Speciale

III / Quattro domande sul desiderio

La pandemia scatenata dal coronavirus ha modificato, e probabilmente modificherà ancora anche a breve scadenza, i comportamenti che riguardano i corpi e le relazioni fisiche tra gli esseri umani. Ti chiediamo di rispondere ad alcune domande per capire in che modo a tuo parere potrà cambiare tutto questo.

 

Ivano Gamelli, pedagogista

 

1. Il desiderio di prossimità, la necessità di abbracciarsi, di scambiarsi segni di reciproco affetto e di amore, sembrano oggi aboliti a causa dei timori che i contatti possano generare veicoli di trasmissione del virus, così che la paura ha preso il sopravvento: possiamo essere gli untori dei nostri partner, genitori, amici. Desiderio e paura si escludono o possono coesistere e con quali conseguenze? Cosa determinerà – in una fase di coesistenza con il virus – l’impossibilità di riprendere la dimensione fisica, corporea, di alcune relazioni, in particolare quelle con gli anziani?

 

Cominciamo con il dire che corpo, come mente, è una parola che assume significati diversi in relazione ai contesti e ai paradigmi nei quali la si inserisce. Una riflessione, questa, che ci porterebbe lontano, ma che non può non essere tenuta in considerazione. Cos’è corpo per un chirurgo, per un atleta, per un educatore, per un terapeuta, per un danzatore, per un macellaio?

Non vi è dubbio che la presenza del virus abbia investito il nostro vivere sociale e privato, portandoci a interrogare i nostri stili e le nostre abitudini relazionali e affettive, quantomeno nel nostro modo abituale di pensarle e quindi di viverle. Tutto ciò però chiede di essere considerato caso per caso, poiché le risposte sono state e saranno inevitabilmente diverse. Tra chi il virus lo ha conosciuto in casa propria, magari perché direttamente toccato dalla sua violenza, su di sé o su un vicino parente o amico, ad esempio, e chi ne ha invece fatta un’esperienza solo percepita all’esterno ma non vissuta – senza nulla togliere alla capacità di immedesimazione e di compassione – le differenze non possono che risultare evidenti. Lo stesso dicasi per paura e desiderio che, come piacere e dolore, risultano separati da confini psichicamente più permeabili e dialoganti di quanto un certo tipo di logica antitetica tenda a farci credere. Per me che amo e pratico diversi sport, ad esempio, la fatica intensa ha un valore, per altri incomprensibile, nel quale si annida una poetica dell’esistenza; al di là della pesante situazione contingente, tutte le dicotomie accennate si danno sempre insieme, declinandosi in differenti forme e generando effetti difficilmente riconducibili a un unico schema. Nemmeno si può tralasciare la componente emotiva di ciascuno, che in questo periodo più che in altri mi sembra oscillare fra la rimozione del problema e una eccessiva deriva, mi si passi il termine, paranoide, con tutte le conseguenze comportamentali del caso. 

 

2. Come credi che si sia strutturato e come agisca il desiderio, motore della nostra vita quotidiana, in questa situazione di distanziamento sociale o di prossimità forzata. Aumenta o riduce il desiderio dell’altro?

 

Per quanto il ragionamento intellettuale sia sempre una risorsa, per rispondere seriamente a questa domanda bisognerebbe disporre di un osservatorio sufficientemente ampio e attendibile di cui io sinceramente non dispongo. Bisogna contestualizzare per non generalizzare. Di chi stiamo parlando? C’è chi nel lockdown si è ritrovato solo e allontanato giocoforza dai suoi affetti primari, e chi, esattamente al contrario, ha potuto sperimentare con i medesimi (pur con gli esiti più disparati) una lunga e sospesa intimità mai conosciuta prima. Certamente anch’io, come tutti, come è stato già ben espresso da coloro che mi hanno preceduto in queste risposte, ho avvertito il sospetto nell’incontro con altri nei rari spostamenti cittadini. Aggiungerei inoltre, paradossalmente, pure un certo rispetto, una minore aggressività e un benefico rallentamento, anche se certo dettati dalla paura che, come il tanto vituperato senso di colpa, ci ha rivelati più solidali e sensibili. La rete dei rapporti sociali è sicuramente però venuta meno, per quanto il coatto e accelerato corso di acculturazione informatica al quale siamo stati costretti ci abbia consentito di provare a mantenere vive le relazioni. Abbiamo praticato nuove modalità comunicative private e professionali che aprono scenari interessanti rispetto al futuro. Anche se, al netto dell’esperienza, con i nostri device abbiamo scoperto che si può fare tutto, ma che ci manca tutto.

 

Wolfgang Tillmans, Still life, unlikely match, 2017. 


3. Cosa è cambiato e cosa cambierà nei comportamenti intimi delle persone, nella sessualità? È accaduto qualcosa che possiamo paragonare all’avvento dell’AIDS in questa sfera individuale?

 

Ricordo personalmente l’esordio dell’AIDS all’inizio degli anni ’80. Arrivavano notizie da Oltreoceano che lo scambiavamo per altro, ridimensionandone la minaccia rispetto a ciò che avrebbe poi rappresentato. Uno fra i primi a prenderlo sul serio fu Rajneesh, un noto e discusso maestro spirituale indiano di quegli anni, che si era imposto alle cronache anche per la disinvoltura sessuale che predicava fra i suoi adepti, il quale, fra molte polemiche, si affrettò a richiedere il test a tutti coloro che frequentavano le sue comunità sparse per il mondo. L’AIDS investe i comportamenti sessuali e oggi sappiamo che può essere messo a rassicurante distanza da atteggiamenti di protezione consapevoli. Il Covid19 – come hanno saggiamente ricordato Vittorio Lingiardi e Chiara Mirabelli nelle loro risposte a queste domande – tocca la funzione vitale per eccellenza, che risiede nel nostro respirare, ed esistono al momento solo incertezze riguardo alle tutele che ci possono mettere al riparo dal contagio. Per me il paragone non regge. Così come non credo – e qui mi rifaccio ai distinguo della mia prima risposta – che l’intimità delle coppie (almeno dei congiunti, per usare una discussa definizione governativa) rappresenti un diffuso tallone d’Achille dell’epidemia, se non come amplificazione in quelle coppie in cui la sessualità era già incrinata, rimossa o compensata da altre relazioni. Diversa è e sarà, penso, l’intimità sessuale che si vive nelle relazioni occasionali, forse. Ho letto in questi giorni della crisi che attraverserebbero le sex workers, ma è una dimensione che non conosco e che quindi non mi sento di commentare.

 

4. Anche i corpi fino ad oggi sono stati sottoposti all’ideale della performatività, questa situazione potrà far emergere una differenza in questo senso?

 

Per me che mi occupo di pedagogia del corpo, ovvero del ruolo del corpo nei più diversi contesti educativi e di cura nelle diverse età della vita, la parola “performatività” chiede di essere specificata e non immediatamente ricondotta a un’idea di vuota e nevrotica prestazione. La performatività estetica mutuabile dalle arti dinamiche, ad esempio, sta affermandosi come una chiave innovativa rispetto ai tradizionali metodi cognitivi di elaborazione e di valutazione delle dinamiche apprenditive. Il tema è altro. Nei contesti educativi, che sono poi quelli diffusi in ogni momento della nostra esistenza, dall’infanzia all’età anziana, il corpo è sempre stato, in buona sostanza, un convitato di pietra. Se ne è indubbiamente parlato molto, lo si è anche finemente intellettualizzato, ma poco si è stati educati ad ascoltarlo, ad accoglierne i bisogni, a riconoscere le potenzialità dei suoi linguaggi. In una parola, ad averne cura in una prospettiva che non sia superficialmente edonistica. Per quanto si sappia che ogni cosa la si impara con il corpo, il percorso scolastico che ci ha toccato tutti ne è la più evidente (s)conferma. Il dibattito acceso sulla ripresa della scuola, verso la quale mi sento molto coinvolto (e sulla quale gli intellettuali, e non solo gli addetti ai lavori, sarebbe bene che dessero il loro contributo riflessivo),  sulla restituzione ai bambini e alle bambine di ciò che è stato sottratto loro dalla gestione adulta della pandemia (hanno avuto più diritti di loro i cani) è una questione che sta rimettendo al centro proprio l’importanza di una ridefinizione delle categorie pedagogiche di spazio e tempo, che sono categorie corporee. Per dirla tutta, anche i contesti della cura e terapia, con rare eccezioni, tendono a ignorare in buona parte il corpo (quindi dimenticando la formazione e l’esercizio che lo rendono sensibile), difendendosi dietro l’assioma secondo cui sarebbe sempre e comunque presente. Il virus ci ha messo di fronte a una minaccia che tocca proprio questa dimensione, rispetto alla quale ci sentiamo sicuramente indifesi, ma anche, mi verrebbe da dire, analfabeti. Qualcuno, mi si perdoni l’immediatezza, ci ha mai educati alla consapevolezza del nostro respiro, al rapporto che lega emozioni e pensieri con gli stati corporei, all’ascolto della nostra voce, a interrogarci internamente (non dieteticamente) sulle nostre scelte alimentari, ad accettare i limiti del nostro corpo nella relazione con quello degli altri, e a rispettarli? Per fortuna che esiste la scienza medica nella sua ricerca di ogni rimedio ai mali che ci affliggono, ma senza una crescita, uno sforzo di miglioramento, per quanto piccolo, della consapevolezza personale della “casa” che abitiamo, del corpo che siamo e che abbiamo, premessa imprescindibile per la cura della “casa-mondo” vivente e sofferente che ci accoglie, anche l’esperienza di questo virus rischia di non fare alcuna differenza. Intanto compratevi una bicicletta.

 

Pietro Barbetta, psicanalista

 

1. Il desiderio di prossimità, la necessità di abbracciarsi, di scambiarsi segni di reciproco affetto e di amore, sembrano oggi aboliti a causa dei timori che i contatti possano generare veicoli di trasmissione del virus, così che la paura ha preso il sopravvento: possiamo essere gli untori dei nostri partner, genitori, amici. Desiderio e paura si escludono o possono coesistere e con quali conseguenze? Cosa determinerà – in una fase di coesistenza con il virus – l’impossibilità di riprendere la dimensione fisica, corporea, di alcune relazioni, in particolare quelle con gli anziani?

 

Siamo stati abituati al desiderio di prossimità inteso come relazione corporea, tanto da averlo catalogato nei termini di habitus o “carattere nazionale”: il carattere nazionale del nord Europa versus quello latino, il carattere nazionale di alcuni paesi dell’estremo oriente – paradigmatico il pregiudizio sul Giappone – versus quello occidentale, ecc. Vero che alcuni comportamenti differenti, come il saluto, sono dominanti, in termini rituali. In Europa ci si stringe la mano, quasi fosse segno di sincerità e franchezza, in alcuni paesi orientali si usa l’inchino, a volte con le mani giunte. Darsi la mano sembra un segno di esagerata intrusività. Le stesse “mascherine”, che per noi sembrano un fastidio intollerabile, in alcuni paesi d’estremo oriente sono pratiche diffuse ben prima del virus.

La caratteristica fondamentale del virus è il doppio volto, attivo e passivo. Si può contagiare, si può essere contagiati e purtroppo, dove si è stati indolenti nell’evacuazione degli anziani dalle residenze collettive, c’è stata una strage. Poi arrivano le ricerche, come quella pubblicata sul New England Journal of Medicine sul tallone d’Achille delle persone asintomatiche, ma la scienza è come la nottola di Minerva, spicca il suo volo sul far della sera, nel frattempo qui era deceduto oltre il 30% degli ospiti. Mai come in questi giorni ho letto, e mi sono appassionato al virus, e anche questo è stato un modo per andare incontro al desiderio, il desiderio dell’Altro, il desiderio di conoscere, cioè, di prendere posizione. Perché conoscere è prendere posizione.

Gli anziani, per quanto mi riguarda, siamo noi, direbbe Vasco Rossi, e ora io sto – via Skype, messanger, whatsapp, zoom, twitter, Facebook, ecc. – riprendendo i contatti con i miei amici e conoscenti sopravvissuti; anziani come me, più di me. Alcuni sono morti, altri la morte l’hanno, come me, incontrata, altri non sono incappati nel virus, fino ad ora, e speriamo mai. Amici che non sentivo da anni. Io, classico intellettuale di sinistra con la puzza sotto il naso, ho rivalutato il cellulare, che, durante i momenti peggiori del decorso, e durante il recupero, mi ha permesso di restare collegato al mondo, direttamente, tramite il telefono e i messaggi, o indirettamente, tramite la musica, il teatro, il cinema e gli audiolibri notturni su YouTube e altri network audiovisivi.

Direi dunque, nel mio caso, il desiderio si è spostato, si è dislocato altrove e sono ancora alla ricerca di questo altrove, non l’ho ancora ben collocato.

 

2. Come credi che si sia strutturato e come agisca il desiderio, motore della nostra vita quotidiana, in questa situazione di distanziamento sociale o di prossimità forzata. Aumenta o riduce il desiderio dell’altro? 

 

Il desiderio è polimorfo, il primo sintomo che ho avuto, dopo la dichiarazione del primo e secondo campione negativo di qualche giorno fa, è la claustrofilia. 

Dopo due mesi di isolamento, potevo uscire, pensavo di uscire festeggiando, però sapevo già che non sarebbe accaduto. Avevo una malattia che non è la mia, è la nostra. Dovevo rispettare gli altri, la mia comunità di appartenenza. Prima della malattia il termine “soggetto collettivo”, ripreso negli ultimi tempi da Antonello Sciacchitano, era un concetto interessante. Ora però è un sentimento, un vissuto, qualcosa che è incarnato nella mia esistenza. Penso che questa claustrofilia – la stessa di cui ha scritto, in un meraviglioso libro, Elvio Fachinelli – si declini nella somiglianza con la sindrome di Stoccolma: l’essersi convertiti, in questo caso, al desiderio di isolamento e alla nostalgia così come la canta Lautréamont nei Canti di Maldoror. Sono qui, nel mio studio clinico, ma sto scrivendo dal chiuso di una parte di casa mia, tre locali e un bagno, così come Isidore Lucien Ducasse, quando scriveva quei versi a Parigi, li scriveva come l’altro al monte, a Montevideo.

Il virus facilita un posizionamento ossessivo senza fantasma, il virus potrebbe essere dappertutto, somiglia a un fantasma, per la sua invisibilità, ma, a differenza del fantasma, ha una materialità, benché minima; oppure un posizionamento paranoico: potrebbe attaccare me, la comunità, il mondo, in qualsiasi momento, è un nemico nascosto, insidioso, ma ci insegna a rispettare le distanze, gli altri.

 

Wolfgang Tillmans, Still life (Bogota / Berlin), 2012.


3. Cosa è cambiato e cosa cambierà nei comportamenti intimi delle persone, nella sessualità? È accaduto qualcosa che possiamo paragonare all’avvento dell’AIDS in questa sfera individuale?

 

Beh, se posso fare una battuta: faciliterà una sessualità joyciana, voyeurista, come quella del signor Leopold Bloom sulla spiaggia, che si masturba, infilando una mano nella tasca, in ammirazione delle gambe di Gerty MacDowell e ha un orgasmo in corrispondenza dello scoppio dei fuochi d'artificio. Una sessualità epifanica, da scrivere su un quaderno di appunti. Credo che quando si parla dei virus sia necessario affidarsi al concetto filosofico di “serie”, c’è una serie nel covid-19, e c’è una serie negli altri virus. L’HIV ha avuto, e ha tutt’ora un risvolto mediale discriminatorio, funziona nelle discriminazioni di pratiche umane come l’omosessualità e più in generale la sessualità cosiddetta “promiscua”, oppure di pratiche dovute alle dipendenze da droghe a iniezione. 

 

Il covid-19 invece non produce discriminazioni riguardo a pratiche ritenute “immorali” o “patologiche”, qui l’irresponsabilità si sta spostando sugli untori. Gli untori, secondo la vulgata mediale, sono gli asintomatici o coloro che hanno sintomi lievi, che possono infettare gli anziani, oppure coloro che non rispettano le norme igieniche straordinarie. L’avvento dell’AIDS negli USA e in Europa ha coinvolto le comunità LGBT e ha sviluppato un senso di solidarietà nuovo dentro queste comunità. Ricordo ad esempio il toccante America Tune cantato dal Gay Chorus di Los Angeles, oppure il film Philadelphia, ecc., così come la netta riduzione dell'uso di eroina in vena per un certo periodo di tempo. La cosa toccante del covid riguarda l’ecatombe di anziani, di disabili e di pazienti psichiatrici nei centri di ricovero. In questo senso il covid sembra avere un comportamento, per dir così, hitleriano: eliminazione del soggetto dis-funzionale. Qualcosa di ignobile. Sul piano materiale, i veicoli del covid, per lo più respiratori, sono profondamente diversi da quelli dell’HIV, inoltre l’HIV ora è assai più controllabile sotto molteplici aspetti, il covid è ancora misterioso per gli scienziati e i tecnici. Potremmo continuare la serie delle differenze, anche sul piano della sintomatologia psichica, per esempio, un paziente ossessionato dall’HIV può non avere nessuna preoccupazione per il covid; questo ci suggerisce che, in alcuni casi, l’oggetto dell’ossessione è più importante del sintomo in sé, che ossessione non vuol dire nulla, che gli ossessivi vivono la loro ossessione nel dominio della singolarità.

 

4. Anche i corpi fino ad oggi sono stati sottoposti all’ideale della performatività, questa situazione potrà far emergere una differenza in questo senso? 

 

Questa è una speranza. Io qui distinguo, come nel pensiero classico moderno, l’ottimismo della volontà dal pessimismo della ragione. A giudicare da come si è ridotto il mondo negli ultimi anni, spero che ci si sia accorti che le aree più devastate sono gli USA, il Brasile, il Regno Unito e la Lombardia, dove “la gente” ha votato per democrazie reazionarie, quasi fasciste, salvo eccezioni. Sul piano della ragione dunque sono pessimista: non credo che questa entità che tutti definiscono con il termine “la gente” si smuova da questa fissazione e anche questa, come ho già scritto su Doppiozero, è una patologia. Si tratta della performatività di cui parli. Quella che ha prodotto l’aumento esponenziale di droghe psico-stimolanti, legali o illegali, sappiamo tutti che dipende dal neo-liberismo, nuova forma di totalitarismo, questo è un cambiamento antropologico essenziale, iniziato nel Seicento, dall’idea che la natura è matrigna e che l’uomo si fa lupo con gli altri uomini. L'idea di natura matrigna e nemica ha prodotto l’ideologia dello sfruttamento sfrenato della terra, oggi questo fenomeno ha un nome: Antropocene; l’idea dello stato di natura ferina ha prodotto quella del Leviatano, ma, dopo la teoria del Leviatano, ha prodotto un meccanismo psichico di identificazione: il Panottico, modello di carcere riabilitativo. No sapendo quando il sorvegliante ti sta guardando, il carcerato acquisirà, uscendo dal carcere, quel self-control necessario a essere sempre timoroso della legge. In pratica il Leviatano viene cannibalizzato, incorporato, come direbbe Freud quando descrive il fenomeno dell’identificazione in Psicologia delle masse e analisi dell’io.

 

Oltre la ragione c’è il principio di speranza, al quale non intendo mai voltare le spalle, il principio di speranza è, dal mio punto di vista, una legge, chiamatela pure la “legge del cuore”, anche se oggi suona démodé. È la rivendicazione di Antigone, che per avere portato il fratello in territorio consacrato viene punita dal tiranno e risponde, come nella traduzione di Hölderlin, che la legge del tiranno non è quella impostale da "il mio Zeus". Antigone, per questa trasgressione, viene sepolta viva, ma il locus nel quale è sepolta somiglia assai al locus generativo del corpo femminile, spero che si tratti di aspettare qualcuno che tolga il masso sotto al quale Antigone è seppellita, dobbiamo trovare chi la sostituirà. Insomma, seguendo le tracce di Luce Irigaray, penso che la speranza sia nell’Etica della differenza sessuale.

 

 

Leggi anche:

Massimo Recalcati, Silvia Lippi, Matteo Lancini, Quattro domande sul desiderio (I)

Vittorio Lingiardi, Chiara Mirabelli, Barbara Massimilla, Quattro domande sul desiderio (II)

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