Speciale

L'ultima bicicletta

6 Novembre 2012

«Correre sulla bicicletta: ecco oggi il piacere. Si torna giovani, si diventa poeti». Così scriveva nei primi del Novecento Alfredo Oriani in un’accensione di retorica.
Non è stato proprio un volo d’uccello il mio primo incontro con la bicicletta. È coinciso piuttosto con una di quelle umiliazioni che bruciano di più perché inaspettate. Ci ho guadagnato una brutta caduta e una ferita lungo tutta la gamba sinistra.

 

Nei miei ricordi, dunque, all’inizio c'è una bici gigantesca e pesantissima, da inforcare tenendosi in equilibrio sul ripiano di un tavolo abbandonato sotto tettoia di eternit. Poi il tonfo sul selciato. Il pianto trattenuto, per orgoglio e timore. Infine la corsa nell’unico pronto soccorso del paese dove l’unico medico condotto, ormai quasi cieco, mi ha ricucito con quaranta graffette di ferro.
E però, sempre all’inizio, ci sono io che con la gamba fasciata riprovo a salire in bicicletta e pedalo storta nello spiazzo di scaglie di marmo. «Senza mani» e poi anche «senza piedi» sui pedali. Perché «se non cado così, non cado più», pensavo.

 

Solo alcuni anni dopo la bicicletta sarebbe diventata per me il mezzo di trasporto di chi aveva un «animo eroico». Fu quando vidi dei documentari sulla Resistenza. Immaginare le staffette partigiane che percorrevano in bicicletta l’Italia infestata di nazifascisti, se non hai avuto un nonno che ha partecipato alla lotta di Liberazione, e perdipiù sei nato in Sicilia, dove tua nonna semmai ti racconta del cioccolato degli americani, è un po’ come assistere alla Storia del tuo Paese al cinema: ti emozioni, ma senti che tutto è accaduto altrove. Perché, per i tuoi nonni, sarebbero suonate molto più vere le parole del Don Adelfio di Nuovo cinema paradiso: «All'andata è tutta in discesa e i Santi aiutano. Al ritorno, però, i Santi guardano e basta!»

 

Non stavano a guardare però i santi nel paese di mio padre, quando scoprii la politica, accompagnandolo nelle sue campagne elettorali per le amministrative, arrancando con la Cinquecento. Erano gli anni in cui in televisione davano gli episodi di Don Camillo. E io osservavo con sufficienza la bicicletta antidiluviana di quel parroco di campagna. Mi sembrava più un cavallo da soma, un mulo. Niente a che fare con le nostre fiammanti Grazielle.
Ora, non c’erano trattori sovietici da far benedire, né masse proletarie sul punto di una rivoluzione nel piccolo paese sul mare. C’era però, almeno in apparenza, tutta quell’aria accomodante e rassicurante di Guareschi. La contrapposizione politica era un po’ come la corsa in bicicletta del parroco e del sindaco comunista alla fine di Don Camillo e l’onorevole Peppone. Né sembrava così importante chi avrebbe vinto, in quel fazzoletto d’Italia dove le parrocchie e la famiglia (per dirla con Sciascia) contavano più dei partiti, così come i pacchi di pasta e i buoni di benzina distribuiti porta a porta per un pugno di voti, e dove i mammasantissima – incensati da tutti, con i parroci in prima fila – avevano più ascendente dei giovani professori come mio padre, che credevano di poter cambiare almeno il corso della storia di un piccolo paese, rilevante più di quanto non sembrasse negli assetti del potere mafioso italo-americano.
Se la generazione dei miei nonni si era divisa tra il mito di Coppi e quello di Bartali, e quella di mio padre tra la locomotiva di Guccini e le biciclette abbandonate sopra il prato di Battisti, la mia – nell’Italia livida e allibita dei primi anni Ottanta, l’Italia della strage di Bologna e dello scandalo della P2, – si ritrovò nel sogno condiviso di cinque bici in volo sopra San Francisco e attraverso il disco della luna per portare in salvo l’alieno Et. Biciclette che fecero sentire tutti noi in fuga dal mondo degli adulti, dal loro buonsenso o dalla loro feroce insensatezza. Perché forse a diciassette anni ci si sente più alieni che adulti. Per me, fu come tornare ad andare in bici «senza mani e senza piedi sui pedali», miracolosamente in equilibrio come solo nei sogni e nei libri che più mi appassionavano.

 

Non sapevo che dieci anni dopo avrei provato un altro genere di furore, più solitario e più simile forse a quello del piccolo Bruno di Ladri di biciclette nell’Italia di folle diseredate e di umanità spaesata del dopoguerra. Erano gli anni in cui scoprivo il Neorealismo e, intanto, giravo con la mia Legnano rossa per scrivere i miei primi pezzi per il giornale «L’Ora». E muoversi a Palermo in bici, nella città sfregiata dal «sacco» edilizio e da uno sviluppo urbanistico insensato, era come sperimentare quotidianamente l’arroganza dell’affarismo politico-mafioso in una città derubata. Era il ’92. L’ultimo numero dell’«Ora» sarebbe uscito il 9 maggio di quello stesso anno. Quattordici giorni prima della strage di Capaci.
L’ultima bicicletta che, in certo qual modo, accompagnò il mio congedo dalla Sicilia e la fine ingloriosa della Prima Repubblica fu quella del Postino (1994) di Massimo Troisi. La più malinconica. Con tutta la perdita del senso di noi stessi (e del nostro paese) che ne seguì.

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