Una conversazione con Fabio Mauri / Senza paura del buio

18 Giugno 2012

Ho incontrato Fabio Mauri a Roma, nella sua casa di Piazza Navona, nel gennaio del 2007. Stava lavorando all’opera che avrebbe poi esposto pochi mesi dopo all’Hangar Bicocca di Milano in una mostra intitolata Not Afraid of the Dark. Era la prima volta che lo intervistavo, anche se avevo ascoltato molte volte dalla sua bella voce profonda i racconti di una vita fuori dal comune, trascorsa a stretto contatto con i più importanti artisti e intellettuali nei decenni chiave del secondo dopoguerra italiano. Artista, critico, editore, insegnante, fondatore di riviste ormai storiche (“Quindici”, “La città di Riga”), a quasi 82 anni non aveva perso nulla della curiosità per le cose nuove, del rigore e anche di quella cifra inconfondibile, fatta di precisione, inadattabilità e acutezza di sguardo, che lo aveva sempre accompagnato.

 

Fabio Mauri ha rappresentato in Italia un modello di artista-intellettuale largamente in anticipo sui suoi tempi, impegnato in un dialogo senza remore con la storia, la cultura della modernità e le sue fatali contraddizioni. In lui sensibilità religiosa, vocazione artistica, dandysmo, sottigliezza intellettuale, inclinazione didattica e capacità comunicativa si mescolavano in una personalità creativa che non è facile incasellare in nessuno dei grandi e piccoli movimenti che hanno attraversato l’arte del suo tempo, né nel clima new dada dei suoi esordi, né tantomeno nelle neoavanguardie degli anni sessanta, dalla pop art all’arte povera e concettuale, né tantomeno nei distretti della performance e del nuovo teatro.

 

Con il suo carattere multiforme, irrequieto e sempre rinnovato, la sua opera si è infatti misurata da un’angolatura estremamente originale e senza sconti con la letteralità degli eventi, dei riti, delle immagini e dei personaggi che hanno abitato la zona più buia della vicenda novecentesca, il totalitarismo nelle sue varie incarnazioni, il suo volto sinistro e demonicamente seduttivo. Un confronto che equivaleva a una caparbia volontà di sapere, di conoscere, di capire, di penetrare la coltre di fumo che la Storia stende abitualmente attorno ai suoi misfatti. Forse è proprio per questo che nel lavoro di Fabio Mauri possiamo riconoscere oggi, e in modo ancora più urgente, un’ostinazione etica quanto politica ad attraversare il muro della menzogna, della propaganda, della disinformazione, per ritrovare, against all odds, la strada di una possibile liberazione.

 


 

STEFANO CHIODI: Una valenza politica in senso stretto si è affermata nel tuo lavoro solo a partire dagli anni settanta di quello che è ormai per noi “il secolo scorso”; cosa ha preparato questo mutamento rispetto al tuo percorso precedente?

FABIO MAURI: Fino al 1964 avevo fatto parte del gruppo di giovani artisti attorno a Piazza del Popolo. Si pensava che cambiando la lingua si potesse migliorare il mondo e aprire le porte di un’arte nuova. L’espressionismo astratto era stato alla base dei nostri primi tentativi, della nostra riflessione sul rapporto con la realtà: conoscevamo da vicino gli artisti americani. Poi ci fu il 1964 e la Biennale con la rivelazione della pop art. I pittori americani facevano le stesse cose che avevamo cominciato a fare dal ‘57-58, ma in dimensioni che noi non avevamo mai raggiunto, opere di oltre tre metri, immagini gigantesche vicine al design industriale e pubblicitario. Capii subito che era il seppellimento italiano, mentre gli altri no, pensarono “Siamo sulla giusta strada, andiamo a New York!”. Non fu così: chi andò in America ci rimase un anno, due, ma alla fine tutti dovettero tornare. L’America non naturalizzò gli artisti italiani. Le ragioni sono diverse e note.

 

 

E quale fu invece la tua reazione?

Mi fermai a riflettere, era evidente che la cultura artistica aveva spostato il suo baricentro. Da una parte c’era New York, culturalmente vitale, e dall’altra un’attesa per una Russia altrettanto vitale ma che ancora non aveva prodotto nulla; in mezzo si apriva una grande valle che comprendeva l’Italia, un paese in qualche modo culturalmente scartato per diverse ragioni, per la lingua forse, ma comunque scartata era anche l’Inghilterra, benché tra Roma e Londra ci fossero stati artisti che avevano intuito la nuova realtà della società dei consumi. Per qualche anno, dal ‘64 al ‘68, non ho fatto mostre.

 

Sono stati anni di riflessione?

Una specie di depressione riflessiva in cui notavo che gli americani erano più brutali, più diretti. Noi avevamo inconsciamente l’occhio a una misura classica. C’era su di noi l’ombra della grande arte. Non riuscivamo ad affrontare la realtà, non saremmo stati capaci di fare una scultura con la Coca-Cola. L’ho scritto altre volte: la bottiglia del Chianti non poteva avere la stessa funzione emblematica, rimaneva dialettale. Era necessaria una presa di posizione di fondo; volevo capire. Da quando, e dove? Ho iniziato dalla prima giovinezza, dalla mia biografia. C’era stato il fascismo, la guerra, lo sterminio degli ebrei. Dovevo ricominciare da lì, analizzare i disastri subiti, il freddo, la fame, la paura, i bombardamenti. Uno scoppio – un terremoto – quando si usciva all’aperto non vedevi più il palazzo di fronte, sentivi che una famiglia era morta. Ho cominciato a riflettere su tutto questo. Impresso nella memoria trovai un raduno di Ludi juveniles a Firenze, nei giardini di Boboli, dove ero stato con Pasolini, Fabio Luca Cavazza, Francesco Leonetti. Avevamo incontrato i giovani della Hitlerjugend. Le ragazze con le treccine, i maschi solo biondi, alti uguali. Noi eravamo un po’ diseguali, uno con le fasce storte, l’altro col fez in un modo ecc. Ripensando a quelle giornate riflettevo sull’aspetto politico e storico del destino, a come la storia incide sulla vicenda dei singoli. Sembra un incidente, ma è la sostanza di una vita.

 

Come si trasformò allora il ricordo dei Ludi juveniles in un lavoro artistico?

Volevo fare una mostra che riferisse di queste memorie, presentando un oggetto storico, senza aggiungere niente. Da un vecchio negoziante avevo trovato il microfono di Mussolini, l’originale, chiuso in una scatola come una reliquia, sepolto nella bambagia. In quel microfono era passata la voce, lo sputo di Mussolini… dai piccoli buchi era filtrata la dichiarazione di guerra. Milioni di persone erano divenute soggetti di un destino. Ho fatto di tutto per avere quell’attrezzo. Ho detto bassezze, “Noi fascisti…”. Ero pronto ad aprire un mutuo per acquistare il microfono, l’idea era eloquente. Il simbolo parlava di una realtà storica italiana, europea.

 

E te lo ha dato alla fine?

No, il vecchio non c’è cascato… Nel frattempo, era il 1971, Giorgio Pressburger mi chiamò all’Accademia d’Arte Drammatica per un seminario e una performance. Avevo sempre in mente quel che avrei potuto fare con il microfono di Mussolini. Da questa idea derivò Che cosa è il fascismo. Decisi di rimettere in piedi con gli allievi dell’Accademia il raduno di Boboli, cercando di ricostruirne esattamente l’atmosfera, togliendo il cowboy o la pin-up dalla gestualità dei giovani, insegnando alle ragazze a sedersi con le ginocchia chiuse e ai ragazzi a stare diritti, a marciare e ubbidire subito agli ordini… Il primo insegnamento consisteva nell’essere di un’epoca per loro sconosciuta. Mi sono messo in cerca di testi di Mistica Fascista, li ho trovati e assemblati per ricreare quegli scambi tautologici che ricordavo di aver ascoltato: “Perché credi nel Duce?”, “Perché il Duce ha detto di credere in lui”, “Ed è giusto?”, “Sì, lo ha detto il Duce!”…

 

In quegli anni qual era la tua percezione del fascismo? Lo consideravi una “parentesi”, come aveva detto Croce, una pagina nera della storia italiana, oppure, come Gobetti, l’autobiografia della nazione, un’ideologia che aveva avuto un seguito reale nel paese?

Del fascismo non parlava più nessuno, lo si giudicava un’esperienza politica chiusa, che la democrazia aveva già giudicato e condannato. Non era vero: Che cosa è il fascismo è andato in scena tre giorni dopo il golpe Borghese! Tutte le volte che io ho ripreso Che cosa è il fascismo ho dovuto lottare fino all’ultimo contro questa riluttanza a fare i conti con la realtà. Gobetti aveva molta ragione.

 

 

Che cosa è il fascismo è stato pensato più in termini teatrali, come messa in scena, o come una performance che coinvolgeva in modo specifico interpreti e pubblico?

È teatrale nel senso che ho inventato una scena, una sintesi spaziale di ciò che avevo vissuto, ma la scena era anche un’installazione orientata come un tunnel. Non c’era una trama, ma un percorso mentale. Le tribune nere, attorno al grande tappeto, disegnavano l’unico punto della dottrina fascista di una certa consistenza: il corporativismo. C’erano le tribune dei familiari, dei giornalisti, degli ingegneri, dei grandi proprietari terrieri, ironicamente. Il pubblico assumeva o meglio subiva la sua parte, sedendosi in tribuna. Erano perfetti attori involontari, borghesi, popolari, ignari, stupiti, divertiti, offesi, vecchi e giovani.

 

E c’era anche la tribuna “razziale”…

Sì, due tribune, piccole, con la stella ebraica. Era un modo per rendere la “normalità” iniziale delle leggi razziali che furono anche la fine dell’identificazione della mia dolce vita giovanile con la vita fascista.

 

E quale visione volevi far emergere in quella e nelle altre tue performance che hanno come tema il fascismo?

Avevo trovato il fondo di un carattere critico, il mio. E il possibile inganno delle idee. La performance doveva essere una specie di termometro della storia italiana, di un fascismo diffuso, del suo essere classista, del privilegiare i più forti, della sua essenziale superficialità. Una cosa ricordo bene: i capimanipolo, i capiclasse, i capisquadra, erano i più stupidi, sempre; più sciocchi e più autoritari perché avevano bisogno di qualcuno che detenesse la verità che loro amministravano, e questo ovunque. Nel gruppetto di intellettuali con cui condividevo una piccola notorietà bolognese – Pasolini, Serra, Cavazza, Telmon… –, iniziammo a sentire il ridicolo delle parole d’ordine, della mascherata settimanale…

 

La performance era anche un modo per “politicizzare” la scena dell’arte?

Per me l’arte che si politicizza in realtà è l’arte che approfondisce la coscienza e la conoscenza del mondo, che scopre il destino formato da caratteri interiori e personali, persino fisici, e da elementi esterni ed eterogenei, estranei. La guerra ad esempio, non è un incidente, ma una percentuale non indifferente che il destino occupa nella vita degli individui, e in cui la politica ha un peso straripante.

 

In che rapporto ti ponevi rispetto alla tradizione del teatro politico, a Brecht per esempio? Ti interessavano le sue idee sul teatro epico, didattico?

Sì, ma non ero d’accordo sull’epicità…

 

Sullo “straniamento”?

Nemmeno. Quella era una tecnica, ma, come dire, ce ne potevano essere molte altre… In Che cosa è il fascismo ho preso persone vive, poste entro un sistema rigido, d’epoca, anche malgrado loro, quindi le ho animate come statue di cera, ognuno secondo la sua natura. Non c’era straniamento, anzi l’opposto, l’assunzione di una natura in un luogo, in un costume, databile.

 

E il teatro di Tadeusz Cantor ti interessava?

Mi appassionava, era molto vicino alla mia idea di performance teatrale.

 

 

E in cosa consisteva la tua idea?

La performance era una manifestazione della sovranità totale dell’io d’artista, della sua libertà, priva di ogni regola di genere, teatrale in questo caso. Il personaggio e il suo contenuto erano soprattutto sfacciatamente autoreferenziali, quasi autistici. Il mio lavoro lo chiamai performance complessa. Dicevano “ Tu dovresti esserci vestito da fascista” ma io non c’ero … No, io faccio una cosa situata tra il teatro e la performance, rimango dietro le cose, mi basta pilotarle fino al più piccolo dettaglio. È una forma chiusa, quasi privata. Espongo ciò che il mio Io sa. Il mio è un lavoro complesso. È teatro e performance. Ho tolto e aggiunto qualcosa a entrambi.

 

Anche le performance, quelle di Vito Acconci ad esempio, prevedono uno svolgimento predeterminato…

Sì. Ad esempio la performance con Vito nella bara che si masturba ogni tre quarti d’ora è una forma chiusa, la catarsi è stabilita, come a teatro. Ma non è una parabola, come il teatro, né una contestazione tra punti di vista diversi. La performance si distingue anche dall’happening dove non si possono formalizzare i particolari, ma solo stabilire le condizioni di partenza. L’happening ha la forma di un contenitore; la performance sa solo di sé, è una messa.

 

Per tornare all’aspetto storico, come consideri la scelta di Pasolini con Salò…, e cioè mettere in scena il testo di Sade in un contesto fascista? È un’operazione che somiglia alla tua da questo punto di vista?

Me lo sono chiesto più volte. Alcuni mi hanno detto che ho suggerito a molti molte cose, avendole fatte una volta sola. Può darsi. Ma di sicuro non ho mai pensato di sommare Sade e Salò. Il fascismo è concettualmente orribile, per me, senza l’aggiunta di orrori. Rappresenta una retorica ideologica che conduce alla morte.

 

Nell’ agitata atmosfera politica seguita al Sessantotto qual era la tua posizione?

Io non facevo della politica, ma della coscienza; è una cosa identica e insieme profondamente diversa. Credo sia identica alla fine, per me almeno è così.

 

Insomma rispetto all’impegno” tipico di quegli anni il tuo atteggiamento era diverso…

Sentivo che la volontà di “fare politica” poteva diventare una presunzione quasi mondana. Molte volte sono stato invitato a “far parte” di gruppi, ma ho sempre detto di no: io non faccio arte politica, dicevo, non sono militante di un partito, non mi calo in una postazione, o se lo faccio, lo faccio già attraverso la moralità dell’arte. L’arte che faccio è frutto di elaborazioni di coscienza, sono operazioni pubbliche ma fortemente individuali, quasi private. Diventano politiche nella lunga durata.

 

La “coscienza” di cui parli ha insomma ha che fare con un principio etico più che con una visione politica.

È un senso di coscienza storica e politica del bene e del male, del sociale e dell’individuale. E parlando di coscienza, fornisco evidentemente delle indicazioni sul mio concetto di arte e di artista. Cos’è l’arte? Sono sempre ossessionato dal capire la mia idea dell’arte, cioè cosa faccio. È molto vicina a una mia idea di vita, o è la stessa cosa. Ho fatto un’arte come rapporto di giudizio tra me e il mondo. Ho scelto il mondo come interlocutore per capire dov’ero, e ho avuto un rapporto conflittuale ma dialettico con l’esistenza. Questo procedere a occhi sbarrati in una sorta di luce anziché di buio è il mio personale Not Afraid of the Dark. Niente ancora mi immobilizza, sono stato sempre a disposizione dell’ultimo esperimento. Ora, l’ultimo mio esperimento è la vecchiaia, che arriva per conto suo ed è di un’altra epoca, è curioso… Somiglia nella sua novità a qualcosa che ho già vissuto in un’età disadatta.

 

Aver lavorato sul fascismo, sul nazismo, sul negativo della storia europea, risponde alla ricerca di una spiegazione delle ragioni del male?

Sì, l’ho già detto, le mie sono tematiche dell’esperienza; molte volte, dopo aver visto Che cosa è il fascismo, qualcuno mi chiede “Tutto bene, lei ha sperimentato questo e quest’altro, è vero, ma perché non fa l’analogo col comunismo?”. Una domanda severa, politica. Perché ne sono incapace, rispondo. Forse è un handicap, un tabù, ma quella realtà non l’ho conosciuta frontalmente. Forse sono stato, e sono, un marxista “colto”: da bambino invece di Pinocchio mio padre mi leggeva Marx, mi spiegava il Capitale. Lo teneva sulla scrivania come una Bibbia, sebbene fosse un categorico liberale. Ci congratulavamo con Marx o lo disapprovavamo. Sono marxista come un altro sarebbe crociano..

 

E in seguito sei stato comunista?

Mai, no.

 

Si potrebbe dire dunque che il totalitarismo sia stato in un certo senso il tuo oggetto, la tua “materia” privilegiata?

Ho visto il terrore dell’ideologia, come l’ideologia possa dare un’idea di un mondo interamente falso e mascherare le potenzialità distruttive, perché l’ideologia, ahimè, è un modo in cui l’uomo pone attorno a sé una serie di campi minati, per interdire l’accesso al resto del mondo. L’ideologia totalitaria pensa il mondo per te, obbligatoriamente. L’uomo apprende tutto per cartolina, cambia il suo vestito con la divisa, prende il moschetto invece che l’ombrello. L’ideologia gli insegna come dare la mano, come salutare. Io mi sono messo a pensare cos’era l’ideologia e in che cosa l’ideologia tendeva a fare a meno o a diversificarsi dall’esperienza, proprio sul versante della critica della coscienza: la “coscienza critica” per me è il salvacondotto di ogni attività, anche artistica.

 

Il pensiero ideologico è davvero finito, siamo alla fine entrati in quella che è stata definita la “post-storia”?

Per me tutta la storia è “post storia”, e non ha fondamento come idea moderna. Il modo di pensare ideologico non è finito: è ineliminabile. Dopo la caduta del Muro di Berlino tutti hanno pensato che l’ideologia fosse morta. Io non l’ho pensato neppure per un secondo. Anzi. La storia contemporanea è scomparsa per due istanti, ed è riemersa subito, ideologica. La maggioranza degli uomini cerca l’ideologia. In un certo senso è un sottoprodotto del pensiero. Per non essere un pensiero aperto, deve fare un’operazione interna di chiusura critica. L’ideologia assembla l’uomo a un’identità centrale, non individuale. È una tautologia critica. Sopprime con atteggiamento fermo e feroce ogni idea contraria.

 

Quindi da un certo punto di vista toglie l’ansia, cura.

Può togliere l’ansia, ma non cura, perché ritorna più grave nei fatti.

 

Ma la religione, tutte le religioni, direbbe un illuminista, non hanno proprio questo carattere?

Anche la religione può diventare ideologica. Cristo condanna i farisei, il loro modo formale di considerarsi religiosi. Li chiama “vipere”. La religione è un tragitto verso Dio, complesso e oggettivo come l’Essere, su cui nessuno discute, o pochi. Non è un botteghino in cui compri il biglietto una volta per tutte, né un conforto generico. È una passione su ciò che credi, che è Dio, e una discussione con lui.

 

Sei o sei stato credente?

Sono stato molto religioso, di una religiosità che mi ha condotto prima in cliniche dove cercavano di “guarire” le mie ossessioni, e poi dopo, per sette anni, a occuparmi, in un paese vicino a Civitavecchia, dei ragazzi che la guerra aveva lasciato soli.

 

Quanti anni avevi?

Dai sedici ai venticinque. Quindi ne uscii, sentivo che dovevo reincontrare di nuovo la vita comune.

 

Cosa ti è rimasto di quell’esperienza?

La fede. Io ormai so che Dio c’è.

 

Questa parte della tua vita l’hai mai dimenticata o voluta dimenticare?

No, l’ho avuta sempre in mente.

 

Il punto focale della tua vita successiva, della tua attività artistica, non è stato però il bene ma il male della storia. In modo cosciente?

Consapevolmente, certo.

 

E la tua esperienza religiosa si è intrecciata a quella artistica? Hai intitolato una tua conferenza-performance Dio e la scena

Mi sono molto chiesto se a Dio piaceva l’arte moderna e se per caso gli era piaciuto qualcosa che faccio io.

 

Hai trovato una risposta?

La risposta, col tempo, è che a Dio piaceva Picasso. Certe cose che ho fatto forse gli sono piaciute …Ma posso ingannarmi, certo...

 

Per tornare al tuo percorso artistico, c’è una tua opera in particolare, Intellettuale, affronta direttamente la questione del rapporto tra l’opera e il suo autore; avevi chiesto a Pier Paolo Pasolini di fare da “schermo” di proiezione per un suo film…

Il Vangelo secondo Matteo

 

 

Sì, e c’è una fotografia famosa di Pasolini in camicia bianca mentre l’immagine scorre sul suo petto. Sappiamo che stava ascoltando la colonna sonora a volume intenzionalmente alto… si potrebbe dire che tu stessi visualizzando l’estraneità dell’autore al suo stesso lavoro, il suo essere accecato e assordato rispetto al semplice spettatore. È una lettura corretta?

Ho scritto sul senso della proiezione. È un esperimento di fisica. Noi siamo un condensato di memoria, proiettiamo continuamente una memoria, per riconoscere il mondo; nell’artista la memoria si scontra, ma si consolida sull’oggetto mondo. Pasolini credeva di contenere il Vangelo che aveva decifrato, ma non capiva più a che punto era, nella performance. Come se perdesse lo sguardo sulla propria interiorità, era sgomento. Io non sapevo bene cosa volevo ottenere, ma era qualcosa che riguardava una sorta di scambio di coscienza. Lo sottoponevo a una prova, forse. O sottoponevo me alla stessa prova. Volevo ritrovare la mappa della nostra amicizia, intensa sui temi generali, compreso Dio. Quando si andava a cena con Pasolini, sembrava di cenare con Cristo. Pasolini, la sua arte cinematografica, non era sempre un testamento ideologico, ma una mimesis profonda. Niente della sua arte gli era estraneo, né Dio, né il sesso, né se stesso. Pier Paolo somigliava a Michaux che diceva: “Non sono mai stato tanto religioso come quando ho peccato”. È discutibile, ma ne ho esperienza, può essere così.

 

La proiezione dà quindi significato?

Certo, il significato è una “proiezione” della mente. Quindi è simile alla proiezione di un film. Per questo proietto film d’autore, cioè di chi ha un’esperienza, interpreta un fatto, matura un giudizio.

 

Usare il corpo come “schermo” potrebbe alludere al fatto che le immagini non appaiono mai semplicemente su una tela o su un muro, ma finiscono sempre per essere assorbite, digerite, modificando chi le osserva...

Certo. Ma proiettare un’immagine su un corpo, o anche su cinquanta litri di latte o su un’altra materia modifica la proiezione, cioè produce un significato inedito. È una palese dimostrazione della nascita del significato. Nasce da tutto ciò che noi conteniamo nella memoria, e dall’immobilità apparente della realtà. Nell’incontro la somma crea un ibrido. Sembra meccanico, ma non è che il nuovo significato.

 

Il tuo lavoro più recente continua a interrogare il totalitarismo? O la dimensione politica è diventata altro?

Il totalitarismo per me è stato giudicato. In realtà il mio interlocutore è oggi la vita in generale, non più solo la storia o la politica italiana. Anche se l’esperienza del male da cui parto, ad esempio nel lavoro di Milano, è ancora quella di cui so la storia e l’incidenza: Hitler è un simbolo intatto, è un nitido segno di male. Ed è la storia d’Europa. Non ho strumenti sufficienti per spiegarmi l’America. C’è una piccola citazione, una battuta in Casablanca, due che parlano e uno dice a un ufficiale tedesco “Ogni volta che Lei nomina il Terzo Reich, sembra che ne stia aspettando un Quarto”. L’ho estrapolata, come un avviso. La natura della storia è quella del mondo. Dall’ovvio al profondo, dal bene al male, dal pacifico al sanguinario. L’uomo non è un incidente. È una coscienza protagonista. Anche se non ne è più il centro, resta un epicentro dell’universo, almeno visto dalla Terra.

 

Il quarto Reich è quello che deve ancora venire, che ci minaccia sempre.

Certo… Mi sto approssimando con questa mostra a un’impressione forte. Quando avrò centrato la cosa, forse sarà sgradevole, e formalmente giusta. Vorrei comunicare il senso di smarrimento che provo. Individuare lo smarrimento è già una difesa, tu devi capire cosa ti travolge, ma smarrirsi vuol dire essere attenti e anche ammonire a stare attenti. La vecchiaia è scoprire finalmente cosa è l’esistenza, e non azzardarsi a sapere senz’altro cosa sia. Una contraddizione piena di chiarezza. Non so chi voglio commuovere. Cerco di disilludere. Questo caos non è un caso. Come quando componevo Che cosa è il fascismo. Sembrava di camminare sul vuoto. Sono curioso di vedere che c’è sotto.

 

L’arte dal tuo punto di vista è come cercare un passaggio, o una via d’uscita, tra disillusione e smarrimento?

In arte per raggiungere chiarezza si possono fare solo esempi sproporzionati. Se qualcuno avesse chiesto a Giorgione cosa intendeva fare mentre dipingeva La Tempesta, avrebbe potuto rispondere: “Un nudo di donna in primo piano, con accanto, un arabo, no, un sacerdote… no, un mago”… In realtà Giorgione dipingeva una sola cosa, l’infinito, come hanno scritto molti critici. Il totale di un’opera d’arte, fuori da un’estetica concreta o pragmatica, è un’invisibilità che si stabilizza tra le cose, come un oggetto. Non bisogna descrivere un gesto artistico in modo troppo semplificato pur di farsi capire. Anche per l’arte, come dice Einstein per la relatività, la spiegazione è semplice ma non troppo semplice.

 


 

Ha inaugurato ieri a Milano la mostraThe End, dedicata a Fabio Mauri.

La retrospettiva, curata da Francesca Alfano Miglietti e ospitata nelle sale del Palazzo Reale fino al 23 settembre 2012, raccoglie alcune tra le opere più importanti dell’artista: installazioni, oggetti, performance, emozioni e visioni. Catalogo a cura di Francesca Alfano Miglietti, Skira editore.
 

In libreria:
Fabio Mauri,
Ideologia e memoria, Bollati Boringhieri.  A cura dello Studio Fabio Mauri,  con prefazione di Umberto Eco.

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