Paradigmi della creatività / Far paura, ai limiti del visibile

20 Gennaio 2020

A cercare in rete qualche informazione sulle più recenti tassonomie delle paure dei bambini si scopre – prevedibilmente – che queste si possono dividere in paure spontanee e paure culturali. Queste ultime sarebbero le paure generate e alimentate dal contesto familiare, sociale e culturale in cui il bambino è immerso dalla nascita e per tutta la sua formazione alla vita e ai sentimenti. Sono le paure legate ad esperienze oggettive (traumi passati) o potenziali (l’abbandono del genitore, il dolore fisico), ma anche quelle originate dalla fantasia (i mostri, i ladri) nutrita di storie, figure e colori che popolano l’immaginario quotidiano di ognuno, grande o piccolo. Al contrario, le paure spontanee sarebbero quelle che prescindono da qualsiasi costruzione culturale, le paure presenti fin dalla nascita e che sono generalmente motivate dall’irruzione di qualcosa di inatteso, si tratti di una trasformazione fisiologica improvvisa (un rumore, un lampo) o dall’ingresso di un elemento inconsueto nel paesaggio abituale e confortevole del bambino (la paura dell’estraneo).

Proprio al confine tra queste due categorie dell’orrore quotidiano si colloca quella che per certi versi potrebbe essere considerata una paura costante della condizione umana, originaria e al tempo stesso nutrita di miti, leggende ed esperienze sociali: la paura dell’ignoto e di quella che potrebbe essere considerata la sua più classica manifestazione fisica, il buio.

 

Ha scritto Michel Pastoreau in Nero. Storia di un colore (2008): «L’essere umano ha sempre avuto paura del buio. Non è un animale notturno, non lo è mai stato, e anche se nel corso dei secoli ha più o meno addomesticato la notte e l’oscurità è restato un essere diurno». Una considerazione come questa consente di comprendere il senso di un’espressione – Far paura: ai limiti del visibile – che dà il titolo a un bel volume collettaneo, da poco edito da Silvana editoriale, che raccoglie gli esiti di un progetto di ricerca internazionale (Paradigmi della creatività), condotto tra le Università di Bergamo e della Sorbona, sotto la cura scientifica dei professori Franca Franchi e Pierre Glaudes. Al centro di contributi dalle impostazioni metodologiche e dalle afferenze disciplinari più diverse – dalla musicologia (Philippe Cathé) alla storia del teatro (Anna Maria Testaverde, Elena Mazzoleni), dalla letteratura (Marco Belpoliti, Michel Delon, Jacques Dürrenmatt, Pierre Glaudes, Francesca Pagani, Nunzia Palmieri) alle arti visive (Alberto Castoldi, Elio Grazioli, Arnaud Maillet, Giovani C.F. Villa, Andrea Zucchinali), dalla storia (Riccardo Rao) alla cultura visuale (Franca Franchi) – campeggia costante il tentativo di definire i modi in cui nell’arte, come nella cultura popolare, la paura ha acquisito intensità e forza dal suo radicarsi in qualcosa che è rimosso dalla vista, invisibile (fantasmi, spiriti), ma anche letteralmente inguardabile (il terrifico, il macabro, il disumano). 

 

In un romanzo che assegna agli spiriti dei defunti il ruolo di protettori dell’identità e di garanti della continuità di una famiglia, come La casa degli spiriti (1982) di Isabel Allende, una delle protagoniste, la piccola Alba, viene addestrata dallo zio Nicolás a vincere il dolore e altre debolezze: «Il suo metodo consisteva nell’identificare le cose che infondevano paura. La bambina, che aveva una certa inclinazione per il macabro, si concentrava secondo le istruzioni dello zio e riusciva a visualizzare, come se la stesse vivendo, la morte di sua madre. Vedeva la processione di amici che entravano in silenzio, lasciavano il loro biglietto da visita e uscivano a testa bassa. Sentiva l’odore dei fiori, il nitrito dei cavalli impennacchiati della carrozza funebre. Immaginava la sua solitudine, il suo abbandono, l’essere orfana». L’immaginazione si attiva, genera mostri, amplifica rumori e presenze possibili, ma comincia a definire i contorni di qualcosa che potrà essere visualizzato, affrontato, nominato. E così la paura originaria diventa meno spaventosa.

È per questo motivo, per la creatività che la paura stimola e con la quale la paura può essere esorcizzata che le arti appaiono come gli strumenti privilegiati per indagare la nascita e le trasformazioni di quella che secondo gli psicologi è «la più primitiva delle emozioni umane» (Belpoliti). L’arte riesce a intercettare e rappresentare gli archetipi che abitano l’inconscio collettivo, come dimostra il bellissimo saggio del compianto Professor Alberto Castoldi (scomparso lo scorso aprile): una rapsodia storica attraverso le figure della paura e del terrore nell’arte pittorica, dagli inattuali supplizi del Massacro ordinato dai triumviri (1566) di Antoine Caron, in cui la gratuità delle torture sollecita una fascinazione irrefrenabile, fino alle perfide creature che animano le scene oniriche di Alfred Kubin e la regressione darwiniana che subordina la nascita dei mostruosi protagonisti delle opere di Odilon Redon, passando per la caravaggesca Medusa, per gli incubi di Füssli e ancora per Ernst, Magritte e Picasso. Opere molto diverse tra loro, ma accomunate da una medesima, e criptata, dimensione autoritrattistica: i quadri, come macchine narrative, azionano un immaginario onirico, in cui erotismo e terrore dialogano, e in cui l’autore si specchia, invitando lo spettatore a riconoscersi a sua volta. 

 

 

È evidente, qui come in molti dei saggi del volume, che la paura ha uno stretto legame con l’inconscio individuale e assume spesso, quindi, forme di quello che Freud aveva definito unheimlich, il perturbante, ciò che al tempo stesso appare familiare ed estraneo. Una situazione rappresentata esemplarmente dalla bambola, oggetto statutariamente ambiguo e ambivalente, nato per sembrare qualcos’altro – un umano – e per dissimulare la propria vera natura, di simulacro. È proprio Freud a spiegare questa nozione a partire dal Mago sabbiolino (Der Sandmann) di E.T.A. Hoffmann, «in cui la bambola-automa Olimpia, oggetto di disputa tra i suoi due creatori che se ne contendono il possesso, è distrutta davanti agli occhi di Nathanaël che, innamorato di lei, la credeva una donna vivente». Franca Franchi nel suo contributo tratteggia un vero e proprio immaginario della bambola, che dalla metà del XIX secolo acquista una posizione centrale nella cultura occidentale, catalizzatore 

di un «erotismo spettrale», come nel caso dei primi manichini di cera utilizzati nelle vetrine dei negozi parigini, assurti al rango di feticci per i surrealisti (ma si potrebbe parlare anche delle più recenti love doll). Nella bambola la paura viene concretamente raffigurata, ma perde di definitezza a causa di un’altra carenza sensoriale, quella uditiva: «ciò che consente di identificarsi e di perdersi, di proiettare in essa ogni sentimento e comportamento umano al fine di renderla la compagna ideale, fedele e complice, è la scoperta del suo spaventoso e incommensurabile silenzio».

 

La paura prospera sempre laddove la pienezza sensoriale dell’individuo è impedita da qualche ostacolo. Talora a esser limitata è la vista, come nel caso della porta inaccessibile che nasconde i segreti del castello di Barbablù, la cui fiaba, musicata da Paul Dukas in Ariane et Barbe-Bleue (1907) su libretto di Maurice Maeterlinck, viene analizzata da Philippe Cathé; o come nel caso delle segrete dei castelli che popolano l’immaginario del romanzo gotico, studiato da Michel Delon. In entrambi i casi «le cause delle angosce sono uditive»: da un lato è la modulazione dei temi musicali a definire la trama della paura, sottolineando l’assenza inquietante di Barbablù e invece illuminando la presenza di Ariane, unica donna che potrà svelare il mistero; dall’altro lato, invece, l’eco che restituisce i passi e i respiri delle protagoniste non fa che amplificare le loro inquietudini.

E di segrete del castello si parla anche in un racconto di Italo Calvino, uno dei più raramente citati e anch’esso destinato a esser musicato (da Luciano Berio), ovvero Un re in ascolto (1982). Contenuto in Sotto il sole giaguaro e pensato all’interno di un progetto di indagine narrativa dei cinque sensi, Un re in ascolto è un lungo monologo che, come ricorda Nunzia Palmieri, «consente di dar forma ai segni sonori che giungono fino al trono e di mettere in scena allo stesso tempo il processo di decifrazione che li ricompone in una logica superiore». La perfetta meccanica di ascolto e decifrazione, che permette al re di esorcizzare «la vertigine dell’innumerevole, dell’inclassificabile, del continuo», viene rotta nel momento in cui nel consueto paesaggio sonoro intervengono due varianti inattese – ancora –: l’assenza di rumori, che prelude a un agguato del nemico, il pretendente al trono, e una voce femminile, che al contrario restituisce speranza al re. Sono il terrore e il desiderio che intervengono a turbare la quiete in cui il sovrano si era trincerato, a esporlo ai rischi del “continuo”, dell’ignoto.

 

La paura diventa il sentimento che mette a rischio la dimensione coatta della vita che il re si era ritagliato su misura. Altrove però Calvino ha ragionato ancora sulla paura e sulla sua funzione di collante identitario profondo: nella fiaba di Giovannin senza paura, raccolta e riscritta per le Fiabe italiane (1956), si delinea il profilo di un personaggio apparentemente incapace di provare paura, tanto che riesce a superare una prova che aveva invece visto perire tanti prima di lui. Non teme di trascorrere la notte da solo in un palazzo abbandonato, non si spaventa di fronte alla visione di un uomo fatto a pezzi che lo invita a seguirlo. Giovannino supera tutte le prove, tranne quella più infida, la prova inattesa della propria ombra: «un giorno gli successe che, voltandosi, vide la sua ombra e se ne spaventò tanto che morì». Come spiega Marco Belpoliti nel saggio d’apertura, Giovannin non ha paura della paura (soprattutto di quella esplicitata dai timori altrui) – e per questo Calvino lo apprezzava –, ma ha paura della parte nera del proprio sé; ha paura di un timore che fa parte della sua personalità, una passione forte e inaggirabile che definisce la sua stessa identità. 

 

«La paura è la prima e ultima passione della sua e della nostra vita. Che è poi anche la paura di morire» (Belpoliti). Ogni rappresentazione artistica cerca in fondo di esorcizzare questa paura, ma nessuna rappresentazione, nessuna visualizzazione riesce effettivamente a esorcizzarla. La piccola Alba della Casa degli spiriti, diventata grande e imprigionata dai militari golpisti che vogliono da lei una delazione, cercherà di mettere in atto le strategie di visualizzazione della paura insegnatale da suo zio Nicolás, ma le troverà inefficaci. Il supplizio delle umiliazioni, i dolori della tortura rendono impossibile qualsiasi immaginazione e obbligano la ragazza ad abbandonarsi senza speranza e senza visione al proprio destino. Sembra dunque esserci un limite oltre il quale il visibile – anche quello immaginario – non può spingersi; una soglia oltre la quale la sensibilità si anestetizza e si entra in una dimensione di paura pura, senza attributi. Qualcosa di simile alla sensazione provata dai pochi, selezionati spettatori della performance Blind date di John Duncan, realizzata a Los Angeles nell’estate del 1980. Il pubblico venne invitato a entrare in un piccolo magazzino – una porta, nessuna finestra, nessuna sedia all’interno: al buio Duncan spiegò di aver comprato il cadavere di una donna a Tijuana, di averci fatto sesso, versando in lei l’ultimo seme attivo prima di sottoporsi a una vasectomia; spiegò perché aveva deciso di rendere pubblica la propria azione e diffuse la registrazione della seduta con il cadavere. Una performance che mette gli spettatori di fronte all’illegittimo, all’illegale, all’immorale, che produce in loro reazioni di sdegno, di orrore, di totale rifiuto. E lo fa al buio. In questa performance, come spiega Elio Grazioli, forma e contenuto coincidono perfettamente: il buio è infatti la stanza della performance, ma è anche «il simbolo dell’oscurità stessa dell’operazione, è il suo contenuto e la sua forma, il suo medium». Ma soprattutto il buio, questa non-sostanza, questa pura assenza, espone l’individuo alla paura senza offrirgli alcun contesto entro cui leggerla e interpretarla: «l’oscurità mette di fronte a se stessi e la paura diventa quella di entrare all’interno, di andare a fondo, nel profondo di sé». 

Quel luogo che nessuno conosce e di cui tutti, in fondo, abbiamo paura.

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