Avellino / Paesi e città

7 Aprile 2011

Dire Avellino non è dire il nome di una città, ma quello di un posto, di una variante di luogo. Il nome Avellino non evoca nessun mondo, nessuna dimensione psichica, come accade per le vere città che hanno delle vere caratteristiche. Proprio questo però è il suo aspetto interessante, essere una città neutra, una città incolore e trasparente.

Ad Avellino individuo almeno tre caratteri mediocri, che però lo sono a un tal grado da divenire sublimi e metafisici, da farne un paradigma dell’ordinarietà: il grigiore, gli slarghi e i politici. Ha poi un aspetto che costituisce in qualche modo un varco, uno sfiatatoio visivo e spirituale: le montagne in fondo alle strade. Il grigiore è dovuto non tanto all’uso di una particolare pietra – ché questa una volta era il tufo e ora, naturalmente, il laterizio forato – ma al fatto che gli intonaci non si rinnovano, e diventano tutti del tipico colore civico sbaffato e sbavato dallo scolo dell’acqua piovana, qui abbondantissima. Ne risulta il tipico effetto per cui il celestino, il rosaceo o il giallastro si risolvono tutti nel grigio. La vibrazione cromatico-ondulatoria avellinese, arrivata nel cervello smotta inesorabilmente nei recettori del grigio.

Gli slarghi hanno una funzione molto importante nelle città, perché solo dagli orli degli slarghi è possibile osservarle. Quanto più sono slargate tanto più le città esistono nello spazio mentale, e dunque tanto più sono una città. Gli slarghi decongestionano la materia della città, la rendono espansa e astratta. A Avellino ce ne sono vari, e uno in particolare molto ampio, ma essi hanno la caratteristica di essere slarghi puri, perché la città che si dovrebbe vedere dal loro orlo in qualche modo non c’è, o comunque è molto evanescente e smorzata. Ciò in un certo senso accresce il loro fascino. Dalla piazza dei pullman, o piazza macello – vero macello urbanistico – amplissima, desolata e luminosa, che si estende quasi a perdita d’occhio, l’occhio appunto si perde. C’è la corona dei palazzi stile boom edilizio di Via del Balzo, poi in fondo, verso est, oltre certe foreste di abeti e pini secondari, l’incongrua collinetta tirolese di parco Abate. Ruotando ancora lo sguardo, un’ineffabile costruzione isolata dove prima c’era un negozio mille lire e ora un negozio che si chiama Sogni e follie, ma vende secchi per lavare per terra e padri pii con la barba fluorescente. Tutta l’area è dominata da un fabbricato umano imponente e tetragono, il cosiddetto “Il grattacielo”. Il grattacielo è tutto una combinazione di rettangoli il che avviene spesso nelle città, ma in questo caso con una metodicità quasi maniacale. È di un celestino pallido e slavato dall’implacabile pioggia avellinese, è cinturato di ringhiere metodiche e forato da finestre metodiche e sormontato da antenne metodiche, al centro in basso un orifizio rettangolare ha funzione di galleria, sulle cui pareti magniloquenti mosaici anni ’60 inneggiano in latino alla patria e al lavoro, che, sostengono, omnia vincit. Questa piazza che dal mio punto di vista rappresentava una peculiarità, stanno cercando naturalmente di “riqualificarla”, così come con faraoniche spese hanno “riqualificato” il centro storico, il che non saprei quanto senso ha visto che quel centro non sta in nessun centro e non ha nessuna storia, e che quella piazza magari fra 100 anni sarebbe stata ricordata come il più esemplare dei non-luoghi, o come il più tipico esempio di edilizia post-bellica. Avellino, in effetti, non ha altra caratteristica, è al 90% il risultato di quest’edificazione inconsapevolmente funzionalista o insignificante, e in particolare di una certa notte di “sacco edilizio” del 1960 in cui furono concesse 1500 licenze. D’altronde, bisogna riconoscergli il diritto di riconfigurare ogni volta il proprio disegno, periodicamente sconvolto dai numerosi demoni che l’hanno visitata, da Alarico a Totila alle bombe, fino all’ultima incursione di Richter e Mercalli nel 1980.

I politici sono un altro carattere tipico della città e della provincia, e rappresentano la sua produzione più significativa insieme all’acqua e alle noccioline. La città ha 50.000 abitanti ma ha prodotto più ministri e segretari di partito di Tokyo, tutti regolarmente democristiani quasi del tutto privi di valori cristiani. La qualità è andata a calare vertiginosamente, e si era cominciato con De Sanctis e Guido Dorso (che naturalmente non riuscì ad essere eletto) , poi con l’ancora decente Sullo. Dai soliti ’60 in poi sono proliferati i vari De Mita, Mancino, Gargani, De Vito, Bianco e Maccanico (un po’ megli) e così via. I loro attuali eredi sono Rotondi e Pionati. Anche costoro hanno realizzato il paradosso avellinese: la loro medietà di ideali era tale da portarli a perseguire un ideale sublime e impossibile, quello di cercare di far passare un cammello dalla cruna di un ago, nella fattispecie il cammello più grasso d’Italia. Il successo dei politici irpini si spiega essenzialmente con una fatale congiuntura, quella fra l’atavica vocazione locale al voto d’appartenenza e clientelare e l’evento del terremoto, che ha fatto affluire i fondi necessari a fertilizzare quel terreno congeniale. Essi intendono da sempre la politica come una tessitura di trame e uno scambio di voti, una volta vantavano il cosiddetto deprecabile carisma, ora hanno sviluppato altri sistemi di accesso al potere più mediatici e aggiornati, ma ugualmente avellinesi.

Oltre a ciò, Avellino ha però le montagne in fondo alle strade. In fondo a Via Mancini o al Corso, le direttrici visive salgono, si inverdiscono, si appuntiscono e terminano sulla cima di una vera montagna di Appennino, una montagna da cui scendono le acque che sono la vera ricchezza di Avellino, e che abbeverano mezza Napoli e quasi tutta la Puglia. Queste montagne sono i migliori palazzi della città, fatti esattamente, e sono abitati solo dagli uccelli e dai lupi.

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