Elogio del pensiero critico

9 Maggio 2014

C’è una crisi ben più profonda di quella economica, che sta attraversando il mondo e che ne sta compromettendo il futuro: è la crisi dell’istruzione. Da questa osservazione prende le mosse Martha Nussbaum nel saggio Non per profitto, che offre un’ampia disamina sullo stato e sulle tendenze dei sistemi educativi e sulle ripercussioni che la deriva in atto è destinata a produrre sullo sviluppo democratico delle società.

 

L’analisi della Nussbaum è condotta sui sistemi educativi degli Stati Uniti e dell’India, due paesi caratterizzati da significative differenze sul piano culturale e dello sviluppo socio-economico, ma in cui è possibile ravvisare la comune tendenza a ridurre sempre più lo spazio dedicato alle materie umanistiche in tutti gli ordini di istruzione e nel finanziamento dell’attività di ricerca. Lo scopo è quello di mostrare come si stia delineando un’epocale crisi di civiltà, tale da mettere in discussione le conquiste della democrazia sulla base delle quali si è plasmato il modello di sviluppo delle nazioni più avanzate. La visione che negli ultimi decenni si è andata affermando consiste nel considerare il prodotto delle attività economiche – sintetizzato nell’indicatore del Pil – l’obiettivo fondamentale dello sviluppo, al cui raggiungimento debbono tendere le politiche dei diversi paesi. La massimizzazione della crescita economica assicurerebbe peraltro il raggiungimento di tutti quegli obiettivi di benessere diffuso e di equità dei quali un reale processo di sviluppo deve essere portatore. Da ciò discenderebbe la necessità da parte di ciascun paese di concentrare l’impiego delle risorse disponibili in attività strettamente connesse alla crescita economica, rese per lo più possibili dal possesso di competenze di natura tecnico-scientifica. Investire in attività in cui debbono essere messe in campo competenze di tipo umanistico andrebbe invece a detrimento di questo obiettivo, motivo per cui un consistente ridimensionamento della spesa destinata ai settori delle discipline umanistiche risulterebbe tanto giustificato quanto auspicabile.

 

Ma la tesi che la crescita economica è portatrice di benessere ed equità è immediatamente smentita dai fatti – sottolinea la Nussbaum. Non vi sono che scarse correlazioni tra le conquiste del welfare e la crescita economica, né c’è modo di riscontrare un collegamento sistematico tra crescita economica e livello di democrazia dei paesi. A questo modello la Nussbaum contrappone quello dello “sviluppo umano”, in base al quale «ciò che è davvero importante sono le opportunità, o “capacità”, che ogni persona ha in ambiti chiave che vanno dalla vita , salute e integrità corporea alla libertà politica, partecipazione politica e istruzione. Tale modello di sviluppo riconosce che tutti gli individui posseggono una dignità umana inalienabile che dev’essere rispettata e tutelata da leggi e istituzioni. Una nazione decente riconosce come minimo che i suoi cittadini hanno diritti in questi e altri ambiti, e implementa strategie che portino ogni persona a livelli di opportunità accettabili.»  

 

E la condizione imprescindibile perché un modello di questo tipo possa realizzarsi, è quella di coltivare le discipline umanistiche, poiché è grazie ad esse che può formarsi nella popolazione quel “pensiero critico”, che consenta di contrastare le tendenze autoritarie e di favorire lo sviluppo di una società inclusiva, capace di rispondere alle sfide che la crescente complessità del mondo globalizzato pone di fronte.  Si tratta, in ultima analisi, – conclude la Nussbaum – di recuperare lo spirito della pedagogia di Socrate, orientato allo sviluppo del ragionamento e quindi idoneo a dotare la società di un vero e proprio di sistema di anticorpi contro qualsiasi forma di autoritarismo. Una pedagogia, quella socratica, che ha influenzato il radicamento della democrazia nel XX secolo non solo in Occidente (Europa e Nord America) ma anche in Oriente, come mostra l’esperienza condotta in India da Rabrindanath Tagore, intellettuale poliedrico nonché Nobel per la Letteratura nel 1913, che si fece promotore di vari istituti nei diversi gradi dell’istruzione, dalle primarie all’Università, di cui quest’ultima divenne l’asse portante.

 

Il fuoco di fila aperto contro le discipline umanistiche e contro l’uso del pensiero critico – che esse sottendono – appare dunque, secondo la Nussbaum, il sintomo di un manifesto regresso di civiltà, tanto più pericoloso quanto più si considerano le innumerevoli problematiche che il dilatarsi dei confini nazionali e i contorni sempre più intersecati dello sviluppo mondiale impongono di fronteggiare. L’attenzione dei governi e dei maggiori consessi istituzionali a livello internazionale appare, invece, spostarsi inesorabilmente verso un tipo di formazione tecnologica-scientifica che garantirebbe migliori performance economiche, ma che è anche meno attenta nel promuovere obiettivi di democrazia, persino quando – come è possibile riscontrare nei discorsi pronunciati dallo stesso Presidente Obama – si cita la necessità di un pensiero critico. Peraltro in tutte le procedure preposte alla valutazione delle conoscenze acquisite nei diversi livelli di istruzione (anche quelle tese ad accertare le competenze nei campi umanistici) si vanno sempre più radicando test di verifica a risposta multipla, idonei a rilevare la componente tecnica delle competenze, ma meno che mai adatte a cogliere la componente critica orientata alla formazione del pensiero.

 

 

A ben vedere la portata del messaggio della Nussbaum risulta ben più consistente se la lettura fa un passo in avanti, andando a cogliere tutta una serie di questioni, apparentemente tralasciate ma immediatamente chiamate in causa dalla sua complessiva riflessione. Quando viene sottolineata la necessità di una cultura umanistica per i fini della democrazia e si constata che alle discipline rappresentative di tale cultura sono progressivamente ridotti gli spazi a favore di quelle tecnico-scientifiche, l’impressione che se ne ricava è che venga di fatto assunta una frattura tra le due culture, che può riassumersi in una separazione dei fini a cui esse sarebbero funzionali e, in qualche modo (visto l’accento posto sul carattere riduttivo dell’obiettivo della crescita economica), nella definizione di una sorta di gerarchia di valori di cui sono portatrici. Ma se davvero così fosse (se cioè fosse stato nelle intenzioni dell’autrice porre una frattura tra le due culture) saremmo in presenza di una forte lacuna, tale da minare il valore del messaggio che si è inteso trasmettere.

 

Questa osservazione muove innanzitutto dal considerare che il sapere scientifico si è sempre più compenetrato nello sviluppo della società, arrivando a definire nel XX secolo i contorni di una “società della conoscenza” sempre più complessa (cfr. Andrea Cerroni, Scienza e società della conoscenza, Utet, Torino, 2006). Ma c’è di più. E’ fondamentale infatti guardare in termini assai più globali al concetto di cultura, così come efficacemente proposto dal genetista e antropologo Luigi Luca Cavalli Sforza nel saggio “L’evoluzione della cultura” (Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice, Torino, 2004). Scrive Cavalli Sforza: «La parola cultura ha molti significati. Vogliamo usare quello più generale: l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita. …[…]. L’evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o più, più esattamente, dall’accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate […] La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché.». Cultura, innovazione ed evoluzione del genere umano, sono dunque questioni inestricabilmente collegate e concorrono alla definizione di un solo sapere.

 

Ci sembra, dunque che, fatta salva la doverosa denuncia dell’attacco agli studi umanistici, l’elezione di un “pensiero critico” a salvaguardia di un corretto processo di sviluppo garante dei princìpi della democrazia, come esclusivo prodotto di elezione degli studi umanistici, sia da rigettare. E d’altra parte non è pensabile né una scienza che possa fare a meno di un pensiero critico, né una tecnologia riducibile a puro tecnicismo, come emerge nettamente dalla riflessione di Cavalli Sforza. Né è pensabile che le applicazioni scientifiche possano prescindere dalla capacità di sviluppare una scienza di base, stando a quanto sembrano invece implicare le forti decurtazioni nei finanziamenti che questa sta subendo in tutti gli ambiti disciplinari, e non solo in quelli umanistici (il recente Programma europeo Horizon 2020 in materia di finanziamento della ricerca ne è una conferma), come sostenuto dalla Nussbaum. Come più volte sottolineato da Paolo Sylos Labini, giova inoltre osservare che, diversamente dalle fasi originarie dello sviluppo industriale, nelle quali l’attività inventiva degli scienziati era il presupposto di una qualche “rivoluzione tecnologica” e l’aumento di efficienza del sistema produttivo appariva come l’esito dell’esplicarsi del potenziale innovativo di tale rivoluzione, il progresso tecnologico si è man mano imposto in forme assai più composite (cfr. Paolo Sylos Labini, Nuove tecnologie e disoccupazione, Laterza, Roma-Bari, 1989).

 

La possibilità di distinguere la natura “inventiva” del progresso dalla sua dimensione “innovativa” collegata al mercato, è divenuta sempre più sfumata, attenuando o, comunque, modificando di conseguenza l’importanza di quegli interrogativi intorno a questa distinzione che la riflessione economica aveva da tempo posto alla sua attenzione (cfr. Bruno Jossa, a cura di, Progresso tecnico e sviluppo economico, Franco Angeli, Milano, 1974). Si è attenuata, in questo senso, anche la portata di quella “visione paradigmatica” che anima le “rivoluzioni tecnologiche” (Franco Momigliano e Giovanni Dosi, Tecnologia e organizzazione industriale internazionale, Il Mulino, Bologna, 1982), mentre si è andato estendendo il dominio di una sofisticata “progettazione” tecnologica non collegata necessariamente alla base scientifica-culturale di un unico paradigma dominante e in grado di orientare l’affermazione di nuovi paradigmi. Il significato ultimo di “sviluppo tecnologico” che da ciò discende, trattiene perciò in sé una concezione molto ampia di sviluppo, nella quale trova spazio la possibilità di definirne gli obiettivi e di “progettare” le risposte più utili a soddisfarli. Per questo è innanzitutto auspicabile che si realizzi un cambio di prospettiva sui fini dello sviluppo, guardando alla necessità di assicurare tanto gli equilibri delle risorse materiali su cui è impostata la crescita economica, quanto il rispetto dei diritti umani, per arrivare finalmente a tracciare il percorso di una “società della conoscenza” che abbia nel “pensiero critico” la sua prima ragion d’essere.

 

Il presente articolo è apparso precedentemente su Roars che qui ringraziamo.

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