Storytelling

24 Marzo 2014

Nel giugno del 2005 Steve Jobs fu invitato dall’Università di Stanford per la cerimonia di consegna dei diplomi. Guru informatico e del design, il fondatore di Apple non aveva mai ricevuto alcun diploma nel corso della sua carriera. Intrattenne gli studenti con un discorso imperniato su tre storie della sua vita. La sua performance, che si concludeva con il celebre invito, “Stay hungry, stay foolish”, era un esempio perfetto di storytelling, stile introdotto dieci anni prima nel settore management dell’industria americana.

 

Ben prima di lui un presidente americano, Ronald Reagan, aveva sperimentato con successo la medesima tecnica. Secondo James Carville e Paul Begala l’ex attore hollywoodiano è stato il più grande raccontatore della storia politica degli ultimi cinquant’anni, anche se la maggior parte delle sue storie, dicono i due autori, erano false.

 

Nel 1992 Bill Clinton era così convinto dell’importanza dello storytelling che assunse come direttore della comunicazione alla Casa Bianca David R. Gergen, che aveva avuto il medesimo posto con Reagan, repubblicano e avversario. La sua autobiografia, My Life (Knopf, 2004), pubblicata alla fine della presidenza, comincia non a caso con il ricordo dello zio Buddy, che gli ha insegnato che tutti gli uomini hanno una storia da raccontare.

 

 

All’inizio degli anni 2000 è avvenuto su scala mondiale un passaggio fondamentale con rilevanti conseguenze sulla nostra stessa vita: i responsabili delle grandi multinazionali americane hanno abbandonato la politica del brand, così ben evidenziata da Naomi Kline in No logo (Baldini & Castoldi), per passare alla costruzione narrativa delle proprie marche. Il loro credo, scrive Christian Salmon in Storytelling. La fabbrica delle storie (Fazi), era: la gente non compra prodotti, bensì le storie che questi prodotti rappresentano; così come non comprano marche, ma miti e gli archetipi che queste marche simboleggiano. Da quel momento, sia in politica sia nel marketing, la parola d’ordine è stata: ditelo con una storia. In effetti, è molto difficile smentire il potere dei racconti.

 

Cosa era accaduto? Perché proprio negli anni della fine delle Grandi Narrazioni, sancita da Lyotard in La condizione postmoderna (Feltrinelli), sono tornati di moda i racconti? Salmon lo spiega in modo efficace: il caos dei saperi frammentati proprio degli ultimi vent’anni ha favorito la “svolta narrativa” nella comunicazione politica, e poi nella stessa produzione materiale e immateriale. Siamo entrati nell’età performativa per eccellenza, dove i racconti svolgono una funzione fondamentale: dire è fare.

 

O, come ha stabilito un altro guru, “le parole sono le armi del contemporaneo”. La parola, tornata così forte sulla scena, ha quasi sbalzato l’immagine, vera regina del XX secolo. Tutto questo ha avuto il suo punto di partenza nella pubblicità televisiva, ma quando all’inizio del XXI secolo è cominciato il suo declino tra le nuove generazioni, cosa è accaduto allo storytelling? Internet, i social network, sono forse nemici della narrazione? Frank Rose, un antropologo digitale, come si autodefinisce, collaboratore di “Wired”, scrive in Immersi nelle storie (Codice Edizioni) che l’arte di narrare si è solo trasformata senza scomparire. Due sono le parole chiave di questo cambiamento: partecipazione e immersività.

 

Le narrazioni tradizionali – libri, film, programmi televisivi – sono sì avvincenti ed emozionanti, ma funzionano solo a senso unico: ci rendono spettatori. Con i videogiochi, spesso legati a film di successo, è iniziata una nuova stagione che Ross sintetizza così: combinazione dell’effetto emotivo delle storie e coinvolgimento diretto dei giochi danno vita a una esperienza immersiva. L’effetto è di sfumare il confine tra storia e gioco, tra storia e marketing, tra narratore e pubblico, tra illusione e realtà. Tutto sarebbe cominciato a suo dire da Guerre stellari di Georg Lucas nel 1977.

 

 

All’epoca a nessuno era venuto in mente che di creare un universo fantascientifico che i fan potessero esplorare in profondità. La parola fan è un’altra delle chiavi del cambiamento in corso. Non si è più ascoltatori o spettatori; il marketing culturale (tutto oggi è cultura, a partire dal corpo e dal cibo) oggi punta a trasformarci in fan di qualcosa. Di più: sono i fan stessi a trasformare in modo interattivo il paesaggio dello storytelling. Nel giugno del 2009 Betty Draper, frustrata casalinga, sposato a un pubblicitario degli anni sessanta, posta un commuovente messaggio su Twitter, che esiste da soli tre anni. Betty non è una persona reale, bensì il personaggio di una serie televisiva americana, Mad Men. A twittare è una donna, ben presto seguita da altri che s’impossessano dell’identità dei personaggi e scambiavano messaggi in 140 caratteri. Tempo due mesi e i loro hastag vengono sospesi su richiesta della produttrice della serie.

 

Un errore, dice Ross, perché ben presto le aziende capiscono che è apparso un nuovo modello: sense and respond. Il collaboratore di “Wired” fa molti esempi e pronostica un grande cambiamento in corso, per cui l’essere immersi nelle storie, e produrle, non è più solo compito degli autori o sceneggiatori, bensì del pubblico stesso, dando ragione a William Gibson, che ha scritto: “Il remix è la vera natura del digitale”. Cosa succederà nel prossimo futuro? Temiamo la finzione, conclude Ross, ma non vediamo l’ora di immergerci. Lo storytelling sta cambiando ancora forma. E siamo solo agli inizi.

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