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Diario 6 / Tutti i giorni sono tempo di bilancio

13 Maggio 2020

Prima settimana di parziale riapertura e già è tempo di bilanci. In realtà tutti i giorni è stato tempo di bilanci: due mesi e mezzo di bilanci appesi ai numeri. 

Numeri che si sono rivelati non del tutto affidabili ma, pazienza, su qualcosa devi pure basarti. “È solo la punta dell'iceberg,” ci hanno ripetuto. E l'iceberg, minaccioso, sembrava essere proprio lì, fuori dalla finestra, pronto a speronarci.

 

Nei primi giorni della settimana si scatena di nuovo una polemica: sono stati beccati, fotografati e ripresi in video, dei giovani sui Navigli che bevevano delle birrette. Giovani, birrette, mascherine calate (ti credo, per bere): apriti cielo! Si ri-scatena l'inferno. Il sindaco si ri-incazza, il resto d'Italia geme che tutti stanno chiusi per colpa della Lombardia e i soliti stronzi lombardi se ne sbattono e sbevazzano. Riparte tutta la polemica, come in un format che settimana dopo settimana trova nuovi accusati (ma gli accusatori sono sempre, più o meno, gli stessi). Insomma, si rivedono scene già viste da cui sembra che non si impari mai: da una parte cittadini messi sul banco degli imputati, dall'altra amministratori che non sanno che pesci pigliare ma che in compenso sanno benissimo surfare sulle onde dell'indignazione, dello scandalo facile, del paternalismo. Déjà vu. Qualcuno, su facebook, mi scrive “è un format”. Sì, è vero: è un format già visto, la settimana scorsa con i ballerini, quella prima con i vacanzieri, quella prima ancora con la passeggiata. Abbiamo anche il titolo del format: “I runner” (immagino la prossima maratona intitolata a Gian Giacomo Mora, da corrersi con guanti e mascherine fra il Ticinese e Porta Venezia). 

Viste già pure le foto schiacciate, con la prospettiva e il punto di vista giusti, con tre ponti che nelle realtà distano centinaia di metri e nel francobollo video sembrano tutti appiccicati. Un collettivo di fotografi danesi ha anche spiegato come basta poco per farti vedere quello che vogliono farti vedere, con tanto di esempi e confronti. Ingannevole è l'obiettivo più di ogni altra cosa, se si tratta di panoramiche, campi e angolature.

 

A proposito di colonne infami e capri espiatori e mostri del giorno, capisco l'ansia, capisco il bisogno di spalmare le paure del virus, le preoccupazioni per il lavoro, la frustrazione della cattività, sull'altro, sul vicino, su quello che non fa tutto bene “come dico io”. Che occupa le strade “che vorrei occupare io”. Che entra nella foto “che sto facendo io”. Che non protegge gli altri “come li proteggo io” (certo, come no). Cioè, capisco tutto, ma non lo condivido. Se c'è un livello di intolleranza – di tutti – e a questo punto anche mio/io, mi sa che siamo sul picco estremo. Spero che da adesso in poi anche questo cominci a calare. Di sicuro, questi tremebondi e incerti giorni di inizio di riapertura potrebbero essere i peggiori. I più inveleniti, lividi, terrorizzati.

Se qualcosa può andare male per il futuro, è adesso. Il timore che tutto ricominci, come prima.

 

“Il popolo ha paura.”

“Dategli delle mascherine.”

Anzi, no. Se le compri, il popolo. Non si trovano? Se le faccia. All'aperto non servono? Non importa, intanto fai vedere che qualcosa stiamo facendo. Anzi, abbonda: mascherine e guanti.

Entro in tre negozi – il minimarket, lo spaccio di detersivi, la parafarmacia - e in tutti e tre c'è gente che chiede se ci sono guanti. La cassiera, stanca, dice che guanti e alcol sono spariti da un bel po' e non sono mai ricomparsi. Fa caldo e lei passa la merce con i guanti. “Deve essere terribile portarli per ore,” le dico. Mi racconta che ha le mani tutte ferite, sotto, perché la pelle si secca e a fine giornata è difficile anche solo tirarli via.

 

Il paese intero ha sofferto, investito dalla decisione di serrata generale, ma le zone colpite in pieno hanno sofferto lutti, paura e la percezione dell'iceberg vicino, alla deriva, che da un momento all'altro poteva emergere e venirsi a schiantare contri vetri delle finestre con affaccio sulle vie. “La battaglia di Milano”, l'ha chiamata l'epidemiologo Galli. “Dobbiamo proteggere Milano,” ha ripetuto: la scommessa è quella. Mi pare lo dicesse attorno alla metà di aprile, quando il morbo infuriava nella bergamasca ma sembrava restare in un'imprecisata cintura, o bretella, delle direttrici Milano-Bergamo, Milano-Lodi.

Poi quella formula non l'abbiamo più sentita. E intanto le cifre cominciavano a impennarsi anche su Milano e “provincia”. La provincia è grande, ci si rassicurava. E non si capivano quanto di quelle cifre fossero attribuibili a Milano città e quante alla provincia. 

 

Opera di Rala Choi.


Questa settimana è uscita sui giornali una mappa dei contagi a Milano, con tinte che vanno dal rosa chiaro al bordeaux. Le zone più attaccate sono quelle a nord della città, le zone sud sono arancioni, il centro pare essere abbastanza salvo. Le interpretazioni sono che il centro è risultato più protetto in quanto sede di uffici e attività (tutto chiuso) o di residenti ad alto reddito, prova che, dice l'epidemiologo della Statale Carlo La Vecchia, “come in ogni epidemia le classi economicamente più agiate vengono maggiormente risparmiate”. I quartieri più colpiti sono quelli a più alta densità abitativa, dove c'è molta gente che non ha mai spesso di lavorare, e che si trovano a contatto con le zone più produttive. Una fotografia dell'epidemia che “non è una livella” e che ci si aspettava ma che comunque colpisce.

Un giorno qualcuno riprenderà in mano queste “info-grafiche” che ci accompagnano dall'inizio. Ogni sera consulto quelle del Sole 24 ore, con i dati freschi di giornata proiettati in curve a pallini, colonnette, onde. Il grafico delle chiamate al 118 per “motivi respiratori o infettivi”, in quattro colori, adesso ricorda il profilo del Duomo, sia come forma che come simmetria dei pinnacoli. 

Il trend giornaliero dei tamponi sembra un sismografo, o un elettrocardiogramma, della regione, della città.

 

Cos'ha questa città, con l'epidemia, un rapporto speciale? Tutta colpa del Manzoni? Del suo romanzo-inchiesta Storia delle Colonna Infame che ho fra le mani, appena ripubblicato da Sellerio? Di I promessi sposi che ogni studente italiano deve conoscere e portare all'esame? Del Lazzaretto? Dei nomi dei suoi medici su ogni via del quartiere? 

 

Che poi, a ben guardare, ogni città e paese ha le sue storie d'epidemia, rimaste nella toponomastica, nei bassorilievi delle chiese, negli ex voto, nei libri custoditi nelle biblioteche storiche e civiche. Leggo su Scienzainrete un pezzo di Gilberto Corbellini, si intitola “Storie di epidemie e di Covid-19: meno narrazioni e più storie naturali”. Peste e influenza spagnola sono stati i riferimenti più ricorrenti in questi mesi, anche a livello di letture, di ricordi, di suggestioni. Corbellini spiega che le differenze politiche, sociali, demografiche, mediche ed economiche non permettono confronti scientificamente attendibili con le epidemie del passato. E dunque quelli fatti da molti altro non sono che “esercizi speculativi”. 

Resta il fatto che la quarantena, antico provvedimento quasi medievale, ci ha riportato lì: alla serrata, alla ritirata, al buio e alla tana.

Sento una trasmissione di Radio3Scienza sulla spagnola, con ospite Eugenia Tognotti, docente di Storia della Medicina dell'Università di Sassari e autrice del libro La “spagnola” in Italia. Storia dell'influenza che fece temere la fine del mondo (Franco Angeli). Di nuovo la storia, con i suoi documenti e le testimonianze, dunque anche le narrazioni. Penso alla memoria, che sta prendendo forma, alla velocità della luce, in questi giorni: giorni fermi e chiusi, eppure velocissimi, incredibilmente dinamici su informazioni, lezioni, evoluzioni. Penso a quello che si sta imparando a livello medico e scientifico, a quello che stiamo sperimentando tutti, nel nostro piccolo, a livello sociale, psicologico, politico, storico. 

 

La consapevolezza che questi mesi resteranno nella storia, nella storia del mondo. Nei libri di tutti i tipi. Nei siti. In quello che verrà studiato.

Un secolo fa, la Spagnola. E ancora resiste nella memoria di tanti, nelle storie familiari, nelle narrazioni: nel mio paese, per esempio, c'è il teatro del paese alto che è stato riaperto solo di recente e la sua storia è rimasta nella memoria collettiva e anche negli opuscoli del Comune. Era stato chiuso a causa della Spagnola, appunto, e i suoi arredi erano stati usati per costruire le casse da morto visto che il legno non bastava più. Era rimasto senza panche, senza palcoscenico. 

Teatri chiusi, cimiteri pieni, famiglie decimate.

La professoressa, in radio, ricorda che per costruire le bare furono anche usati i mobili di casa.

 

Dell'epidemia di Covid-19, lo sappiamo già, resterà la foto dei camion militari che lasciano Bergamo nella notte carichi di morti. 

Resteranno gli errori, i sacrifici, i danni, i numeri, gli eroismi.

Resteranno alcune facce, alcune maschere (e mascherine), parole, storie, inchieste, forse processi. 

Bisognerebbe pensarci più spesso, a quello che resterà: anche quello entrerà nel bilancio.

 

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