oi barbaroi. Sarebbe esercizio di persuasione, invece, tracciare il fil rouge che connette l’economia sociale dell’accoglienza alle economie brutali del deserto che quegli accogliendi produce su scala industriale, e non contentarsi, inseguire poi quel filo sin quasi all’orizzonte a catturarne il bandolo nell’economia imbellettata dell’accumulazione neoliberale, nella spoliazione violenta di risorse. Seguire questa rete nelle sue immersioni carsiche, disegnarne mappe non più topografiche, è necessario per inceppare la macchina antropologica, il dispositivo d’azzardo che localizza un migrante eritreo ora nelle prigioni jihadiste del Sinai, ora nei centri di identificazione, ora in fondo al mare. Essere torturati nei campi del Sinai non è la stessa cosa che essere rinchiusi in un centro di identificazione gestito da una cooperativa sociale. Certamente no – e nessuno ha il diritto di giocare al massimalista sull’altrui pelle. Altrettanto forte, tuttavia, è il dovere di leggere queste due possibili condizioni di un/una migrante come due momenti, talvolta successivi talaltra alternativi, di un destino che viene prodotto all’interno di un unico dispositivo che è simultaneamente spaziale, politico ed economico. Bloccare questa macchina è reso ancora più urgente dal fatto che una parte cospicua dei vecchi contractors si è messa in proprio e che l’Isis fa ormai le sabbiature di sangue sulle spiagge del Mediterraneo. Ma di questo, forse, torneremo a parlare, altrove e altrimenti.

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