Il Čechov di Morganti / Festino in tempo di peste

21 Maggio 2021

“Tutto era musica, il modo di alzare e posare i piedi, certi movimenti, il modo di correre e di star fermi, di aggrupparsi, le loro combinazioni di danza quando, per esempio, uno posava le zampe anteriori sulla schiena dell'altro e poi si allineavano (…) o quando strisciando col ventre quasi per terra formavano figure intrecciate e non sbagliavano mai.” Così scriveva Franz Kafka in uno dei suoi ultimi racconti, Indagini di un cane, nato dall'impressione che gli aveva suscitato il grande e povero teatro della compagnia yiddish guidata da Jinizchak Löwy. Tutto è musica, quasi nello stesso modo – cani a parte – in Le nozze di Čechov che Claudio Morganti ha portato in scena al Fabbricone di Prato con gli attori del Gruppo di Lavoro Artistico del Met; e lo è fin dal primo momento, quando, facendo scricchiolare il silenzio come la giuntura di un vecchio armadio, Roberto Abbiati si presenta sul proscenio, gli occhi sgranati, il volto lunare da clown esposto al pubblico, e ingaggia con un malandato contrabbasso a cui è rimasta solo una corda uno dei suoi dialoghi borbottati alla Mac Ronay. Poi sale sul podio sistemato sulla destra della scena, rassegnato one man band chiamato a interpretare una didascalia che prevede un'intera orchestra (e con strumenti che hanno tutta l'aria di non funzionare), e dà il via a una delle più sgangherate feste di matrimonio che si siano mai viste, una sorta di unico piano sequenza concretizzato dal lungo tavolo rettangolare che va da un capo all'altro della scena, dividendo lo spazio drasticamente in due. Quella tavola frontale ed evangelica, così compatta da sembrare inamovibile, in realtà è quello che Morganti nelle sue frugali note di regia definisce un ibrido, un mostro a dieci teste (di dieci attori), dove ogni testa parla, e spesso in una lingua tutta sua, si agita, ruggisce, si scompone in una risata cubista, alimentando una dissonanza che non si sa come risulta perfettamente concertata da un orologio che oscilla tra estrema libertà e assoluto rigore, tra fedeltà al testo e improvvisazione. 

 

 

C'è della follia in questo metodo dove ogni fuga in avanti, rientrando in sé, lascia nell'aria un ritratto pulviscolare, inafferrabile proprio come un motivo (e ognuno ha il suo, come voleva il Mejerchol'd čechoviano dei 33 svenimenti, al quale il realismo sovietico non perdonò la musica): Luca Zacchini che interpreta Dymba, il pasticcere greco, sfodera quella parlata larga e lessicalmente vaga che hanno i greci quando parlano in italiano (una faccia, una razza) ma salendo una scala dove lo spettatore sente risuonare di tutto, gli accenti dell'attore indiano di Peter Sellers in Hollywood Party o le classiche nenie dell'immigrato romeno o albanese, un pastiche di sonorità che solleva ad altezze ancora più surreali le risposte alle incalzanti domande con cui Zygalov, il padre della sposa, a cui Savino Paparella dà tutta la forza e la stazza del self made man ottuso e fiero della propria ignoranza, cerca di metterlo alle strette, in un esilarante dialogo che rivela la natura fantastica di ogni sciovinismo: “E da voi in Grecia, ci sono le tigri?” “Ci sono”. “E i leoni?” “Anche leoni. In Grecia c'è tutto.

 

È in Russia che non c'è niente, in Grecia c'è tutto”. Monica Demuru è una padrona di casa provinciale splendidamente querula ma pronta a scattare come una belva ogni qual volta si tratta di difendere il piccolo ordine patriarcale di cui è la garante – e l'intrigante amministratrice –, Paola Tintinelli, infilata (come da didascalia) nel vestito rosso vivo della Zmejukina, ricorda un po’ Josephine, la cantante di Kafka, nel senso che non sa cantare, ma tutti la incensano per una voce greve e stonata, marchio di volgarità di un personaggio che non esita a scaricare sugli altri la stessa accusa (“Come siete volgari!”); non troppo diversamente, del resto, da come lo sposo in cui si è trasfigurato Oscar De Summa pretende “nobiltà d'animo” mentre sta esigendo da maman i soldi della dote o il telegrafista Jat, di gran lunga il più lucido dei commensali – un Francesco Rotelli in sedia a rotelle (sic!) – lancia perfide insinuazioni su un'unione di interesse spacciata per matrimonio d'amore. Arianna Pozzoli sembra quasi soffocare nel suo abito da sposa, vittima afasica e designata di una cerimonia che, invece di celebrarla, la immola. Njunin, il faccendiere, il trickster maldestro, appare e scompare con la sagoma di un Gianluca Stetur più che mai mercuriale. Ilaria Marchianò, nei panni di una cameriera stracca, incurvata dalla gravidanza, passa ciclicamente alle spalle dei commensali lanciando sgraziatamente nei loro piatti tocchi di cibo che non fanno anch'essi nulla per nascondere la loro sguaiata natura di manufatti di plastica. 

 

 

Si attende un prestigioso personaggio (nelle grandi tavolate teatrali si sta sempre attendendo qualcuno), destinato a risollevare le sorti del consesso. E quando quest'ultimo appare, incarnato da Francesco Pennacchia, il pubblico assiste a una vera epifania, un po' perché l'attore pugliese è tra i pochi che anche nella deformazione del comico mantengano intatta la dignità dei tratti, un po' perché le luci di Fausto Bonvini – che già dette un'ottima prova di sé nel Caso W di Rita Frongia – gli disegnano sul cranio nudo opportunamente cosparso di olio una specie di aureola, e così se per un secondo si crede di vedere un vero junker à la Erich Von Stroheim, l'istante dopo si capisce che si tratta di un altro mistificatore: canuto e duro d'orecchi, Fëdor Jakovlevič Revunov-Karaulov non è il generale millantato da Junin e messianicamente atteso dalla padrona di casa, è solo un comandante in seconda di marina che quando gli si rivolge la parola non capisce da che punto dello spazio arrivino le voci... Ma la musica, quella, non si interrompe mai: il ritmo che sposa la diavoleide russa allo sberleffo della commedia dell'arte non si placa fino alla fine, la regia di Morganti lo ha solo reso più interiore, meno enfatico, paradossalmente più armonico, senza togliergli un grammo della sua crudele vitalità, temperandola in una polifonia dove nessuna voce si sovrappone mai alle altre. 

 

 

Nella controluce di un farsesco “quadro della vita di provincia russa”, si fa avanti l'ombra di una piccola borghesia ormai universale, terrorizzata dalla globalizzazione come il suo modello russo lo è dall'elettricità e altre “diavolerie” inventate “per ingannare il popolo”, fiera di un'identità che non riesce neanche a spiegare a sé stessa. Ma è un'ombra discreta, priva di pesantezza ideologica, che si disfa con l'entropia del gioco teatrale. Coadiuvato dall'inseparabile Rita Frongia, co-regista e adattatrice, Morganti non ha attualizzato l'acerbo vaudeville di Čechov, ha per così dire attualizzato gli attori che, a uno a uno e mai uno senza l'altro, divorano il testo in un fiero pasto sfruttando il vero equivoco che attraversa questa breve pièce quasi priva di trama: la sostanziale incomunicabilità tra personaggi rinchiusi nelle proprie idiosincrasie ai quali non resta altro che l'iperbole del gesto e del comportamento. Esemplare, e irresistibile, il battibecco tra il “generale” Revunov e il telegrafista Jat' in cui il primo si esprime a colpi di “gabbieri alle sartie di trinchetto e di maestra” e l'altro gli risponde picchiettando forsennatamente la forchetta sul tavolo un messaggio in morse (“Più forte, non sento”. “Significa: madame come sono felice di stringerla tra le mie braccia”). Niente di più profondo della leggerezza con cui passa questo “festino in tempo di peste”, inframezzato dalle risate e salutato dagli applausi, in cui Morganti e i suoi attori mostrano, senza alcuna intenzione di dimostrarlo, che il teatro è fatto per i mortali e da loro, e non per quella immortalità di sostituzione in cui si cerca (inutilmente) di ingabbiare la sua irredimibile animosità.

 

Debbo la citazione kafkiana da cui parte il testo a un'annotazione di Antonio Attisani nella sua conversazione con Carlo Sini pubblicata da Jaca Book con il titolo La tenda. Teatro e conoscenza.

 

Le foto contenute in questo articolo sono di Ilaria Costanzo

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