Archeologia lunare

17 Dicembre 2013

Astronomy Domine

 

C’era una volta l’era spaziale. Una volta quando? Nel 1957 diranno subito i miei lettori, quando il 4 ottobre l’Unione Sovietica mandò in orbita il satellite Sputnik 1; lo stesso anno in cui venne indetto l’Anno Geofisico Internazionale sui rapporti tra il sole e la terra. Eppure le cose non sono così semplici, come dimostra quella celebre storia italiana che aveva come protagonista un pezzo di legno e non un re, e come la storia che accenneremo qui – quella di un pezzo di osso.

 

Ishango Bone

 

Non è affatto certo, questa è la premessa, che l’era spaziale risalga alla sinergia virtuosa di elementi scientifici, tecnici, politici, militari e commerciali della civiltà moderna, al perfezionamento tecnologico di strumentazioni astronomiche come le sonde spaziali. Se adottiamo uno sguardo antropologico-etnologico, le date dell’era spaziale cominciano a scendere progressivamente quanto inesorabilmente fino a toccare le origini della scienza e le civiltà agricole della Grecia, dell’Egitto, della Mesopotamia, dell’India, della Cina, dei Maya o degli Inca nell’America Centrale, che avevano del resto stabilito un calendario lunare.

 

 

L’esplorazione dello spazio da parte dell’uomo si può far risalire al passaggio dalla caccia all’agricoltura, due attività che instaurano un diverso rapporto col tempo. Se la caccia si svolgeva nell’arco di una giornata, l’agricoltura seguiva l’avvicendarsi delle stagioni, era un’attività regolata dal tempo o time-factoring, come si esprime il giornalista, archeologo e storico dell’arte americano Alexander Marshack (1918-2004), che qui ci farà da guida. E time-factoring, aggiunge Marshack, sono anche il cervello, l’arte e la scienza, le leggende e le cerimonie, l’astronomia e la religione, la scrittura e il linguaggio che permettono all’uomo di organizzare un’esistenza sempre più complessa. Certo, queste discipline non hanno aspettato la diffusione dell’agricoltura per svilupparsi, e del resto ci è giunta traccia di osservazioni lunari precedenti lo sviluppo dell’agricoltura. Che si debba risalire ancora più indietro? No, un attimo, ma più indietro dove? Perché in questo modo l’era spaziale finisce per coincidere con la storia dell’umanità stessa. Non siamo più davanti a una questione di astronomia allora, ma di archeologia lunare.

 

Ishango, Ishango!

 

Immaginiamo di trovarci a Ishango, sito mesolitico nell’attuale Congo, sulle montagne orientali dell’Africa equatoriale, nella parte superiore del Nilo. Attorno al 6500 a.C., tremila anni prima la comparsa della prima dinastia egiziana, una comunità di pescatori viveva sulle rive del lago Edoardo; purtroppo scomparvero poche centinaia di anni dopo a causa di un’eruzione vulcanica. Se ne parliamo ancora oggi, è perché qualcosa della loro civiltà è giunta fino a noi. Manufatti all’apparenza insignificanti, come un minuscolo osso inciso di 9,6 cm, nient’altro che il manico di un utensile con un frammento di quarzo alla sommità e degli intagli disposti su tre linee. A prima vista si direbbe che questi abbiano una funzione decorativa. Tuttavia la loro disposizione simmetrica fa insospettire Marshack. E se quei segni fossero stati incisi con un’intenzionalità precisa, cioè con una volontà di far senso lontana dalla mera riproduzione di un pattern? Che si tratti di un gioco aritmetico, come suggeriva un articolo di tale Jean de Heinzelin letto da Marshack.

 

Cristina Falasca, Guscio

 

Quella della ripetizione non era in sé un’idea nuova. L’uomo primitivo avvertiva la necessità di osservare e misurare la periodicità, ad esempio quella offerta dai cicli lunari. Già André Leroi-Gourhan, cui Marshack scrive nel giugno 1962, aveva portato l’attenzione sulla ripetizione della stessa composizione nelle pitture e nei disegni murali delle caverne. La loro frequentazione aveva probabilmente un carattere stagionale: pitture e disegni rupestri erano realizzati in occasione di un cambio di stagione (come l’avvento delle piogge), di una migrazione, della fine dell’ibernazione degli orsi, della prima caccia in primavera o in autunno, del trasferimento dei cacciatori dal rifugio invernale al campo estivo, di cerimonie d’iniziazione e così via.

 

Cristina Falasca, Guscio

 

Tuttavia Marshack vede, in quei segni minuscoli incisi due o tremila anni prima la comparsa della prima scrittura geroglifica, uno dei primissimi sistemi di notazione di cui ci sia rimasta traccia. Le difficoltà non mancano. Dopo un periodo di studio sui libri e le fotografie riprodotte nei libri della New York Library, è ora di verificare di persona. Nel 1965 Marshack si reca al museo di storia naturale dell’Institut Royal di Bruxelles, dove è conservato l’osso di Ishango, e due volte al Musée des Antiquités a Saint-Germain-en-Laye, poco fuori Parigi, dove ci sono altri reperti su cui sta lavorando. La seconda volta ha con sé centinaia di chili di materiale, un’attrezzatura più professionale rispetto al microscopio binoculare giapponese pagato 15 dollari della prima visita.

 

Cristina Falasca, Reperto

 

Tornato a New York, il 4 febbraio 1966 la fondazione Wenner-Gren organizza una conferenza che dura tutta la giornata, in cui il nostro viene sottoposto al fuoco incrociato di archeologi e antropologi, incuriositi quanto scettici.

 

In quell’occasione un Marshack appassionato raccontò il concretizzarsi delle sue intuizioni, che allora dovevano apparire rivoluzionarie non meno che controverse. In quelle tre file di segni del fatidico osso, ecco la sua ipotesi di lavoro, si nasconda un codice, una delle primissime forme di scrittura della civiltà umana. O meglio un calcolo del tempo, più precisamente delle fasi lunari, in cui ogni rigatura sta per una giornata. Come se l’osso di Ishango fosse una versione in scala ridotta dei monoliti di Stonehedge.

 

Secondo Gerald S. Hawkins, astronomo dell’osservatorio astrofisico Smithsonian dell’università di Harvard, che Marshack contatta nell’estate 1964, i monoliti di Stonehedge seguono una disposizione ben precisa che non può che implicare una conoscenza dell’astronomia e l’esistenza di un calendario.

 

Ma qui non siamo davanti alle colossali costruzioni di Stonehedge ma a un arnese di, non dimentichiamolo, meno di 10 cm.; uno di quei reperti  coperti dalla polvere e accompagnati da un’etichetta ingiallita e illeggibile che passa inosservato alla maggior parte dei visitatori del museo. E così del resto erano presentati questi ossi prima che Marshack si mettesse a studiarli, adottando uno sguardo lenticolare, microscopico, attento al modo in cui ogni singolo tratto è stato inciso.

 

Stefano Minzi, Manama

 

I primi risultati non sono incoraggianti poiché le sequenze irregolari si sposano male coi cicli regolari della luna: la prima linea riporta 11, 13, 17 e 19 segni; la seconda 11, 21, 19 e 9. Marshack fa la somma: 11+13+17+19=60 per la prima; 11+21+19+9= 60 per la seconda. E se ogni linea rappresentasse due mesi? Uhm, due mesi lunari fanno 59 giorni, non 60. Senza contare che la terza linea è costituita da 47 o 48 segni, che fa un mese e mezzo. Marshack non si butta giù, sente che l’intuizione di fondo è buona, che è davanti a un sistema primitivo di osservazione e notazione lunari, e che suo compito è quello di decifrarlo.

 

Quanto avviene quando si accorge che i 60 tratti variano per inclinazione e lunghezza: la serie di 19 è suddivisa in due sequenze di 5 e 14; quella di 17 ha gli ultimi 6 più pronunciati e 2 più lunghi; la sequenza di 13 ha i tratti più piccoli rispetto alle altre. Il ciclo lunare astronomico è composto, per la precisione, dai 29 giorni e mezzo che compongono il mese sinodico, su questo non ci piove. Nondimeno è impossibile cogliere l’intero ciclo a occhio nudo: vi saranno sempre delle notti senza luna; a volte una, a volte due, a volte tre.

 

Stefano Minzi, Mariti e mogli

 

Per questo, in un sistema d’annotazione basato sulla mera osservazione, le serie lunari saranno composte da un numero variabile tra i 28 e i 31 giorni. Marshack dimostra inoltre che, uno degli aspetti su cui il giudizio della comunità scientifica è unanime, le incisioni sono realizzate con diversi strumenti. Nel caso di un osso con 69 segni, riconosce ben 24 scritture differenti, che procedono nel tempo con regolarità, uno dopo l’altro, sulla stessa linea, per poi proseguire su quella successiva. Siamo insomma davanti a un sistema di notazione sequenziale – qui l’osservazione delle fasi della luna e la scrittura pittografica ritrovano la stessa origine.

 

Aleph e mirador

 

Non c’interessano le critiche mosse dagli specialisti alle ipotesi di Marshack, alla sua ipertrofia ermeneutica, alle giustificazioni a volte stravaganti, alla sua single-mindness. L’osso di Ishango – e gli altri manufatti analizzati dall’autore in The Roots of Civilization. The Cognitive Beginnings of Man’s First Art, Symbol and Notation, pubblicato nel 1972, alcuni risalenti a 30.000 anni fa, come l’osso di Blanchard o di Lartet – è uno dei primissimi tentativi di riappropriarsi del tempo, di registrarlo e di esorcizzarlo. Non solo: il metodo scientifico di Marshack si apparenta al lavoro di chiunque si occupi di visibile, che si tratti di critici o di artisti. Che Marshack sia il Giovanni Morelli di un’epoca primitiva, quella di un’arte senza nomi?

 

Stefano Minzi, Leika

 

Un approccio utopico, se ci affidiamo a un passo straordinario di Ernst Bloch: “La coscienza utopica vuole spingere lo sguardo molto in là, ma in ultima analisi solo al fine di penetrare la vicinissima oscurità dell’attimo appena vissuto, in cui tutto ciò che è, è tanto operante quanto nascosto a se stesso. In altre parole si ha bisogno del cannocchiale più potente, quello della coscienza utopica levigata, per penetrare proprio la prossimità più vicina” (Il principio speranza).

 

Con la sua capacità di focalizzare e analizzare ma anche di perdersi nel dettaglio, di riporre tutte le proprie aspettative e ossessioni in un solo oggetto – un misero osso! – Marshack è in fondo il prototipo del visionario. E per il visionario un microscopio e un telescopio, una lente d’ingrandimento e un cannocchiale, una radiografia e un’immagine aerospaziale, una camera oscura o un panorama paesaggistico, un aleph e un mirador, un primissimo piano e un grandangolo, uno zoom fino ai pixel più puntiformi e Google Earth funzionano alla stessa maniera.

 

L’archeologia lunare sarà la disciplina che si occupa di quella vertiginosa ellisse che segna la scena d’apertura di 2001 Odissea nello spazio, quando il primate brandisce un osso-clava prima di lanciarlo verso il cielo. Così in alto che lo spazio si fonde con il tempo e l’osso diventa di colpo una navicella spaziale (di colpo, e non in quelle 97 ore e 20 minuti ancora necessari a Jules Verne in un romanzo del 1865!). Una History of violence certo, ma anche un’archeologia lunare che considera quell’intervallo non trascurabile tra l’osso di Ishango e lo Spoutnik.

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