Le belle e le bestie: Grafton e Canella

16 Aprile 2012

Al giorno d’oggi l’architettura è diventata oggetto dell’interesse di molte persone. Non che negli ultimi tempi sia considerevolmente aumentato il numero degli appassionati o degli esperti. Piuttosto è cresciuta la nostra attenzione nei confronti dell’ambiente in cui viviamo. E con sempre maggiore frequenza il nostro habitat “naturale” è l’ambiente urbano, costituito essenzialmente di edifici.

 

Gli edifici che ci circondano nella maggior parte dei casi ci lasciano indifferenti; in qualche occasione riescono a entusiasmarci; in molte altre hanno la capacità di ferire la nostra sensibilità. Con una forza che solo l’architettura – in quanto “arte” sociale e spaziale – possiede, essa è in grado di comunicarci un senso di esaltazione e di pienezza, ma anche di disturbarci, se non addirittura di urtarci letteralmente, di rovinarci la vita. Se alla prima categoria di edifici appartengono rari ma preziosi splendori, la seconda è invece pullulante di insopportabili orrori.

 

Al di là di ciò ch’è immediatamente intuibile, gli uni sono quegli edifici che, alla bellezza formale, sanno unire l’appropriatezza, la pertinenza, la capacità di non assolvere semplicemente alle proprie funzioni ma anche di “arricchire” i luoghi in cui sorgono, e di conseguenza anche noi; gli altri si distinguono invece per l’invadenza dimensionale, la mancanza di grazia, la volgarità, la banalità, l’erroneità, la stupidità, in una sola parola per la profonda inutilità, che ai nostri occhi costituisce uno sfregio del buon senso e uno spreco di risorse.

 

Dopo la comune battaglia condotta contro il pessimo progetto sull’area ex Enel a Milano, doppiozero e gizmoweb (autore collettivo del volume MMX Architettura zona critica, Zandonai 2010) propongono ora la rubrica “Le belle e le bestie”. Suo intento è quello di segnalare gli splendori e gli orrori presenti nelle nostre città e nei nostri paesi. Edifici meravigliosi ed edifici mostruosi; edifici amabili ed edifici detestabili; edifici provvidenziali ed edifici malefici. Edifici che non si cesserebbe mai di guardare ed edifici che si vorrebbe soltanto veder scomparire.

 


 

Una pietra che canta

 

 

“L’ultimo monumento a Milano”: questo – per Stefano Casciani – rappresentala Nuova Sede dell’Università Bocconi dello studio irlandese Grafton Architects, di cui riassume le qualità attraverso l’ossimoro della “semplicità complessa”. Semplici sono lo scheletro strutturale, composto dalla sequenza delle enormi travi-parete; i riferimenti spaziali e funzionali, dalle milanesissime tipologie del Broletto e della corte, agli esperimenti megastrutturali à la Cedric Price; infine, le scelte materiche, tra cui spicca il ceppo grigio di anticamemoria meneghina.

 

Sono queste le premesse di una complessità che scaturisce dalla re-interpretazione “anti-accademica e antidogmatica” (parole di Emilio Battisti) del modernismo in architettura. L’imponenza massiva della struttura primaria autorizza le più libere variazioni nella disposizione de­gli altri elementi portanti, in particolare delle travi di copertura, a cui sono appesi i solai d’interpiano, come in un ponte.

 

L’esperienza della corte milanese è trasposta in chiave tridimensionale, articolandosi in una molteplicità di promenades ar­chitecturales che s’inabissano negli ambienti ipogei o s’impennano verso i piani superiori. Infine, il rivesti­mento in pietra dai toni sommessi descrive volumi di sorprendente “potenza tettonica” (ancora Casciani) con il blocco colossale dell’Aula Magna che si protende verso la città con un aggetto ardito.

 

Quest’ultimo si offre allo sguardo del flâneur metropolitano come la preziosa epifania di una rara bellezza architettonica: una realtà costruita solida e opaca, tra i tanti miraggi scintillanti del nuovo skyline milanese.

 

Alessandro Benetti

 

 


 

Una sinfonia senza direttore

 

 

L’uso che Guido Canella ha fatto del montaggio nelle sue architetture degli anni settanta nell’hinterland milanese è stato un tentativo di costruire delle centralità in luoghi dispersi e privi di qualità. La carica espressiva di alcune scuole o centri civici ha cercato di sopperire alla carenza d’identità avvalendosi di un repertorio formale desunto dal costruttivismo russo, riproponendo immagini figlie di un contesto assai diverso.

 

Cosa accade se lo stesso linguaggio viene trasportato – anni più tardi – in un luogo differente? Nel 1991 lo studio Canella Achilli realizza un edificio a uso misto a Milano, non lontano da Porta Romana. L’area, corrispondente all’ingresso in città dell’asse Ripamonti, viene risolta con un gesto forte e “monumentale”, in netto contrasto con il tessuto urbano circostante. Un’esplicita dichiarazione di guerra al contesto.

 

L’edificio è visibile nella sua presenza e pienezza all’angolo tra le vie Salasco e Ripamonti attraverso una facciata curvilinea formata da una sommatoria di balconate modanate che formano un corpo chiuso alla sommità da una grossa cupola. Miscela “espressionisticamente” omogenea ma “chimicamente” instabile di Erich Mendelsohn e Fritz Hoeger.

 

Il rapporto con la strada è risolto mediante un portico alto e stretto che corre lungo le due vie, la cui misura fuori scala rifiuta il dialogo con l’esistente. In posizione angolare quattro pilastri inclinati segnalano l’ingresso, quasi un ricordo di zampe aliene che tentano un primo contatto con la superficie terrestre. L’immagine “eclettica” raggiunge il suo tripudio nella facciata rivolta verso lo spazio aperto interno - né corte né spazio pubblico – offrendosi come un vasto catalogo di preoccupanti esperimenti formali.

 

Il tentativo di costruire un organismo unitario mediante il montaggio si trasforma in una sommatoria di elementi semplicemente discordanti fra di loro: come se in un’orchestra ogni strumento suonasse per conto proprio, senza direttore.

 

Manuele Salvetti

 

 


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