“Vite vere” in scena / Rau, Arias, Blanco: l’innovazione diventa format?

22 Ottobre 2021

Riaprono i teatri, le capienze aumentano, e anche il mercato internazionale riprende il suo corso. 

Tornano sui palchi nostrani i nomi più acclamati della scena europea, quelli che gli operatori inseguono, e che il pubblico più attento alle novità ha ormai imparato a conoscere. Si sta chiudendo un ottobre di appuntamenti importanti: al Fit Festival di Lugano è tornato Sergio Blanco con Divina Invención o la celebración del amor; all’Arena del Sole di Bologna ha debuttato Lola Arias con Lingua Madre; al Piccolo Teatro di Milano è approdato, attesissimo, EveryWoman di Milo Rau.

Tre nomi e tre metodi molto diversi, accomunati però dalla straordinaria capacità di accordarsi alle linee più avanzate della scena contemporanea (se non, addirittura, di dettarle). Proviamo a rimetterle, ancora una volta, in fila: impegno a raccontare il presente, per lo più in chiave esplicitamente politica; rinuncia ai tradizionali apparati rappresentativi, in favore di una sovraesposizione dei dispositivi scenici (video, microfoni, mixer, fari); interesse per la dimensione biografica, riportata spesso in forma frammentaria, non rielaborata (o apparentemente non rielaborata).

 

Lola Arias, Lingua madre, ph. Stefano Triggiani.


Signori spettatori, ecco a voi la vita vera: vi raccontiamo ferite, dolori, contraddizioni prelevate direttamente dalla realtà. Lola Arias, con il progetto Lingua Madre, intervista donne e uomini sul tema della maternità, e dà voce a storie di fecondazioni assistite, transizioni, gestazione per altri. Ursina Lardi e Milo Rau condividono con il pubblico i pensieri di una donna che sta per morire di cancro o forse, mentre Ursina ci parla, è già morta. Sergio Blanco, invece, ci svela del suo primo rapporto sessuale in una palestra e di quella volta che, in una camera di albergo, ha pensato che ci avrebbe fatto uno spettacolo.

Noi in platea crediamo a quello che ci viene raccontato? Certamente. Ci vengono portate le prove: i corpi dei protagonisti – vivi e vegeti sulla scena, o proiettati in video – sembrano confermare, con le loro ferite e le loro peculiarità, quanto è stato appena raccontato; ci vengono presentate mail, taccuini, appunti, fotografie; si parla immancabilmente del momento in cui lo spettacolo è stato concepito e spesso vengono condivisi con noi i materiali di lavoro o la cronologia dell’ideazione. 

 

Lola Arias, Lingua madre, ph. Stefano Triggiani.


Poi, certo, il dubbio ci viene. Anzi, sono gli stessi autori a suggerirci di stare in guardia, disseminando segnali testuali e paratestuali; c’è chi, come Milo Rau, utilizza il video come esplicito elemento di distorsione e dunque di manipolazione della realtà; chi, come Lola Arias, crede che la storia del singolo sia innanzitutto la storia di una collettività, e dunque poco importa se quella specifica vicenda appartiene davvero alla donna che parla, o a un’altra che alla fine non è salita sul palco; chi, come Sergio Blanco, disserta apertis verbis sulla dimensione dell’invenzione e teorizza (con libri e conferenze) le regole dell’auto-finzione. Del resto, dubitare fa parte del gioco della biografia, ce lo hanno insegnato bene Carrère e i suoi milioni di copie vendute. L’importante è che al pubblico venga offerta una parte di verità, e che chi prende parola venga reputato, in qualche misura, un testimone credibile. Ed ecco, allora, che la parola ‘attore’ appare da ridiscutere, ampliare: si tratta piuttosto di un “esperto” – così ci hanno insegnato i Rimini Protokoll – cioè di qualcuno che ha un’esperienza da condividere, e che in virtù di questa sale sul palco. Professionisti? This is not a factor. Milo Rau – seguendo i precetti del suo manifesto – accosta un’attrice di esperienza come la Lardi al volto scavato della donna che, in video, ci parla della sua morte; Arias interroga donne e uomini in quanto genitori, ed è contingente se qualcuna di loro ci svela di fare l’attrice; Sergio Blanco siede su una scrivania, e legge dai fogli il suo scritto come in una conferenza.

 

Milo Rau, EveryWoman, ph. Armin Smailovic.


Il codice comunicativo a cui è divenuto quasi necessario uniformarsi è schiettamente anti-teatrale: i materiali vengono letti o riprodotti senza interpretazione, quasi si desiderasse epurare il campo da ogni ombra di mediazione finzionale. La scelta dei costumi e degli oggetti di scena segue di conseguenza: immancabili le t-shirt, le felpe, i jeans, le scarpe da tennis, le bottiglie e i bicchieri d’acqua, i fogli, i faldoni, i tavoli di lavoro – qualsiasi cosa possa toglierci dalla testa l’impressione di avere davanti un travestimento o un apparato rappresentativo. 

Sullo sfondo, con la stessa ovvietà con cui ci si aspettava la porta di un palazzo nel teatro greco, ecco comparire un enorme schermo. Una telecamera – statene certi – apparirà davanti ai nostri occhi (non c’è più bisogno di nasconderla), riprenderà il volto di un performer e lo proietterà, ingrandito, sulla scena. Sbirceremo le sue esitazioni, i singulti, le vibrazioni impercettibili. 

 

Sergio Blanco.


La storia del Novecento ci ha ottimamente insegnato quali sono le traiettorie dell’innovazione: rottura ed eversione, popolarità e consenso in cerchie sempre più ampie, assorbimento e depotenziamento delle istanze innovative. La grande onda internazionale che ha spazzato via con eccezionale forza d’urto quello che restava dei vecchi apparati della rappresentazione ci appare, oggi, riproporre schemi rodati con una qualche stanchezza. Siamo ben consapevoli che i palchi da cui abbiamo condotto questa osservazione (Fit Festival, Piccolo Teatro, Emilia Romagna Teatro) sono luoghi particolarmente avanzati, recettivi e attenti al nuovo; e che nella maggioranza dei teatri per tutta la penisola vengono riproposte stancamente forme acquisite, senza alcun tentativo di ridiscussione.

Ma la sperimentazione può diventare maniera, e c’è il rischio che i più vivaci linguaggi della scena europea possano accomodarsi in comodi format di successo pret à porter.
Edoardo Sanguineti, scrivendo di Berio, Baj e Ronconi, confessò di amarli “per la loro consonante e costante ricerca di una varietà delle soluzioni praticabili” e per “la capacità di ripartire ogni volta da un’idea totalmente inedita”. È questa, in effetti, l’unica ‘ripartenza’ di cui ci piacerebbe parlare oggi. 

 

L’ultima immagine ritrae un momento di Divina Invención o la celebración del amor di Sergio Blanco, ph. Sergio Parra.

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