Il filo e il fiume / Po, fiume della sofferenza e dell'abbondanza

20 Aprile 2022

 

Alcuni anni fa, nel 2002, apparve su un numero della rivista National Geographic un articolo dedicato al fiume Po, intitolato Po. River of pain and plenty. Quando me ne accorsi, a partire dalla copertina (la modalità di far convivere in prima pagina la celeberrima cornice gialla e l’indice sommario dei contenuti è un aspetto rotocalchesco non secondario nel fascino della patinata rivista statunitense di geografia divulgativa), subito mi prese la curiosità di vedere come era stato ritratto il grande fiume. «Caspita», mi dicevo, «chissà come lo stile visuale di una rivista in grado di segnare uno scarto fondamentale non solo nel modo di fare reportages giornalistici di viaggi, ma nelle modalità stesse di “pensare” il mondo, attivando una dimensione di spettacolarità grandangolare e multicolore, è riuscita a ritrarre questo angolo un po’ remoto, nascosto, provinciale e strapaesano della geografia italiana». Con notevole lucidità e preveggenza, già nel 1959, il geografo Eugenio Turri aveva identificato, in un articolo intitolato “La moderna idea geografica nella divulgazione di una rivista americana: il National Geographic Magazine” apparso sulla rivista L’Universo, il potenziale comunicativo del nuovo stile iconografico proposto dal mensile. Quando finalmente ebbi l’occasione di sfogliare l’articolo del National Geographic sul Po, pregustando un bottino visuale memorabile, non impiegai molto ad accorgermi che il fiume era ben lungi dall’essere protagonista della campagna di rilevamento effettuata dal fotografo William Albert Allard. Il corso d’acqua compariva solo in un paio di immagini, per di più verso la fine dell’articolo.

 

Questa discrepanza fra la centralità concessa al fiume nel titolo e l’effettivo contenuto del pezzo giornalistico costituiva un interessante spunto di riflessione: food for thought, per rimanere nel linguaggio utilizzato nell’edizione originale della rivista. Soffermiamoci un momento sul titolo: Po. River of pain and plenty, con il risalto sonoro evidenziato non solo dall’allitterazione delle due parole del sottotitolo, ma soprattutto dalla formidabile concisione monosillabica dell’idronimo; peraltro liberato da quell’ambiguità presente in ambito italofono, per cui il nome del fiume si confonde inevitabilmente con l’abbreviazione dell’avverbio “poco”, con correlati qui pro quo di scrittura del toponimo, che talvolta appare erroneamente dotato di accento o apostrofo.

 

 

Intorno a tutto questo, continuavo a riflettere sul ruolo indubbiamente secondario assegnato all’apparizione visuale del fiume nel corredo fotografico dell’articolo. Come se non fosse sempre necessario vedere il fiume per sentirne la presenza; o ritrarre direttamente il fiume per poterlo rappresentare. La tradizione fotografica di lavori dedicati al maggior corso d’acqua italiano, peraltro, è ricchissima, a partire dal formidabile Un paese, idea di Cesare Zavattini e immagini di Paul Strand, del 1955 (recentemente riedito da Einaudi). Questo “peso iconografico” della tradizione influenza inevitabilmente la rappresentazione e la percezione del fiume. Mi vengono in mente le suggestive parole di Tiziano Scarpa a proposito di Venezia nella sua insolita guida Venezia è un pesce (2000): “Venezia è incrostata di immaginario. Le sue pietre scricchiolano sotto un’impressionante catasta di apparizioni. Non c’è luogo al mondo che possa reggere sulle spalle tutto questo tonnellaggio visionario. Gli allarmi ricorrenti sulla tenuta della città non riguardano le strutture architettoniche. Quelle, con un po’ di sostegno da parte di tutti, forse ce la possono fare. Venezia sprofonderà schiacciata da tutte le visioni, le fantasie, le storie, i personaggi, i sogni a nasi aperti che ha generato” (p. 70). Ecco, in un certo senso, mutatis mutandis, queste parole potrebbero essere applicate anche al fiume Po, la cui iconografia rischia di continuo la “cartolinizzazione”, l’accumulo stereotipico, la perpetua ripetizione dei medesimi stilemi visuali. Ecco che quindi l’idea del fotografo americano risultava essere parecchio interessante.

 

 

Veniamo dunque a Il filo e il fiume, progetto fotografico di Paolo Simonazzi, che parte proprio da un assunto simile: ritrarre il fiume senza metterlo necessariamente al centro dell’obbiettivo fotografico. Il progetto ha prodotto una mostra – a cura di Ilaria Campioli e Andrea Tinterri, attualmente nella sede espositiva di Palazzo Pigorini a Parma (dal 26 marzo all’8 maggio 2022) – e al contempo un volume, uscito per i tipi editoriali di Silvana (con testi di Francesco Zanot e dello scrivente). Simonazzi, oramai quasi una decina di anni fa, mi aveva parlato, in una delle prime conversazioni in cui cominciavamo a scambiarci reciprocamente le nostre immagini ed esperienze fluviali relative al Po, del fascino che gli aveva ispirato il lavoro di Alec Soth sul Mississippi, confluito in un volume intitolato Sleeping by the Mississippi (2004). Rimasi subito folgorato dal titolo di questo lavoro, che non conoscevo, e che, pertanto, potevo al momento immaginare un po’ come volevo io.

 

 

L’idea del dormire “accanto a un luogo”, innanzitutto, mi affascinava. Normalmente pensiamo di dormire accanto a qualcuno, magari anche accanto a qualcosa, ma certo non vicino a un elemento geografico… Che bella idea, però. Una sorta di vicinanza affettiva, di condivisione implicita, di complice consonanza con un luogo. Non avevo però mai formalizzato linguisticamente, e pertanto con la nettezza di un pensiero, l’idea del “dormire accanto al fiume Po” come una possibile forma di investigazione spaziale della beneamata pianura padana. Ho cominciato allora a ripensare tutte le notti che avevo “dormito accanto al Po”, imboccando quella strana forma di indeterminatezza spaziale, non precisamente misurabile, e per questo ancora più attraente, che probabilmente Paolo aveva intuito assai prima di me attraverso la citazione del lavoro di Soth.

 

Lo snodo che apre le porte all’investigazione esplorativa sul territorio risiede proprio nell’indeterminatezza dell’avverbio “accanto”. Fino a quando ci si trova “accanto” a qualcosa? Quando è che si smette di essere “accanto”? Appare fin da subito abbastanza chiaro che non esiste una misurabilità oggettiva dello stare “accanto” (a qualcosa, ma anche a qualcuno…). Si tratta piuttosto di un sentimento di vicinanza, di un respiro di affinità; che può essere pertanto più o meno largo, a seconda dei casi e dei soggetti in questione. Ecco una bella sfida geografica: provare a investigare fino a dove si può dire che si è dormito “accanto al Po”. Fino a dove l’“ombra identitaria” del fiume si estende oltre gli argini che ne stabiliscono il confine idraulico.

 

Il problema è d’altronde ben radicato nella geografia culturale, ovvero in quella disciplina che, fra le altre cose, investiga anche il senso di appartenenza territoriale, le bandiere identitarie di un determinato territorio, i sottili legami di “topofilia” e di “topofobia”, per usare i due bei neologismi creati dal geografo americano Yi-Fu Tuan per indicare rispettivamente l’amore e la paura nei confronti dei luoghi (un libro del 1990 del geografo americano si chiama proprio Topophilia. A Study of Environmental Perception, Attitudes and Values). Il fiume è una linea territoriale ben identificabile. Se lo si affronta da un punto di vista morfologico e idraulico, si possono distinguere diverse scale spaziali: l’alveo di magra, l’alveo di piena, la golena. Se si pensa all’effetto climatico, all’influenza che il fiume ha sulla temperatura e sulla umidità delle aree circostanti, si stabilisce un altro criterio.

 

L’influenza climatica è percepibile anche quando si attraversa un ponte in bicicletta. Chiunque di noi abbia qualche esperienza ciclistica su strade extraurbane, avrà conosciuto quel repentino abbassamento della temperatura di norma associato a un passaggio fluviale, in cui l’umidità e la inerzia termica del corpo idrico (superiore, come ben noto, a quella del terreno solido) contribuiscono a quella piacevole sensibile sensazione di “fresco” (d’estate) o a quella pungente percezione di “freddo” (d’inverno) che si prova passando sopra a un ponte.

Se però si scivola nell’ancora più fluido reame degli immaginari geografici e dei sensi di appartenenza territoriale, non è così facile rispondere a domande del tipo: fin dove si “sente” un fiume? Fin dove arriva il suo “respiro territoriale”?

 

 

La seconda sfida che si delineava nel progetto di Il filo e il fiume, dopo quella del provare a misurare la distanza spaziale cui può estendersi il concetto di “accanto”, mi sembrava quasi un gioco sociale di narrazione. Come accade in quel passatempo nel quale ci si sfida reciprocamente a indovinare un titolo di un film attraverso le spiegazioni mute, fornite solo con i gesti, dell’oratore di turno. La scommessa narrativa sarebbe dunque stata quella di trovare il modo di parlare di un elemento geografico, nel nostro caso di un fiume, il Po, senza “nominarlo”; per quanto riguardava il discorso visuale, senza inquadrarlo obbligatoriamente nelle immagini. Giocando dunque per evocazione significativa, per sottili affinità e consonanze. Girandoci intorno. Standoci (o dormendoci, per l’appunto) “accanto”.

 

Cercando quelle immagini, quelle “parole visuali” che potessero parlare del fiume senza evocarlo direttamente. Anche in questo caso il gioco sembrava aprire subito le porte ai domini della imperscrutabile volubilità personale, piuttosto che prefigurare oggettive regole valide per tutti. Sarebbe occorsa, in questa sorta di seduta collettiva (o perlomeno a tre: di Paolo Simonazzi, di Francesco Zanot, il critico e curatore che partecipava al progetto e che ha scritto un illuminante testo nel catalogo, e il sottoscritto) di autocoscienza geografica, una buona dose di assunzione di responsabilità personale. Parecchie frasi sarebbero dovute cominciare con un rispettoso e doveroso “secondo me”.

 

L’idea sottesa al progetto era dunque la ricerca di un “filo” accomunante che potesse mettere insieme gli elementi disparati e disgiunti di un territorio; che li infilasse come avviene in una collana di perle, alla ricerca di qualche significato recondito che scaturisse dall’accoppiamento di ritratti visuali. In realtà la sfida fotografica proposta da Simonazzi è profondamente sapienziale, tocca in pieno la questione della narrazione, del trovare un filo narrativo in grado di restituirci un valore conoscitivo. In fase di allestimento del volume fotografico, la ricerca di un ordine per le immagini scattate nel corso di anni di campagne di rilevamento in giro per la pianura padana poteva seguire di volta in volta ordini geografici, di assonanza visuale, di richiamo speculare, di evocazione mentale.

 

Si trattava di un sottile gioco di equilibri narrativi, in grado di donare un nuovo ed inedito significato alle singole immagini scattate in contesti e condizioni diversificate. Il risultato della ricerca iconografica – ma non solo: direi veramente geografica, nell’accezione più allargata del termine, di sapienza territoriale – di Il filo e il fiume è proprio quella di proporre molteplici e complementari possibilità di attraversamento. Il percorso espositivo – sia quello della mostra, che si avvale di stampe a grande formato, sia quello del volume – si offre proprio a plurimi possibili itinerari di attraversamento: si possono inseguire di volta in volta affinità nella forma compositiva delle immagini, consonanze cromatiche, richiami tematici, ricorrenze di apparizioni, ecc. Tutti percorsi possibili e potenzialmente proficui per avvicinarci al genius loci del territorio.

 

 

Con la disponibilità a “perdersi” nello spessore di luoghi apparentemente marginali, secondari, non caratterizzati da spettacolarità turistica, ma non per questo privi di profondità e di interesse. Le lunghe sedute passate insieme al fotografo e a Francesco Zanot nello scegliere le immagini per l’allestimento del volume mi ricordavano un po’ il gioco di combinazioni narrative proposto da Italo Calvino nel suo Il castello dei destini incrociati (1969): al variare della posizione di una fotografia/carta mutava anche il processo narrativo: riposizionando gli elementi compositivi in un altro ordine, cambiava anche la storia narrata. 

 

Ancora sulla metafora del filo. Il fiume, a suo modo, è a sua volta un filo, un trait d’union. Parlare del fiume porta inevitabilmente a convogliare nel pensiero, e nei correlati tentativi di descrizione – sempre apparentemente inappropriati di fronte alla nitida evidenza dei paesaggi fisici ed antropici – rivoli provenienti da mille fonti. Immagini, letture, ascolti musicali: la corrente del fiume aiuta, con il suo ritmo incantatorio, l’esplorazione nei meandri della memoria. Sulle rive del fiume sembra che sia la corrente a trascinare, nel suo moto incessante, i pensieri verso di sé, come fosse una sorta di liquida calamita.

 

Una delle costanti nell’allestimento del volume, e a maggior ragione della mostra, è stata la progressiva sottrazione. Alla fine del percorso, mi sono reso conto che quello che avevamo fatto era stato da un lato il “raccogliere” più cose possibili durante le nostre esplorazioni sul fiume: immagini, certo, ma anche parole, impressioni, suoni, profumi. Finita però questa fase di “accumulo” (parola chiave, peraltro, nel lavoro di Simonazzi, autore di un libro, Cose ritrovate, del 2014, dedicato agli accumulatori compulsivi sparsi in giro per la pianura padana) era iniziata un’azione di progressiva sottrazione.

 

Siamo partiti da centinaia di immagini, raccolte durante le esplorazioni ed anche appartenenti all’archivio del fotografo, per poi arrivare a diminuire progressivamente il numero: prima 200, poi 100, poi 56 per il libro, poi 18 per la mostra. Mi sentivo un po’ a bordo di una mongolfiera in cui diventava necessario, per continuare a “volare”, disfarsi sempre di più di immagini. Operazione difficilissima per me (anch’io sono potenzialmente un accumulatore compulsivo…), che Simonazzi e Zanot hanno portato avanti con pazienza e coerenza. Alla fine, mi sembrava che il corpus autoriale avesse in un certo senso subito, per conservare un termine comparativo appartenente all’area territoriale emiliana, il processo di “asciugatura” cui vanno incontro i prosciutti nella stagionatura, durante la quale perdono progressivamente gran parte del loro peso, ma al contempo acquistano in profumo e gusto. Non mi resta che augurare, dunque, buon appetito…

 

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