Come si diventa Gesuiti / Adriano Prosperi, “La vocazione”

15 Giugno 2016

La vocazione è un libro che riprende un tema che appassiona Prosperi da sempre: il misto di ammirazione per la straordinaria capacità di affermarsi della Chiesa cattolica e di orrore di fronte alla ferocia del suo dominio sulle persone. Ma l'ammirazione prevale, specialmente in questo libro in cui sono al centro i Gesuiti nel primo secolo della Compagnia: l'intelligenza, la capacità psicologica e l'utilizzazione della comprensione antropologica della società nel mondo cattolico appaiono qui dispiegate nel rafforzare la Compagnia, nel selezionare i militanti, nell'imporsi dentro e fuori dalla Chiesa.

Tutta la lettura di questa vicenda è fatta da Prosperi attraverso i documenti relativi alla procedura che porta alla vocazione per divenire gesuita, alla selezione e al controllo successivo per garantire la formazione, l'obbedienza e la perseveranza degli adepti. E la documentazione è essenzialmente quella delle memorie scritte specialmente dai nuovi aderenti, autobiografie apparentemente personali – perché tutte raccontano vicende specifiche e proprie – ma di fatto create secondo una struttura mutevole ma sempre riferita a temi costanti: la nascita della vocazione come un messaggio personale e in qualche modo miracoloso giunto dalla divinità, il conflitto con la famiglia naturale per aderire a quella spirituale, le pratiche ripetute di comunione e confessione, l'affido a un padre spirituale e tuttavia la sempre ripetuta negazione che la vocazione sia stata stimolata dai gesuiti essendo sempre legata a una chiamata divina personale.

 

Juan Alonso de Polanco dagli anni '50 del Cinquecento promuove e organizza questi documenti, prodotti anche in funzione di fornire fonti agli storici della Compagnia. Insieme alle corrispondenze dai paesi di missione, sono raccolti in serie diverse nell'Archivium Historicum Societatis Iesu, secondo che trattino di vocazioni in qualche modo classiche o Vocationes Illustres, cioè particolarmente interessanti per vari motivi o, infine, vocazioni fallite per espulsione o per uscita, che servono ad illustrare le conseguenze drammatiche subite dai rinnegati. Sono dunque “scritture autobiografiche imposte o comunque richieste dall'alto, ad uso interno” (p. XVIII) che in qualche modo ricordano, come Prosperi dice esplicitamente, quelle studiate da Mauro Boarelli, richieste nei primi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale dai dirigenti del Partito Comunista a coloro che richiedevano l'iscrizione, che avevano specialmente la funzione di verificare i comportamenti tenuti durante il periodo fascista. 

 

Siamo in pieno sviluppo della Riforma e di riorganizzazione della Chiesa e i Gesuiti sono solo una, la più straordinaria, espressione di un rinnovamento e insieme del superamento degli equivoci irrisolti che appunto nella Riforma e nella Controriforma trovarono la definizione netta della distanza che separava le posizioni fra i cristiani in Europa. Al centro il problema del libero arbitrio: tema essenziale in questo libro perché la vocazione, ispirata dalla divinità e preservata per grazia divina, sembra vincolare la volontà degli uomini. Ma, affermano i Gesuiti, l'uomo resta libero in quanto può accettare o rifiutare la chiamata, anche se il rifiuto può portare alla dannazione. E dunque tutte queste vocazioni narrano appunto il conflitto interno combattuto, perché la vocazione implicava una scelta drammatica e totale, di abbandonare definitivamente la vita precedente cioè di passare da un'esistenza naturale a un'esistenza spirituale, e quindi l'abbandono di tutti i legami famigliari naturali, la famiglia secondo la carne, per entrare in una famiglia spirituale, la famiglia secondo lo spirito E infatti tutte le scritture autobiografiche narrano delle lotte, spesso violente e sempre drammatiche, di abbandono della famiglia in conflitto con padri e madri ostili alla perdita di un figlio necessario all'economia domestica o alla preservazione dello status familiare o per il dolore per la perdita di una persona cara. Perché, specialmente nelle prime generazioni di membri della Compagnia, l'appartenenza implicava una rinuncia totale a quello che era stata la vita vissuta in precedenza.

 

Certo Ignazio di Loyola aveva costruito con estrema lungimiranza la struttura della Compagnia, a cominciare dall'idea dell'autobiografia, una pratica che aveva iniziato lui stesso con il racconto del Pellegrino. Ma questi racconti dovevano evitare ogni forma di vanagloria: l'umiltà implicava che i meriti di una vita votata alla perfezione dovevano essere tutti attribuiti a Dio e che il dovere dell'uomo fosse quello di accogliere la grazia del Signore. Si trattava di trovare un metodo, elaborato sistematicamente, di condotta razionale della vita, con il fine di sottrarre l'uomo alla dipendenza dal suo mondo e dalla natura, di sottoporlo alla supremazia di un volere sistematico, di sottomettere le sue azioni a un costante autocontrollo per educare nel sacerdote un lavoratore al servizio del regno di Dio per assicurarlo della salvezza della sua anima. Ma questa descrizione di una religiosità razionale, immersa nella concretezza del mondo e nel quotidiano, molto vicina a quella calvinista, se ne distanziava perché doveva preservare l'idea della superiorità del clero che viveva metodicamente la sua vita religiosa e il cui ruolo era di mediare fra la massa dei peccatori e il Signore. Così libero arbitrio, ruolo della Chiesa, formazione di un clero veramente degno del ruolo che dovevano ricoprire, un clero i cui membri avevano raggiunto la volontà di portare nel mondo la perfezione che avevano raggiunto attraverso confessioni settimanali, comunioni frequenti fino a una confessione generale, lungo il periodo complesso che da novizio portasse al voto definitivo. E il voto era, nel caso dei gesuiti, diverso da quello di altri ordini, perché, accanto ai voti del modello tradizionale di vita religiosa – povertà, castità e obbedienza –, c'era il quarto voto, l'obbligo a una disponibilità totale a obbedire al Papa relativamente alle missioni.

 

Il libro di Prosperi ci narra dunque la storia della rapida costruzione di un organismo potente e bellicoso, in lotta con altri ordini religiosi (il conflitto con papa Carafa e coi teatini, quello con Carlo Borromeo, quello con i serviti). E il conflitto era anche politico, per lo scontro con le università in cui gli Stati creavano la loro classe dirigente (con la Sorbona e con Padova, ad esempio) perché la creazione di collegi di alta qualità, controllati e disciplinati – una geniale iniziativa lanciata da Ignazio – erano accolti con interesse dalle classi sociali aristocratiche: in essi si selezionavano i futuri membri della Compagnia ma anche si creavano giovani preparati che rivaleggiavano per capacità e per orientamento (il tomismo contro l'averroismo dell'Università di Padova per esempio) con le esigenze degli stati. “L'educazione dei PP. Gesuiti – scrive Paolo Sarpi nel 1622 – sta in ispogliare l'alunno di ogni obbligazione verso il padre, verso la patria, verso il principe naturale, e voltar tutto l'amore e 'l timore verso il padre spirituale... li Gesuiti non aver pari nell'educazione, ma non in quella, ché utile a questa Repubblica” (p. 213).

Ma questa presentazione sin qui fa torto alla grande capacità di Prosperi di raccontare. E il suo libro così non è solo una storia della rapida crescita della Compagnia. L'uso delle fonti biografiche – Prosperi si domanda “quali siano le radici storiche dei racconti di vocazione”(241) – riempie questo racconto di vicende personali, di grandi personaggi: Ignazio di Loyola, Girolamo Nadal, Roberto Bellarmino, Juan Alonso Polanco, Antonio Possevino, ma anche di personaggi minori, ognuno con la sua vicenda caratteristica, ma strutturata secondo uno schema ripetuto e suggerito. Storie che escludono sentimenti ed emozioni estranei alla serenità con cui la vocazione è accettata e vissuta o all'infelicità di chi l'ha rifiutata o tradita.

 

Tuttavia, chiuso il libro, al lettore restano alcune domande. Ne vorrei suggerire tre: 

1. la scelta delle vicende qui presentate al lettore è quello della mancanza delle imprese dei missionari a confronto con culture e società completamente differenti; le lettere dalle Indie erano lette, selezionate e pubblicate ma questi scritti autobiografici paiono riguardare quasi esclusivamente il momento della vocazione, e dunque l'Europa. Non ci dicono come da una educazione all'obbedienza e alla spersonalizzazione si sia formata una straordinaria capacità di invenzione e iniziativa durante le imprese di cattolicizzazione dei nuovi mondi.

2. Tra Ignazio di Loyola e Bellarmino o Possevino il clima della Compagnia è molto cambiato. Da impresa in qualche modo eroica e avventurosa, la Compagnia diventa progressivamente un organo politico in lotta per affermare il proprio potere. C'è una trasformazione profonda fra i primi 30anni e la Compagnia fra 1580 e 1630 e anche le norme dell'abbandono della famiglia naturale cominciano a essere violate, come mostra la storia un po' repellente per la sua paura delle donne, di Luigi Gonzaga.

3. Infine: il carattere sovversivo della Compagnia su alcuni temi mostra ben presto alcune scelte che prefigurano la svolta reazionaria del secolo XIX, per esempio nel caso del rapporto con i nuovi cristiani, prima accettati con qualche limitazione nella carriera, poi rifiutati per conformarsi alle pratiche della limpieza de sangre della monarchia spagnola.

 

Così voglio concludere partendo dall'introduzione di Prosperi: gli stereotipi sui gesuiti, l'antigesuitismo interno ed esterno alla Chiesa o il filogesuitismo, cresciuti entrambi fin dall'origine della Compagnia, non sono poi stereotipi perché il bene e il male che accompagnano inseparabilmente la loro vicenda, affascinano e respingono nello stesso tempo. 

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