Ricci/Forte: o della seduzione

10 Gennaio 2014

All’inizio colpiscono. Poi ci pensi su, proprio mentre stai ancora vedendo lo spettacolo, e ti accorgi che sei nel melò più impudico, quello che cerca di catturarti con effetti e insinuanti appelli liturgici alla tua buona coscienza civile. E sotto ti rimane poco, oltre ciò che già sai, banalità da giornali presentate in una forma che sembra trasgressiva ma che suona falsa. Ricci/Forte è una ditta che gioca a sedurre, accompagnando parole e azioni sotto fiumi di musica ritmata, molte volte un dance parecchio kitsch, sempre con i subwoofer che pompano verso le zone corticali.

 

Still Life, visto nei bolognesi Teatri di Vita, che continuano a richiamare la coppia di autori e i loro performer in virtù dei pienoni degli anni precedenti (ma quest’anno, prima  di Natale, si notava qualche vuoto in sala), sarebbe una conferenza emotiva contro l’omofobia. La scena è scarna, con due tavoli carichi di oggetti sui lati, una lavagna, due grandi ventilatori e soprattutto, sul fondo, una lunga spessa fila di lumini da morto. Cinque performer in scena, tre uomini (Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Francesco Scolletta) e due donne (Anna Gualdo, Liliana Laera), compresi nel ruolo di officianti di un rito civile, che in realtà serve poco a far capire, poco scava gli abissi, e si accontenta di dichiarare, mostrare, provare a coinvolgere.

 

 

Uno sciame di parole, all’inizio, nascono dal buio illuminato con pile, sovrapposte tanto che solo alcune di esse spiccano e si capiscono (amore… dichiarazione…ballare… il grande freddo…). Poi una lista di nomi proiettati sul fondale, di vittime dell’omofobia. E quindi storie di giovani caduti dal terzo piano per disperazione, dell’adolescente impiccatosi con una sciarpa rosa, di altri pestati per strada , di altri ancora aggrediti violentemente perché baciavano persone dello stesso sesso. “Nomi su nomi che domani non ricorderemo…” esclama uno degli interpreti, mentre si ripetono frasi del presidente Napolitano che dicono tutto e niente, ponziopilatesche asserzioni, e si racconta di necessità di attenzione alle persone. “A differenza del mondo animale nel mondo umano l’individuo conta più del genere” si legge, ancora, in uan delle proiezioni di scritte sul fondale che accopmpagnano lo spettacolo.

 

 

La violenza è, spesso, contro adolescenti che ancora non hanno neppure un’inclinazione sessuale precisa, fragili, indeterminati. Quattro interpreti si avvolgono in cuscini; l’altro li lega tra loro e poi taglia i guanciali scatenando una tempesta di piume, dalle quali i compagni appaiono con le maschere di Paperino e Qui, Quo, Qua. I fumetti, Facebook, i sentimenti: piccoli mondi intimi ritornano. Si racconta una storia turca, sul ponte del Bosforo. Uno in scena si spoglia nudo. Gli altri indossano scarponi e simulano, su una musica che pulsa insostenibile, di colpirlo. Gli stampano impronte sul corpo. Dalla bocca cola una fialetta di sangue finto. Ma l’azione non ha nulla della violenza gestuale, reale, di un Rodrigo García, al quale Ricci/Forte devono pure più di una suggestione. Se nei lavori dell’argentino gli attori si rovesciano nella farina e nel ketchup, si martorizzano con clisteri di cocacola, lasciano bruciare hamburger fino a che il puzzo non diventi insostenibile, affettano un’aragosta viva, qui è tutto messo in scena, finto. Prevedibile. Ballettistico, da varietà del sabato sera d’antan, tranne una minore sincronizzazione e un immaginario più dark.

 

 

I testi si dibattono tra poeticismi adolescenziali (“vorrei fare con te quello che la primavera fa con i ciliegi”), dichiarazioni dirette (“è il momento di incazzarsi”, “il suicido è una sconfitta per tutti”), banalità più o meno abissali (“col calciobalilla di ore sempre uguali”)... Si descrivono amori delicati e pestaggi, sempre con l’intento di strappare il cuore a chi è sensibile, già di suo, al tema. Liturgia che cerca un pubblico partecipe, che si lasci rapire in una qualche forma di transustanziazione. Non teatro (se non di convenzione aggiornata). E neppure performance radicale.

 

 

 

Marketing? Certo uno spettacolo che individua molte bene una fascia di pubblico (un “target”, un bersaglio da colpire, un fortino da espugnare) e procede senza risparmiarsi nulla, neppure la discesa in mezzo al pubblico a baciare spettatori dello stesso sesso (timidamente, con educazione, niente a confronto con la violenza antiborghese del Living Theatre delle origini). Più avanti i performer chiedono di alzarsi per lasciare scritto su un foglio bianco in scena il nome di qualcuno che è stato perseguitato, deriso, mobbizzato per la sue differenze. Lo spettacolo vuole conquistare, senza essere mai bello, mai profondo, mai veramente duro. Sembra l’avanguardia ai tempi dei talent show, Rodrigo García in qualche studio di Maria De Filippi.

 

 

Il fatto è che esiste un nuovo pubblico, giovane, che va a teatro per appassionarsi, per ritrovare temi che lo colpiscono. Sono spettatori che cercano sulla scena uno specchio a credenze e sentimenti, nonché una specie di surrogato dal vivo (quindi più forte emotivamente) della baby-sitter abituale, la televisione. Ricci/Forte fanno un teatro telenovela progressiva, con in più una messa in scena (una simulazione spesso annacquata) della trasgressione dell’avanguardia, dal Living e dalla body art in giù. Ma non gli credi.

 

 

Qualcosa del genere succede negli spettacoli di Filippo Timi: il suo ultimo Don Giovanni è una sgrammaticata antologia del kitsch applicata alla trama del libretto di Da Ponte per Mozart, con qualche inquietudine esistenziale propria. Al pubblico giovane piace, strapiace, perché si riconosce nelle battute continue, nella forma sgangherata, a sketch potremmo dire, nella caratterizzazione iperrealista e surrealista insieme dei personaggi, nello splendore della confezione, anche lì molto basata sulla musica (più sui costumi e i colori della scena, a differenza della nota più “minimale” del decor Ricci/Forte).

 

E tutto questo va decifrato. È una iattura per il teatro, per l’arte della profonda trasformazione capace di attingere regioni oscure, o è un segno di una sua metamorfosi, per sopravvivere, per ritrovare un senso, nell’età della superficie e della comunicazione veloce e distratta? Temi sui quali conviene tornare. Certo, dagli spettacoli di Ricci/Forte e di Timi si esce uguali a come si era entrati: confermano, invece di destabilizzare.

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