Gëzim Hajdari. Il cantore del XXI secolo

10 Ottobre 2015

«Tragedia e grandezza sono elementi indissolubili del Kanûn. È una delle costituzioni più imponenti che vi siano al mondo, con conseguenze tragiche. Il Kanûn non è soltanto una costituzione, ma anche un mito che ha assunto la forma di una costituzione.»

G. Hajdari

 

Gëzim Hajdari

 

L’Albania di oggi richiama alla mente una nazione in faticosa ripresa, dopo gli anni oscuri del comunismo e quelli dell’emigrazione clandestina verso le coste pugliesi, un paese di traffici più o meno leciti e di mete turistiche a basso costo. Ben poco si sa della sua storia e della sua cultura tradizionale, fondata sull’ospitalità, l’onore, la vendetta di sangue e la besa, la parola data. Sono i principi del Kanûn, corpus legislativo tanto arcaico quanto tragicamente attuale, cuore pulsante della cultura albanese. È questo lo sfondo di Vergine giurata (2015) film di Laura Bispuri, presentato al 65° Festival di Berlino e liberamente ispirato all'omonimo romanzo in lingua italiana dell'albanese Elvira Dones (Feltrinelli 2007), ma anche di molti altri documentari, volumi, persino fumetti. Codice «preciso, spietato, completo», il Kanûn intreccia «tutta la vita e la morte umana, stabilendo con rigore ogni minimo dettaglio, dalle regole che definiscono come deve essere servito il caffè, il cui mancato rispetto poteva causare ostilità mortali, fino a quelle relative all’incendio punitivo di un’intera regione», come si legge tra le pagine di Ismail Kadare (Kadare 2008). Nate intorno al XV secolo le leggi kanunarie sono state tramandate oralmente di generazione in generazione venendosi a legare indissolubilmente con il corpus dell’epica popolare albanese: tradizione poetica e diritto sono state originate da una potente fonte comune, il racconto.

 

Da qui nasce la poesia in lingua italiana di Gëzim Hajdari. Dai primi anni ’90 lo scrittore albanese ha pubblicato numerose raccolte sul doppio binario della contemporaneità e della memoria, muovendosi tra tradizione e sperimentazione stilistica. Nato nel 1957 ad Hajdarai, un villaggio nella provincia di Lushnje, negli anni giovanili scrive i primi volumi di poesie: Il Diario del bosco (1976), che in Italia verrà pubblicato col titolo Erbamara (2001), non viene accettato dall’editoria di regime; la raccolta che nel 2000 verrà pubblicata nel nostro paese come Antologia della pioggia esce in Albania nel 1990 dopo cinque anni di censura, in versione non integrale. Nel 1992 Hajdari fugge dall’Albania. L’anno precedente era stato tra i fondatori del Partito Repubblicano e di quello Democratico, schierati all’opposizione del regime comunista. Nonostante il nuovo governo “democratico” di Berisha, Hajdari prosegue la sua denuncia svelando gli abusi e i crimini del nuovo governatore inimicandosi gli stessi democratici, che lo abbandonano. Dopo un’intensa attività politica e giornalistica d’opposizione è costretto a lasciare il suo paese in seguito a reiterate minacce e dopo essersi fortunatamente salvato da una sparatoria nella sede del Partito Repubblicano, del quale era segretario per la sua provincia. In aprile giunge in Italia, ma non gli viene concesso l’asilo politico in quanto l’Albania è annoverata tra i “paesi democratici”. Il primo libro di poesie in italiano con testo a fronte albanese, Ombra di cane, verrà pubblicato l’anno successivo presso una piccola casa editrice di Frosinone e darà il via a una vasta produzione poetica in cui ogni volume «è un poema che si riprende nella raccolta successiva», spiega Hajdari. Dal 1996 arriveranno anche i primi importanti riconoscimenti come il Premio Eks&Tra del concorso per scrittori migranti, giunto alla seconda edizione, e il Premio Montale.

 

 

L’allontanamento dalla sua terra d’origine, tuttavia, non comporta l’abbandono della tradizione poetica e giuridica, che anzi rimarrà il tratto distintivo della sua opera e il motivo centrale di una riflessione che, per quanto variata nel tempo, non si è mai interrotta. Nella prefazione a Nûr. Eresia e besa (Ensemble, 2012), Hajdari descriveva le montagne albanesi come «il grande palcoscenico di una delle più maestose e crudeli tragedie della storia umana, segnata dal sangue dei montanari. La vita, l’onore e la morte vi s’intrecciano come nei poemi omerici». Se poesia e diritto, come è stato detto, hanno origini comuni e antichissime, lo scrittore albanese non ne interrompe la continuità, ma costruisce la sua poetica contemporanea proprio sulla forza comunicativa ed etica del racconto orale. La besa, la resistenza al nemico, l’onore, la fedeltà, l’eredità della memoria (vedi Gazzoni 2012): questi sono i temi della poesia hajdariana, valori antichi rivitalizzati alla luce della tragedia moderna, il vagabondaggio lontano dalla patria. Le lacerazioni biografiche diventano lacerazioni mitiche (Gazzoni 2012), tradotte in una vicenda che attinge dalla memoria epica e dalle leggende di un popolo che ha mantenuto viva la propria eredità culturale solo grazie al racconto.

 

Come è stato notto da Andrea Gazzoni l’accento epico inizia ad essere pienamente visibile a partire da Corpo presente (1999). L’identità tra voce narrante e protagonista, il verso spezzato e disomogeneo, i riferimenti all’attualità politica e alla drammaticità del presente: è un’epica tutta nuova, che risuona di musiche e vicende lontane ma si realizza attraverso le forme della contemporaneità. Opera dopo opera emerge in misura sempre maggiore un patrimonio letterario e culturale dimenticato dal resto del mondo, una poesia antica e completamente nuova (vd. studi di U. Fracassa), in cui Hajdari si fa portavoce del popolo albanese, italiano, e dei popoli di tutto il mondo. Le forme dell’epica e della multiculturalità animano, infatti, la sua ultima raccolta di poesie: Delta del tuo fiume (Ensemble, 2015).

Mio Ulisse, / è il ventiduesimo inverno che navighi nei mari bui dell’esilio, / circondato dai canti mortali delle Sirene, / lontano dalle città deturpate della tua Albania / che divora i propri figli come Medea, avvolto da sconfitte, dolori, fame e solitudine.

 

Così inizia la poesia che dà il titolo al volume più recente di Gëzim Hajdari, portando con sé secoli di tradizione orale e patrimonio collettivo, ma in una veste nuova, contemporanea e mitica al tempo stesso. Una «Penelope shqiptar» intona il suo canto d’amore rivolto all’eroe lontano, disperso nell’esilio, «ex pastore di capre dei lidi balcanici», Ulisse/Gëzim. Il corpus epico albanese si unisce alla tradizione dei cantori greci e alla drammaticità del tempo presente, dando nuova vita a figure, gesti e azioni antiche da tempo abbandonate dalla scrittura poetica “occidentale”. L’«intentio epica» (Gazzoni 2010) si realizza attraverso un atto di fusione multiculturale, attingendo all’immaginario collettivo balcanico; ecco dunque che Gëzim e Ulisse, Penelope e la donna shqiptar, il Pireo e la Darsìa, le Erinni e le Zane, Itaca e l’Arberia convivono e vibrano all’unisono, accompagnate dal suono della lahuta.

 

Esodo albanese, 1992

 

Sullo sfondo dell’aspra natura albanese, l’universo mitico rievocato è quello della poesia eroica dei rapsodi in cui storia e leggenda, tradizione e mito sono fusi insieme. Hajdari diviene il portavoce dei popoli, canta l’uomo e il suo terribile destino, come un tempo il poeta epico cantava le vittorie e le sconfitte della comunità, e lo fa grazie a un elaborato recupero di narrazioni mitiche e storiche, insieme ai loro valori etici codificati dal Kanûn.

 

Ma gli apporti culturali della poesia hajdariana non si esauriscono nella ripresa di canti tradizionali.  Dietro la forma versificata del suo ultimo lavoro si cela un vero e proprio diario di viaggio. L’Europa, «vecchia puttana viziata», viene salutata per volgersi verso nuovi mondi: «Incendierò le vecchie lingue arrugginite, / mi scrollerò di dosso identità, cittadinanze e patrie matrigne». Privato della propria patria il poeta migra da un paese all’altro, da una lingua all’altra, e mescola la propria identità e la propria eredità con quella di altre terre e popolazioni. La lingua non è più doppia (italiano e albanese) ma assume, di volta in volta, l’idioma delle nazioni con cui entra in contatto. La mimesi di temi e motivi di poesie tradizionali si accompagna alla sperimentazione di nuove sonorità, date dalla fusione di kiswahili, bambara, turco, tagalog, luganda, lingue lontane e sconosciute. Nella sua pluralità, nel suo ricorrere alla varietà delle tradizioni popolari, la poesia hajdariana è certamente da definirsi una scrittura mediatrice: l’atto della migrazione poetica, proprio in virtù dell’assenza del medium linguistico-culturale del traduttore, permette di costruire un ponte tra la terra (lingua) di origine e quella di arrivo. È proprio grazie a questa via preferenziale che la nuova letteratura migrante fornisce nuovi stimoli alla nostra cultura e contribuisce, allo stesso tempo, a definire un’idea nuova di letteratura mondiale. «È la dimostrazione che l’arte, e la poesia in particolare, ci rendono capaci di oltrepassare i confini», ci ricorda Hajdari. «Non è un tradimento ma un arricchimento. È il punto di partenza per un dialogo vero che abbatta tutti gli steccati nazionali e territoriali. Poiché tutti siamo migranti, lo siamo stati e la storia lo ricorda continuamente. Noi europei in particolare siamo nati da mescolanze continue di popoli e culture. Il nostro sangue è impuro e, per questo, più ricco».

 

 

 

Nota bibliografica

Elvira Dones, Vergine giurata, Feltrinelli, Milano 2015.

Andrea Gazzoni (a cura di), Poesia dell’esilio. Saggi su Gëzim Hajdari, Cosmo Iannone Editore, Isernia 2010.

Gëzim Hajdari, Nûr. Eresia e besa, Edizioni Ensemble, Roma 2012 (Postfazione di A. Gazzoni).

Gëzim Hajdari, Delta del tuo fiume, Edizioni Ensemble, Roma 2015.

Ismail Kadare, Eschilo, il gran perdente, Edizioni Controluce, Nardò 2008.

Donato Martucci, (a cura di), Il Kanun di Lek Dukagjini. Le basi morali e giuridiche della società albanese, Besa Editrice, Nardò 2009.

Gaetano Petrotta, Studi di storia della letteratura albanese, A.C. Mirror, Palermo 2003.

Giuseppe Schirò, Storia della letteratura albanese, Nuova Accademia Editrice, Milano 1959.

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