26 gennaio 1940 - 11 ottobre 2019 / Ettore Spalletti: dare voce al silenzio

4 Novembre 2019

Con Ettore Spalletti se ne va un caro amico, uno degli ultimi grandi artisti della nostra generazione che ha visto da Piero Manzoni a Giulio Paolini, da Pascali a Lo Savio, da Merz a Fabro, da Castellani a Cattelan, un numero impressionante di giganti: sicuramente il XX Secolo è stato per l’Italia uno dei più fertili e importanti.

L’Italia non finisce mai di stupire. Sempre sul punto di affondare ma all’ultima curva, alla parabolica, spunta Lei, anzi lui, il nostro stivale, cui la forma attribuisce un carattere molto particolare.

Sembra che un gigante si sia divertito a plasmarne le coste per farne un pezzo di terra con la forma di uno Stivale.

 

Una volta Luciano Fabro ha scritto (cito a memoria): “Amo chi ama la forma dell’Italia”.

Mi chiedo: e se fosse stato Dio che, nei giorni della Creazione, stufo di tanto lavoro, si è divertito a fare l’Italia cosi? In fondo se ciò che si dice è vero, per lui era un gioco da ragazzi. Un po’ come Zeus, prendi un fulmine e zot! Fatto il Gargano. Altro fulmine e zac! Le Alpi spuntano a proteggerci dai venti gelidi. E così via.

Poi certamente, osservando la Terra, Dio o forse Jahvè decide di prender casa e dove va? Ma a Roma, che diamine! Mica poteva scegliere il Ciad.

Guardando indietro ormai vediamo chiaramente cosa abbiamo fatto, come e perché.

È la terza volta che l’Italia si colloca ai primi posti nelle classifiche mondiali:

ai tempi di Roma con le guerre e l’Impero conquistiamo il mondo;

ai tempi dei Medici con il Rinascimento conquistiamo il mondo;

ai tempi miei e vostri, miei trentasei lettori, con un secolo strepitoso che va da Adolfo Wildt a Spalletti appunto, da Medardo Rosso a Mario Merz, da Umberto Boccioni a Boetti conquistiamo il Mondo dell’arte.

 

Ma forse abbiamo fatto troppo: di tutto e il contrario di tutto; abbiamo prodotto immagini strabilianti e invasive, abbiamo portato avanti quel vizio dell’horror vacui che fa dello stivale il deposito di milioni di pezzi d’arte, in una sovrapposizione che è allo stesso tempo la gioia degli archeologi, l’adrenalina dei tombaroli, la complessità per gli storici che cercano di dipanare questa matassa imbrogliata che è l’Italia.

 

Ettore Spalletti, Cappella di Villa Serena, Obitorio di Villa Serena 2017. Ph. Ela Bialkowska and Ilan Zarantonello, OKNOstudio.


La figura di Ettore Spalletti si staglia invece per il motivo opposto: lui praticava l’immobilità e attendeva che il suo rarefatto lavoro sortisse i suoi effetti. Abbiamo avuto condizioni ottimali per produrre, inventare, cambiare le carte in tavola. Abbiamo avuto settant’anni senza guerre, accumulato ricchezze enormi, assistito a cambiamenti incredibili.

Ecco, Ettore Spalletti ha vissuto per 79 anni controtendenza, in un piccolo paese dell’Abruzzo, fuori dal mondo e ha invitato il Mondo a passare di lì, da Cappelle, da Spoltore, da dove si vede il Gran Sasso che qui chiamano la bella addormentata perché da un certo punto il profilo della montagna assume le forme di una ragazza distesa che dorme.


Accompagnato in questo da un altro grande: Giulio Paolini anche lui e da sempre sul sottilissimo confine dell’opera possibile ma improbabile. Anzi un’opera che, per i suoi esegeti, non avrà mai luogo perché il luogo è l’opera stessa o comunque il momento fondativo, l’attesa (e qui viene Lucio), le attese.

Sovente le opere di alcuni artisti di questa generazione sono parlate, non a caso la corrente fu denotata come ‘concettuale’ ponendo l’accento e l’attenzione sul processo di formazione del lavoro, sui suoi contenuti mentali. (Sia detto tra parentesi tutta la grande arte è concettuale. Quella che non lo è  non è arte, semplicemente.)

Ettore abitava dunque in Abruzzo, una terra delicata, come nelle fotografie di Mario Giacomelli, una regione appartata, ma era in contatto col mondo, con le grandi idee del suo tempo, non era un naif di paese, ma un fine intellettuale formatosi a Roma, in stretto contatto con il milieu generato da Ennio Flaiano.

 

Ettore andava a nozze con queste favole di paese, che lui sapeva trasformare in Mito. Alla fine ci metteva sempre un trattenuto sorriso di complicità con un "no?" che in realtà era un "sì!", un "no" che ti obbligava ad acconsentire. A cosa dovevamo consentire? Al Nulla, che poi è il Tutto, quello di Boetti, è Entrare nell’opera di Giovanni Anselmo, Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Paolini, le Attese di Lucio Fontana, Contatto di Fabro, Soffio di Icaro, Otto e mezzo di Fellini, Candido di Sciascia, la scatoletta di legno di Joseph Beuys, con scritto "intuition", la sparizione di Ettore Majorana, Vieni via con me di Paolo Conte, L’infinito di Fausto Melotti, col ricciolino lassù, il codino di Ettore Sottsass, Le degré zèro de l’écriture di Roland Barthes.

 

Un lavoro di decostruzione, di azzeramento dei linguaggi, e Spalletti è riuscito nella difficile impresa di dire di più concedendo meno: il grado zero della scrittura pittorica.

Le sue superfici poeticamente polverose come armadi con i ricordi di famiglia hanno affascinato musei, critici, collezionisti per la delicatezza delle sensazioni che da loro promanano.

Ettore è riuscito nella difficile impresa di dare voce al silenzio, o se preferite di ridurre al silenzio le voci. Una vetta raggiunta con la ripetizione continua di un’idea poetica, semplice come un canto gregoriano giocato su minime impercettibili variazioni.

Spalletti è stato un grande artista della galleria e un caro amico di famiglia. Il primo se ne è andato verso altri lidi, altre gallerie, come sovente capita. Il secondo è rimasto vicino e ci sentivamo, regolarmente, anche se con una cadenza lenta come il suo parlare, profonda come i suoi sguardi ironici (dopo affermazioni apodittiche e senza scampo), per vedere l’effetto delle sue parole sullo stupito, paziente ascoltatore.

 

Massimo Minini è uno dei più importanti galleristi italiani. Attivo dal 1973, ha scoperto, sostenuto e  collaborato con molti degli artisti più importanti degli ultimi cinquant'anni, da Boetti a Paolini, Fabro, Garutti e Cattelan, tra gli italiani, e da Buren a Kappor, Feldmann, LeWitt e Lavier tra gli stranieri, per citarne solo alcuni. Nel 2013 la Triennale di Milano gli ha dedicato una mostra accompagnato dal volume Massimo Minini. Quarant'anni 1973-2013 (a+mbookstore edizioni, 3013, pp. 454)  e ora lui ricambia donando all'istituzione il suo archivio, mettendolo così a disposizione di studiosi e studenti.

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