Io sono tropicale, metafisico, sovietico

24 Settembre 2014

Quinto appuntamento con le Bolle di Sapone di Michele Dantini, rubrica-inchiesta dedicata all’arte italiana contemporanea. In scena Marcello Maloberti. La riflessione sull’identità italiana e sui rapporti tra memoria e infrazione si riformula in una prospettiva inattesa: quella del rapporto tra immagini e parole. I bizzarri personaggi che Maloberti evoca in una raccolta di brevi testi, annotazioni e aforismi dal titolo Marcello: Scritti 1990-2014 gettano luce sui metamorfici smembramenti del Mito e insieme sulla ricerca, da parte dell’artista, di sentimenti o reminiscenze condivise. Marcello: Scritti 1990-2014 è anche il titolo della personale di Maloberti che si apre alla Galleria Raffaella Cortese, 24 settembre 2014; e a cui questa conversazione introduce.

 


 

 

Più vado a sud più vado a nord

 

Marcello Maloberti, Marcello. Scritti 1990-2014

 

 

Eccoci qua, a distanza di alcuni anni dai nostri primi incontri, prime discussioni, prime stesure. Ho trovato inventivo e spassoso Marcello. Scritti 1990-2014. E mi è parsa rilevante la scelta di presentarti in pubblico attraverso parole, non immagini. Una scelta che ha senso critico-istituzionale. “Basta circo basta!”, ripeti più volte. Le parole a tuo avviso mettono più a nudo delle immagini? Cos’è giunto ad atrofia?

 

Sai Michele, è venuto tutto in modo naturale. Bella la tua domanda. Non so dirti cosa mi metta più a nudo, tutto nel mio lavoro è diretto, spontaneo. Non riesco a fare classifiche, capisci? Con i miei scritti faccio un po’ come Baudelaire ne Il mio cuore messo a nudo, questo sì, ma non mi sono mai sentito uno scrittore. Ho sempre, al contrario, avuto il complesso di non saper scrivere. Nonostante questo, nel mio lavoro, come sai, i titoli, le combinazioni di parole hanno sempre avuto una grande importanza, così come le immagini. Da sempre archivio frasi, in questo caso ho semplicemente sentito il bisogno di una mostra nuova, una specie di stanza-cervello in cui mettere in primo piano le parole. Le considero immagini assenti alla base di ogni mio progetto, soprattutto in questo periodo. Sia le immagini sia le parole per me sono sintesi, non posso farne a meno. Non raggiungo però l’atrofia, anche con le parole favorisco un flusso che non esclude sovrapposizioni e accumuli. Le parole fanno molto male, sono come dei pugni. Rispetto ai miei lavori precedenti, Marcello ribalta semplicemente il fronte mettendo in primo piano il mio vedere voci. Ecco, il titolo della mostra, il mio nome, questo sì mi mette a nudo.

 

Ho presenti i selfies che dissemini su Facebook: credo si tratti per te di qualcosa di più che non un semplice divertimento. Accetteresti di designarli come “opera” e affermare, pur tra mille cautele, che sperimenti i social come possibile contesto espositivo? Intendo essere più diretto: rifiuti ormai la “mostra” intesa in senso tradizionale?

 

Considero Facebook un laboratorio pubblico, un contenitore per studi contemporanei e opere potenziali. Quelli che pubblico sono schizzi. Può darsi che qualche artista realizzerà mostre sui social network, io non riuscirei. Di Facebook mi piace la velocità. Le notizie e le facce mi interessano. Ho trovato casualmente una forte analogia tra il mio modo di scrivere e il linguaggio dei social.

 

 

Se leggiamo i tuoi aformismi da punti di vista per così dire teatrali, attenti ai personaggi che inscenano e alle drammaturgie che propongono, osserviamo che all’origine del tuo processo creativo è una scissione (o una dualità) che possiamo ricondurre alla contrapposizione globale|locale, imperiale|provinciale, italiano|internazionale. In altre parole: ti accendi e “inventi” quando il conflitto tra le due dimensioni del “nativo” e dello “straniero” trova accattivanti costumi di scena e riesce a esprimersi in forme umoristiche, sottilmente corrosive. Elenco gli alter ego che ti scegli: Pier Paolo Pasolini, Marlon Brando di Casalpusterlengo, Maurizio Cattelan, il barbiere, il pizzaiolo, il mago Silvan. Il “tamarro” li riassume quasi tutti, e finisce per diventare la maschera programmatica in questa tua reinvenzione della commedia dell’arte in chiave nazional-popolare. Ricordo, anni fa, una nostra conversazione su Thomas Hirschhorn: mi manifestavi la tua volontà di allestire qualcosa come un antagonismo. La circostanza investe in pieno l’attività di artista, l’appartenenza a tratti schizoide a due distinte (e spesso divergenti) tradizioni. Parlami del tuo proposito “anti-Form”.

 

Michele, hai citato tanti personaggi che definisci miei alter-ego. Posso parlarti di Pier Vittorio Tondelli per parlarti di tutti? In Week end post moderno e in altre sue opere la cultura “bassa” viene trattata come cultura “alta”. Adoro il tono della leggerezza, è avvolgente. Condivido la “lezione” di Tondelli. Michele, il Pop non mi riempie la pancia ma non ne posso fare a meno. Non impongo pensieri, non sono ossessionato dalle idee intelligenti. Con il mio lavoro non cerco di distribuire messaggi ma delineare un mio mondo. La figura del “tamarro” è per me un pretesto per rappresentare uno scenario ampio, una sorta di mia personale commedia dell’arte – è vero – il mio desiderio di rappresentazione. A volte noi italiani abbiamo paura di guardarci in faccia. La questione del tamarro mi sta molto a cuore. Italianissimi tamarrissimi.

 

“Il mondo della moda non mi ha voluto”, ironizzi. In effetti ho appena descritto i tuoi brevi testi come un’efflorescente sartoria teatrale o una freak parade congeniale alle campagne pubblicitarie (che ne so) di Diesel o Moschino. Magari accadrà. Oppure no. Che te ne pare?


Quella frase è autobiografica. Prima del liceo artistico, prima dell’accademia, ho frequentato una scuola di moda per diventare fashion designer, trovandomi però fuori contesto. I miei abiti non li avrebbe indossati nemmeno Grace Jones. Da artista la moda invece mi affascina. Collaborare con le case di moda mi interesserebbe molto, lo troverei stimolante. L’arte non è un santuario, un luogo isolato. L’arte è orgia. Mi piace l’idea di mischiare più linguaggi o di confrontarmi in scenari diversi. Tra i miei riferimenti artistici c’è sicuramente Moschino, ad esempio. Non mi sorprenderebbe trovarmi a realizzare una campagna pubblicitaria per Diesel o per altri. Non pagano neppure male.


“Con le persone che amo, amo fare cose normali”, scrivi. Oh cielo: dunque detesti il pubblico?

 

Amo stare da solo. Ho spesso sbalzi di umore. Però non detesto affatto il pubblico! Rilancio: con le persone che non conosco, amo fare cose straordinarie: le mostre.

 

 

Nomino un’ultima volta i personaggi del “dramma”. Da un lato l’euforia Pop, i riti del consumo, le divinità finzionali. Dall’altro la nostalgia dell’inappariscente, dell’intatto, del locale e inattuale: nonne lariche, interni silenziosi, piccoli mondi docilmente trapassati. Siamo con te in pieno dilemma identitario: l’“umile Italia” da un lato, l’informe società di massa modellata da processi postbellici di modernizzazione all’americana dall’altro. Accetti questa mia interpretazione? Esponi spesso all’estero. Personalmente trovo molta riluttanza, da parte della comunità angloamericana, a sospendere sperimentalmente il giudizio sulla storia italiana del Novecento per meglio comprendere e valutare. Mi è accaduto spesso di osservare un atteggiamento di intransigente prescrittività tra gli storici e critici dell’arte che si raccolgono attorno alla rivista October. Vorrei chiederti: è difficile per te far comprendere l’“eccezione” italiana? Da qualche parte scrivi: “voglio essere storicizzato”. Bene, ti prendi alla lettera. Marcello Maloberti (tra i primi in Italia a muoversi in senso e con prospettiva) decoloniale.

 

Marcello Maloberti artista decoloniale: bello! Mi piace l’idea di rappresentare la contemporaneità vivendola senza snobismi. Sono molto osmotico, assorbo quello che mi sta attorno. Sono decoloniale per natura, non potrei essere che così. È vero, noi italiani siamo spesso succubi della percezione che hanno di noi all’estero. È stato così per decenni e forse anche tuttora. Alcune opere perfette del secolo scorso penalizzano involontariamente la lettura del presente. Faccio però sempre più fatica a trovare elementi decoloniali, quando li incontro per me è una grande FESTA. Abbiamo ancora i capelli all’indietro come la mafia.

 

Citi Luciano Fabro e la sua definizione di “classico”. Al tempo stesso, nelle tue performance, ti diverti a contestare l’impeccabilità dell’“oggetto” artistico. Chiami in scena attori inesperti, esibisci scenografie deliberatamente pasticciate, spacchi le pantere di ceramica. Ancora una fertile ambivalenza. Sei attratto sia dal “classico” che dal suo contrario. Ami la “forma” luminosa e inappuntabile che non rivela niente dell’autore ma non puoi evitare di negarla e di rappresentare tue biografie immaginarie. Due richieste. La prima, professionale: esiste per te qualcosa come una “tradizione”? La seconda, extraprofessionale: qual è la tua Suprema Irritazione? Nomina, se puoi, la Ferita.

 

Ogni artista si forma una propria “tradizione”. Io sono tropicale-metafisico-sovietico. Amo il “classico”, se per classico intendiamo un modo di costruire con leggerezza e naturalezza, senza artifici formali, senza fatica nella costruzione, nel farsi forma e nel farsi pensiero. L’archetipo del creare lo visualizzo nell’immagine della danza. Mi sono formato con Fabro, il mio riferimento principale è il suo testo Arte torna arte (1989). Più vado avanti, più invecchio e meno mi irrito. Preferisco parlare di quello che amo.

 

Nel dialogo satirico Il nipote di Rameau il filosofo Denis Diderot, editore della Encyclopédie, riflette sui rapporti tra arte e filosofia. L’artista-istrione, suggerisce, è modellato dal caos emozionale e ondeggia tumultuosamente tra dipendenze molteplici e discordi. In breve: delira. Il filosofo ubbidisce invece a una legge interiore: il suo Sé è stabile. Non ho dubbi sul fatto che Diderot abbia per l’arte un interesse insidiosamente moralizzato. Il suo artista preferito infatti è Greuze. Tuttavia la satira dell’istrione è un tema ricorrente nella cultura europea moderna. La ritroviamo in Nietzsche – la sua contestazione di Wagner sarebbe incomprensibile senza avere presente Diderot – e più in generale nella polemica antidecadente. Vorrei partire da qui per considerare i tuoi aforismi da punti di vista per così dire strategici. Mi hai chiesto di provocarti: bene, intendo farlo. Perché è così importante che le opere agiscano come travestimenti?

 

Mi trovo ben descritto dalla figura dell’artista-istrione. Anch’io deliro, ma sporcandomi con la realtà. Di notte mi sogno le mostre che altri artisti non hanno mai realizzato; non ho mai amato la parola travestimento. L’opera d’arte è rivelazione delle assenze. Delirare può significare “vedere” con chiarezza le diverse situazioni. Ho sempre amato Giorgio De Chirico, “la metafisica e la fisicità delle cose”. Ho sempre visto i fantasmi in casa.

 

È la metafora dello “specchio” a colpirmi di più: la adotti spesso. Per di più hai recentemente portato in scena uno specchio: uno pseudo-Mago Silvan ne controllava gli spostamenti. Lo specchio è davvero un tuo ulteriore alter ego: immutabile, segreto, muto, restituisce al mondo mille apparenze cangianti, ma non confida mai il suo segreto. È maschera e scudo. È un selvaggio grido di gioia elevato al nume “reticenza”.

 

Quello che scrivi è vero. Ma, come sai, a me interessano le affermazioni e il loro contrario. In Sim Sala Bim, ad esempio, lo specchio svela, non nasconde. Cambia posizione elevandosi in alto come un ascensore volante, riflettendo il vuoto, poi oscilla verso il basso rispecchiando gli spettatori, lo spazio, altre opere, l’umore delle persone. In un certo senso rivela più di quanto custodisca.

 

 

Questa mia rubrica si chiama Bolle di sapone perché un giorno ormai lontano Pino Pascali, nel conversare con Carla Lonzi, definì “bolle di sapone” le sue Sculture bianche: concrezioni instabili e crepuscolari, “forme” e “figure” levitanti in aria alla ricerca di un possibile improbabile destinatario. Intendeva così riferirsi a un problema specifico: lo scarso radicamento sociale dell’arte contemporanea italiana, l’assenza di ruolo pubblico o “mandato”. Tu stesso parli di “fantasmi”, invocando De Chirico e proponendo una lettura “inattualistica” delle tue immagini. “Mia nonna”, riveli, “la signora Emilia, è il mio angelo custode e musa, poesia allo stato puro”. Non mi dispiace questa tua pudicizia, questa malinconia liliale e sconsolata che conosco dai lavori giovanili. Posso dire? La trovo più arrischiata della posa “metrosexual”, e mi ricorda amarezze arcangeliane. Vogliamo aprire una piega biografica, ricordare qualcosa di tua nonna, dispiegarne il ruolo di “musa”?

 

Parafrasando Pasolini potrei dire: i primi ricordi, le prime sensazioni, le prime esperienze formano il proprio immaginario. Ho sempre dormito con mia nonna, non avevamo spazio in casa dove dormire. Era una donna di grande forza fisica. Per non svegliarmi non accendeva la luce e sbatteva contro i muri. I suoi gesti, la sua vita erano poesia da leggere.

 

Veniamo a Pasolini. Mi sorprende che la sua fama giunga a noi attraverso retoriche sottoculturali. Mi spiego. Pasolini non è stato solo l’aedo della Periferia o l’eulogeta del “tamarro”, come anche tu sembri ritenere. Ne è stato anche, negli anni tardi, il più formidabile rivale. Ha usato insolenti modi etnografici per descrivere le giovani generazioni, a suo dire “omologate”. Sotto profili professionali – non confondiamo Arte e Vita – è stato e ha sempre inteso essere un formidabile insider. Non solo: ha osservato la Periferia con stili di osservazione saldamente radicati nel Centro, nei luoghi di reclutamento e formazione della classe dirigente, e ha raggiunto apici di acutezza e eloquenza commentando la scena pubblica italiana sulla prima pagina del Corriere della Sera – non in un qualche foglio patinato o parrocchiale. Detto in altri termini: Pasolini non è Andrea Pazienza o Dario Bellezza. Non troviamo in lui il rifiuto della responsabilità civile né un’ironia crepuscolare. Non è neppure il Cattelan dei primi anni, in sottile oscillazione tra pateticità e opportunismo, che reinventa la copertina di Flash Art o si ritrae come squatter. Aveva una profonda insofferenza per tattiche e mimetismi. Cosa pensi in proposito? E poi, più ereticamente: chi è la tua Callas?

 

Sai Michele, sono d'accordo con te. Quando parli di responsabilità civile, penso alla necessità di riflettere qualcosa di collettivo, di condiviso. Io rifletto per osmosi, come ti ho detto prima. Rifletto il sociale ma non in tono imperativo. Il mio lavoro nasce da uno spavento. Ma non ho subito shock politici, ideologici. Il mio linguaggio non si è costituito attorno a temi che facessero nascere antagonismi. Contrapposizioni sì, ma non antagonismi. Credo al significato politico della poesia. La mia Callas? La tua è un'associazione volontaria o involontaria? La mia Callas è Pasolini. O forse Donatella Rettore?

 

Già già, come scrivi: “Io sono bionda come mi vuole la storia”. Ma passiamo ad altro. Per Baudelaire l’immaginazione artistica ha il dono di creare dizionari: nomina in modo nuovo le cose e compone in unità il molteplice. Tu scrivi che “Casalpusterlengo è un alfabeto”. Trovo le due affermazioni convergenti. Dunque eccoti un Dizionario dell’Attualità democratica: Esclusione|Inclusione, Rete, Nuovo Mecenatismo, Oligarchie, Cittadinanza, Immigrazione, Bene comune, Libertà, Capitale umano, Open Access, Formazione permanente, Welfare di cittadinanza, Diritti di prelievo, Ambiente, Lavoro. Quale di queste voci risuona più profondamente nella tua attività? Nei tuoi testi c’è molto di “sociale”: la celebrazione di “corpi” e desideri, il rinvio ironico e libertario alla cultura di massa, l’estetismo moltitudinario, l’epica del ballo e della vacanza. Non molto di “politico” invece: eppure suppongo che temi come giustizia, uguaglianza, riconoscimento abbiano grande importanza anche nel tuo quotidiano. Non trovi questo silenzio sia per più versi paradossale? Per “postmoderno” abbiamo non di rado inteso, particolarmente in Italia, un’ideologia evasiva e estetizzante, che ci autorizzava a fantasticare di società pacificamente pluralistiche. Le cose non stanno così, temo: la storia non è finita, i conflitti non sono venuti meno. Trovo che gli artisti italiani emersi negli anni Ottanta e Novanta, fatte salve sporadiche eccezioni, abbiano fatto del loro piccolo “io” il territorio prediletto di ogni possibile esplorazione. È un pericolo. Per questo vorrei che tu osassi di più su piani riconoscibilmente protestatari. Perché non lo fai? Dubito che, come pure suggerisci, riusciremo a sanare l’umiliazione semplicemente spingendoci a danzare sul cubo.

 

L’“io” non è un castello, non dovrebbe riflettersi in una costruzione estetizzante, ma ampliarsi attraverso incontri o scontri. “Il cobra non è un serpente!” L’“io” è nomade, sono d’accordo con te quando dici che richiama una società pluralistica, ma, proprio perché nomade, spesso non è pacifico. Nel mio lavoro non cerco l’evasione rispetto ai contesti sociali a cui mi riferisco, sovrappongo piuttosto diversi tentativi di evasione. Lavoro con interpreti e performer improvvisati proprio per produrre direttamente questo tipo di effetto. Sono sempre alla ricerca di “una disperata vitalità”. Sicuramente il risultato è più ironico che sarcastico. Oso per questo forse meno? Io cerco l’imprevisto, sia lodato l’imprevisto. Sempre sia lodato!

 

Una domanda per finire. Hai “nostalgia del Grande, del Tragico, dell’Epico, del Religioso” (la citazione è appunto da PPP)?

 

Sai Michele, non provo nostalgia anche se mi servo di elementi che possono far pensare a una memoria collettiva o personale, a un senso di nostalgia diffuso o privato. Trovo che il Grande si rifletta nel Tragico, nell’Epico, nel Religioso così come ognuno di questi temi si può riflettere negli altri. Voglio che si sappia che i GRANDI temi nei miei lavori si nascondono dentro cose PICCOLE.

 

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Stefano Chiodi, Giovanna Silva, Il tavolo da lavoro di Marcello Maloberti

Martina Angelotti, Marcello Maloberti. Blitz

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