Gianfranco Pacchioni / L’ultimo Sapiens. Viaggio al termine della nostra specie

15 Marzo 2019

Nel gennaio 1987, quando Einaudi decise di ripubblicare dopo 16 anni Vizio di forma, Primo Levi scrisse all’editore una lettera, rallegrandosi che venisse riproposto «il più trascurato» dei suoi libri, e che alcune delle più fosche previsioni contenute in quei racconti non si fossero avverate (prima fra tutte, la catastrofica ipotesi di un improvviso aumento della viscosità dell’acqua). Altre invece erano divenute, nel frattempo, realtà: o almeno, apparivano prossime alla realizzazione.

Gianfranco Pacchioni, docente di chimica all’Università di Milano Bicocca, scienziato attento sia agli aspetti organizzativi della ricerca sia alle ricadute sociali delle scoperte scientifiche, è ritornato sui racconti d’invenzione di Primo Levi – segnatamente su Storie naturali (1966) e Vizio di forma (1971) – usandoli come lente per mettere a fuoco alcune delle più produttive linee di ricerca della scienza e della tecnologia contemporanee. Ne è risultato un libro vivace, inquietante e istruttivo: da un lato un omaggio al grande scrittore torinese, che ha dato prova di una lungimiranza a volte davvero straordinaria, dall’altro un aggiornamento sul nostro presente e soprattutto sul nostro futuro prossimo che non può non destare sconcerto. Il senso complessivo delle trasformazioni e innovazioni in atto è annunciato dal provocatorio titolo L’ultimo Sapiens, doppiato dalla céliniana specificazione Viaggio al termine della nostra specie. La premessa, affidata a Telmo Pievani, certifica che proprio di questo si tratta: stiamo procedendo a velocità inaudita verso una soglia evolutiva oltre la quale Homo sapiens sarà diventato qualcosa di diverso da ciò che è oggi. 

 

Da un certo punto di vista, la parola-chiave di questo libro non è però un sostantivo, e nemmeno un verbo, bensì un aggettivo: «esponenziale». Quale che sia l’esito dei mutamenti in corso, un dato è certo: l’incremento nella rapidità della loro progressione. Assuefatti a ritmi di crescita lineari, stentiamo non tanto a cogliere le singole novità (spesso assai vistose), quanto a ponderarne le ripercussioni sulla vita individuale e collettiva (che è invece il punto di forza della letteratura di anticipazione). Indispensabile è un rapido sguardo retrospettivo. Negli ultimi duecento anni la vita è cambiata più di quanto non fosse avvenuto nei precedenti diecimila: nell’agricoltura, nell’industria, nel commercio, nei trasporti, nelle comunicazioni. E negli ultimi tre o quattro decenni, gli sviluppi dell’elettronica, della telematica, delle nanotecnologie, della biotecnologia sono stati impetuosi. A che punto siamo, oggi? Pacchioni ci fornisce una sorta di stato dell’arte, nella forma di omaggio all’acume di Primo Levi.

Nel racconto A fin di bene Levi immagina che la rete telefonica, raggiunto un certo grado di complessità, cominci a prendere decisioni autonome. Tale è la frontiera degli attuali studi sull’intelligenza artificiale. Molti ricordano la partita a scacchi giocata a New York nel 1997 in cui il calcolatore Deep Blue sconfisse il campione del mondo Garry Kasparov; ai più è invece sfuggito l’episodio analogo che ha visto il campione del mondo di Go (un antico gioco da tavola cinese) soccombere di fronte a un supercalcolatore sviluppato da Google, evento notevolissimo, perché il Go si gioca su una griglia di 19 caselle per lato, molto più grande di una scacchiera. In altre parole, Deep Blue poteva calcolare tutte le mosse possibili; AlphaGo no, perché il loro numero è inarrivabile (si parla di 10172). «Allora cosa si può fare? Semplice, insegnare al computer a giocare, e non solo a calcolare le mosse»: a comportarsi cioè come un essere umano.

 

 

Un passaggio assolutamente decisivo. La differenza fra i computer classici e le reti neurali artificiali elaborate dalla ricerca contemporanea è che queste ultime apprendono con l’esempio, e quindi possono fare anche cose per cui non sono state programmate; le possibilità che sfuggano al controllo umano sono quindi tutt’altro che remote. Se a questo si aggiungono le favolose prestazioni alla portata dei quantum computers, cioè dei computer quantistici (fra poco cominceremo a sentirne parlare) c’è davvero di che preoccuparsi. 

 

Un paio di racconti di Storie naturali hanno per oggetto il Mimete, un duplicatore tridimensionale che anticipa con straordinaria esattezza il funzionamento delle stampanti 3D, avventurandosi sul terreno della replicazione di organismi viventi (dopo avere sventatamente duplicato la moglie, un utente spregiudicato decide di cavarsi dagli impicci duplicando sé stesso). Oggi l’ingegneria tissutale o medicina rigenerativa consente di creare organi artificiali completamente biologici, con benefici che è facile intuire, almeno finché ci si limita alla lotta contro patologie o lesioni. La possibilità di biostampare un rene risolverà il problema dei trapianti; con «un mix di polimeri e materiali inorganici biocompatibili sarà possibile generare articolazioni, tarsi e metatarsi, tibie e rotule producendo pezzi su misura». Ma come fermarsi? Oltre che per combattere le ustioni, la futura pelle sintetica verrà usata per ovviare alle conseguenze dell’invecchiamento (il colosso della cosmesi L’Oréal ha già un contratto con Organovo: fatevi un giro in rete e vedrete di cosa si tratta). Altro che botulino o lifting: una biostampante potrà rimpiazzare le cellule vecchie e spalmarci sul volto la pelle di un giovane. Il mito dell’eterna giovinezza si direbbe a portata di mano – specie se si sarà avuta la precauzione a diciotto o vent’anni di scansionare i propri lineamenti. 

 

Un altro campo dove le ricerche stanno bruciando le tappe è quello delle nanotecnologie. Ispirato dalle scoperte di von Frisch sul linguaggio delle api, Levi aveva ipotizzato in Pieno impiego l’utilizzo (su base negoziale) degli insetti in attività di interesse economico. Nei fatti, la ricerca non ha coinvolto organismi viventi, ma sulla riduzione delle dimensioni ha puntato risolutamente, passando in poco tempo dallo stadio «milli» e «micro» (un millesimo e un milionesimo di metro) allo stadio «nano» (un miliardesimo di metro). La suddivisione della materia in parti sempre più piccole è alla base della «prima rivoluzione nanotecnologica», a cui dobbiamo i computer, internet, gli smartphone, le auto a guida semiautomatica, la domotica. Nel 1971 venne fabbricato un processore che conteneva 2000 transistor; oggi, in pochi millimetri quadrati è possibile stivarne due miliardi. E non basta: siamo ormai alla vigilia di un capovolgimento dell’approccio, cioè al passaggio dall’orientamento top-down (dal grande al piccolo), all’orientamento bottom-up: la costruzione partirà cioè dagli atomi e dalle molecole. E si profilano all’orizzonte macchine molecolari in grado di eseguire sofisticatissime operazioni sulle nostre cellule, frutto della convergenza di biotecnologie e nanotecnologia 2.0.

 

Il «Calometro», il misuratore della bellezza immaginato da Primo Levi, non è mai stato realizzato; o meglio, non è stato approntato un dispositivo mirante a classificazioni estetiche. Ma seguendo lo stesso procedimento, le ultime generazioni di iPhone e iPad già si attivano grazie al riconoscimento facciale (Face ID), mentre lo sviluppo delle tecniche di neuroimmagine indagano il funzionamento del cervello con un’accuratezza impensabile fino a pochi anni fa. E più cose apprendiamo sulle basi fisiologiche di emozioni e pensieri, più aumentano le possibilità di influenzarli e modificarli. Il passo successivo è l’interazione cervello-macchina. Da un lato, si aprono possibilità inedite di ovviare a danni o minorazioni: braccia artificiali possono essere mosse da impulsi cerebrali. Dall’altro, è impossibile non pensare al processo inverso: un organismo biologico controllato da un computer. 

Il racconto conclusivo di Storie naturali, Trattamento di quiescenza, parla di un «total recorder» (Torec) che consente di rivivere esperienze vissute da altri con assoluta verosimiglianza. Da allora i dispositivi che simulano la realtà hanno compiuto passi da gigante. Le vendite di visori per realtà virtuale hanno raggiunto 12 milioni nel 2018; questa cifra è destinata a moltiplicarsi rapidamente, e ai visori si aggiungeranno occhiali e lenti a contatto. La diffusione di interfacce cervello-macchina renderà sempre meno ovvio il confine tra realtà e finzione. 

 

Nel corso della trattazione – da cui ho solo ripreso sparsi spunti – il tono di Pacchioni oscilla tra la fascinazione e l’allarme. Non troppo diverso, in realtà, era l’atteggiamento di Primo Levi: a un vivo e ammirato interesse per le conquiste della scienza faceva riscontro la consapevolezza delle conseguenze possibili: in particolare, dei pericoli derivanti dallo squilibrio fra le potenzialità operative umane, vertiginosamente incrementate dal progresso tecnico, e i meccanismi morali di controllo, immutati rispetto alle epoche ancestrali in cui sono stati lentamente elaborati. Su quest’ultimo aspetto Pacchioni non si pronuncia: l’accento batte sull’effetto combinato di tutte le innovazioni in corso, e si attiene a un registro espositivo, anche quando dall’informazione passa ai pronostici.

Non di meno, la conclusione ha un sapore inevitabilmente apocalittico. Pacchioni immagina un mondo diviso. Da una parte gli umani supertecnologici, i Tecno-sapiens, abitanti le regioni più avanzate del pianeta, che grazie ai costosissimi ritrovati della ricerca sono in condizione di potenziare le proprie capacità fisiche e mentali, di controllare e dominare la realtà circostante, di vivere vite indefinitamente lunghe; dall’altra i Vetero-sapiens, sempre più arretrati e dipendenti, sempre meno necessari. Un finale che richiama alla mente un classico della distopia, Il mondo nuovo di Aldous Huxley. Diventeremo davvero così? Umani parzialmente artificiali, geneticamente manipolati, rinnovati periodicamente nei tessuti e negli organi, interconnessi con reti neurali computerizzate, immersi nella realtà virtuale, ibridi tecnologici, cyborg? Prima di rispondere, credo che sia utile domandarci innanzi tutto che cosa siamo diventati già, rispetto ai nostri predecessori. In secondo luogo, sarà bene interrogarsi su quale peso hanno, nel nostro essere umani, il rapporto con i nostri simili, la dimensione sociale dell’esistenza, la qualità delle relazioni che intratteniamo con chi ci sta intorno – senza aspettarci che sia un calcolatore a darci una risposta. E anche su questo Primo Levi avrà molto da dirci.  

 

Gianfranco Pacchioni, L’ultimo Sapiens. Viaggio al termine della nostra specie (Il Mulino, pp. 214, € 15).

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