Mark Dion, The Pursuit of Sir William Hamilton

21 Febbraio 2014

Tra la passione dell’amante e la lucida mania del collezionista, i due (opposti ?) poli attorno ai quali Susan Sontag ha costruito il suo The volcano lover: a romance, un fortunato e generoso racconto delle avventure di amore e di scienza di Lord William Hamilton, Mark Dion non ha voluto scegliere.

 

Stanza del collezionismo - 2013 veduta dell'installazione

 

Accolta con ragione nelle stanze neoclassiche della napoletana Villa Pignatelli, residenza di raffinati lussi e di colte conversazioni donata nel 1955 allo stato dalla principessa Rosina Pignatelli, casa museo incantevole ma soprattutto grato intervallo di verde e di impossibile silenzio su una Riviera di Chiaia da troppo tempo ormai devastata dai cantieri e dalla rabbia di un traffico che non trova riscatto neppure nell’indisciplina, la mostra The pursuit of Sir William Hamilton lavora infatti proprio sulla tensione che unisce l’amante e il collezionista, sul desiderio, sulla curiosità, sull’ansia del possesso che sempre li accomunano, dando vita ad un progetto seducente, erudito e assieme ironico, in grado di piegare le cronologie e di inquietare, svelandole, le consuete retoriche espositive.

 

Stanza delle sicenze naturali - 2013 Veduta dell'installazione

 

Un’operazione che l’artista statunitense svolge anche questa volta nelle stanze di un museo, sua irrinunciabile musa, ma che non si accontenta comunque della protezione, della garanzia di stabile verità che, in quanto spazio separato, senza tempo e senza vita, il museo sembrerebbe offrirgli.

 

Al contrario, Mark Dion ha individuato proprio nella controversa relazione che comunque corre fra la collezione (fra l’artista, il collezionista, il curatore) con il contesto d’origine il movente del suo intelligente lavoro di archeologo del sapere. E’, la sua, un’indagine sulla costruzione delle tassonomie e dei nessi che di volta in volta legano gli oggetti e i significati che, certo, molto deve alla lezione di Foucault, la cui effige in terracotta, realizzata da artigiani napoletani, è non a caso fra quella dei dodici numi tutelari (The Cicerons) esposti come in un sospeso presepe (o è forse una panoplia di trofei?) nella sala che apre il percorso della mostra, rigorosamente scandito per temi. «Collezionismo, scienze naturali, vulcanologia, caccia, la nave HMS Colossus, Lady Hamilton»: così li elenca, burocratico, il comunicato stampa, purtroppo unica traccia di un’esposizione che, nata all’interno di PROGETTO XXI e, quindi, dalla collaborazione tra le Fondazioni Donnaregina e Morra Greco, avrebbe senz’altro meritato la memoria, non soltanto d’immagini ma soprattutto di pensieri, di un catalogo.

 

   Bay of Naples researches - 2013 dettaglio

 

Perché quello che Dion, classe 1961, attualmente docente alla School of Art della Columbia, ogni volta mette in movimento nei suoi dispositivi d’esposizione, frutto di un continuo cortocircuito fra tempi e concetti (qual è l’opera e chi è l’autore? dov’è il confine, se mai c’è, fra l’allestimento e l’installazione, fra ready-made e ricostruzione, fra l’autentico e il falso?) è un processo di analisi che, nutrendosi di umori e di dialetti, di gusti specifici, decostruisce con precisione mai crudele le consuetudini che governano o, meglio, normalizzano i contenuti della conoscenza facendone eterne “cose da museo”.

 

Stanza del Vesuvio - 2013 veduta dell'installazione

 

Quell’operazione di sistematizzazione, di ordinamento e di classificazione che traduce la ricerca, il sapere delle mani o delle menti, in exhibit rigorosamente conformi: teche, vetrine, cornici, ma anche diorami e period rooms che nascondono dietro la loro apparente trasparenza o, ed è lo stesso, nella meraviglia della loro spettacolarità, la rigidità normativa – l’impossibile oggettività – del Kunstwollen collezionistico, di quel progetto così profondamente singolare che, lo ha sottolineato in maniera indiscutibile Adalgisa Lugli, sempre determina prima la costruzione e poi la scrittura, il racconto visivo di una collezione.

 

Stanza della caccia - 2013 veduta dell'installazione

 

In Tate Thames Dig (1999-2000), opera realizzata setacciando con un gruppo di archeologi il fondo del Tamigi a Millbank e a Bankside ed esponendo poi i risultati di questo impossibile scavo in una vetrina alla Tate Gallery, o nell’installazione del Gabinetto delle curiosità al Wexner Center for The Arts (1997), dove l’inquadramento e l’incomunicabilità degli ambiti disciplinari trovavano paradossale visualizzazione negli scaffali in cui l’artista aveva risistemato le eteroclite collezioni scientifiche del museo, come pure nell’opera, per molti versi eccezionale, The Octagon Room (2008), malinconico autoritratto in forma di museo, Mark Dion applica ogni volta il proprio sguardo critico sui metodi che orientano l’accumulazione  del sapere (della conoscenza di sé, nel caso dell’autobiografica Octagon room), evidenziando ogni volta l’esigenza di riconnettere gli oggetti, i reperti - d’arte o di natura – ai contesti d’origine, alle circostanze storiche e alle condizioni epistemologiche che ne hanno determinato il valore, contraddicendo innanzitutto  l’apodittica assertività dei musei d’arte: «Un museo d’arte –  ha precisato Dion in una recente intervista - è un luogo dove puoi avere cose senza contesto.

 

È possibile trovare un dipinto del XVI secolo che potrebbe non dichiarare altro che la data, il nome dell’artista e la tecnica. Cosa che sembrerebbe assolutamente folle per chi lavora in un museo etnografico o in un museo di storia naturale».

 

Non stupisce, quindi, che, lontana da ogni ambizione filologica, la mostra The Pursuit of Sir William Hamilton sia il racconto di una personalità eccezionale – quella del diplomatico inglese ambasciatore tra il 1764 e il 1800 nel Regno di Napoli, amante delle antichità, vulcanologo, studioso di scienze naturali, erudito e scrittore – teso soprattutto a restituire le passioni e i metodi di una ricerca che, pur nella sua squisita natura individuale, non può essere letta fuori dai turbamenti della storia e dalle condizioni mutevoli del gusto.

 

Stanza del HMS Colussus - 2013 veduta dell'installazione

 

Che siano rifacimenti di oggetti appartenuti alla collezione di Hamilton, creazioni di Dion realizzate con la collaborazione di artigiani napoletani o opere d’arte, dipinti, reperti archeologici, porcellane o armi provenienti dalle collezioni dei più importanti musei napoletani, gli elementi che compongono la mostra non valgono tanto nella loro singolarità quanto nella trama visiva e, assieme, narrativa che compongono, una tessitura in cui la molteplicità dei tempi – il passato dialoga costantemente con un presente astorico che non tenta però alcuna forma di camouflage o di anacronismo – non è frutto di un facile gioco postmoderno ma la condizione di una fruizione (di un godimento) attuale che punta sulla meraviglia non per distrarre ma per catturare lo sguardo e il pensiero del visitatore.

 

Salvage - HMS Colossus (Oggetti) - 2013 n° 8 oggetti con incrostazioni marine

 

Per metterlo in guardia, anche, dai meccanismi inconsci del voyerismo, perversione che ogni esposizione sollecita e che Dion esibisce nel peep-show sull’eruzione del Vesuvio, una cassa d’imballaggio dentro la quale si nasconde un mondo di figure e paesaggi catastrofici da guardare (da sbirciare, appunto) attraverso un buco (e come non pensare a Étant donnés di Duchamp o al Musée des Aigles di Broodthaers?). Una tentazione, quella del voyerismo, che si fa più forte quando, come nel caso di The Pursuit of Sir William Hamilton, il protagonista (il soggetto e l’oggetto) della mostra è una figura storica di cui si espongono passioni  - quella per la caccia, ad esempio - e aspetti biografici che sono entrati anche nella letteratura: quanto, senza nulla dire, suggerisce la ricostruzione del teatrino dove l’affascinante Lady Hamilton metteva in scena le sue mitologiche Attitudes?

 

HMS Colossus - 2103 dettaglio oggetti

 

Lo stesso Goethe, che degli Hamilton fu ospite a Napoli, ricordava con divertimento nelle pagine del suo Viaggio in Italia quelle rappresentazioni con cui Emma Hamilton deliziava i suoi illustri invitati:«Ciò che avrebbero aspirato a creare tante migliaia d’artisti lo vediamo come realtà in moto, come sorprendente successione di pose. In piedi, in ginocchio, seduta, sdraiata, serie, triste, maliziosa, sfrenata, contrita, provocante, minacciosa, timorosa e via dicendo: un’espressione segue un’altra, e un’altra la sostituisce. (…) Sta di fatto che il divertimento è unico! Ci siamo già godute due di queste serate, e stamattina Tischbein farà il ritratto della bella».

 

Uno sprofondamento nel passato, in un tempo altro che si veste di seduzione e allude a lontane civiltà della conversazione, a relazioni ovviamente pericolose e raffinatissime, che Mark Dion però frena immediatamente: i disegni che chiudono la mostra, progetti minuziosi e inflessibili di tutti gli elementi che compongono il percorso espositivo, impediscono al visitatore ogni illusione, riconducendolo alla franchezza dell’artificio, al rigore di una pratica artistica che è pensiero che si fa sensibile, una ricerca che trova forma e concretezza in materie, tecniche, volumi per offrirsi come esperienza di conoscenza, come una possibilità di nuovi sguardi.

 

N° 22 disegni - 2013

 

E molto diversa, a chi ha attraversato The pursuit of Sir William Hamilton,  sembrerà anche la collezione che, al primo piano del Museo Principe Aragona Pignatelli Cortes, racconta, congelata negli allestimenti sempre un po’ perturbanti delle dimore storiche, di una nobiltà antica dai gusti eclettici e sofisticati.

 

Come non chiedersi, di ritorno dalle vetrine e dalle bacheche di Dion, se quelle preziose ceramiche, quei divertenti vasi cinesi, quella tavola fastosamente imbandita siano davvero una testimonianza autentica del passato e non una felice invenzione del presente? Del resto, dalla sala dei concerti arrivano note jazz: per fortuna, anche nel museo il tempo non si è fermato.
 


Mark Dion, The Pursuit of Sir William Hamilton
Museo Principe Aragona Pignatelli Cortes, Napoli , fino al 3 marzo

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