Il caso Franzosini / Splendori e miserie di un poeta pugile

5 Febbraio 2019

I libri di Edgardo Franzosini sono piccini. Il più smilzo, Rimbaud e la vedova (Skira, 2018), è lungo appena 96 pagine; il più spesso, Sul Monte Verità (Il Saggiatore, 2014), ne conta 224. Per il resto, ci si attesta su una media di 140. Il perché l’ha spiegato lui stesso: «Sono convinto che ogni scrittore abbia una sua misura. Anche Simenon, quando andava oltre le 140-150 pagine, scriveva libri meno convincenti. La grande misura per me non va bene». 

Quest’ultimo Grande trampoliere smarrito, uscito per Adelphi lo scorso ottobre, ne conta 195. Un po’ più della “misura aurea”, quindi: ma va anche detto che tre quarti del libro sono costituiti da prose, poesie e lettere di Arthur Cravan, tradotte benissimo da Maurizia Balmelli (le prose e le lettere) e Nicola Muschitello (le poesie). Non è la prima antologia dedicata a Cravan nel nostro Paese: una silloge di testi (oggi introvabile), curata da Gianluca Reddavide e Perla Zanini, era già apparsa nel 2005 per i tipi romani di Le Nubi, con il titolo Poeta e pugile. Curatore d’eccezione, Franzosini, pur lasciando il giusto spazio alla stazza ragguardevole del poeta (105 chilogrammi per quasi due metri d’altezza) e al suo non meno ragguardevole ego, non trascura di mettere ogni cosa in prospettiva con un puntualissimo profilo biografico, L’importanza di non chiamarsi Fabian Avenarius Lloyd, che con partecipe ironia inquadra la vicenda umana e letteraria di Cravan sullo sfondo di una Belle époque agonizzante e già illuminata dai primi bagliori della Grande guerra.

 

 

Arthur Cravan (al secolo Fabian Avenarius Lloyd), nato a Losanna nel 1887, nipote di Oscar Wilde (la sorella del padre, Constance Lloyd, era la moglie dello scrittore irlandese), è stato «poeta, scrittore, pittore, critico d’arte, conferenziere e pugile». Nel 1912 fonda a Parigi “Maintenant”, rivista d’avanguardia a periodicità irregolare, durata solo sei numeri, di cui è anche direttore nonché unico collaboratore. Nel 1916 sfida a Barcellona l’americano Jack Johnson, primo pugile di colore a conquistare il titolo mondiale dei pesi massimi: presentato sui manifesti come “campeón europeo”, Cravan viene messo a tappeto nel giro di sei riprese. Nel 1917, a New York, gioca a scacchi con Marcel Duchamp: altra sconfitta. Ama contemporaneamente tre donne («funesta pluralità» la definisce), Renée Bouchet, Sophie Treadwell e Mina Loy, alle quali scrive stupende lettere d’amore. Vagabonda instancabilmente da una sponda all’altra dell’Atlantico e da un capo all’altro dell’America, un po’ per dromomania, un po’ per fuggire la coscrizione obbligatoria. Scompare misteriosamente nei pressi di Salina Cruz, in Messico, nel novembre del 1918. Il suo cadavere non verrà mai ritrovato.

 

«L’arte del biografo consiste [nello] scegliere, fra i possibili umani, quello che è unico», ha scritto Franzosini in Raymond Isidore e la sua cattedrale (1995), citando Marcel Schwob. Ora, quella di Cravan è stata effettivamente un’esistenza unica nel suo genere: costruita, si direbbe, con il preciso intento di trasformarsi in leggenda, romanzo, opera d’arte (antica ambizione dell’illustre zio Oscar). Franzosini, nell’insolita (per lui) doppia veste di biografo e curatore, benevolmente lascia che Cravan dia fiato alla propria auto-epopea di dandy simpaticamente amorale: «Sempre più mi esaltavo al pensiero di raggiungere la prosperità in modo disonesto, e sorprendente, attraverso la poesia – ho sempre cercato di considerare l’arte un mezzo e non un fine», dichiara; e aggiunge: «Se scrivo è per mandare in bestia i miei colleghi; per far parlare di me e per farmi un nome». Fa strame dell’immaginario poetico e dei suoi topoi: «Vagando per le strade, rincasai lentamente, senza mai distogliere gli occhi dalla caritatevole luna, come un coglione». 

 

Prima ancora di leggere il lungo racconto-commento di Franzosini, bastano i testi da lui attentamente selezionati (soprattutto l’epistolario) per rendersi conto che la posa da teppista di Cravan nasconde quel “grumo di sofferenza umana” che caratterizza tutti i personaggi dello scrittore lombardo. Questa montagna di carne e muscoli si sente a disagio fra i propri simili come Gulliver fra i lillipuziani: un «Grande trampoliere smarrito», appunto. Cravan è ossessionato dalla fisicità, dalla consistenza dei corpi – di tutti i corpi. Introducendo i “Documenti inediti su Oscar Wilde”, si premura prima di tutto d’informare i lettori che il celebre zio era «di corporatura robusta senza essere muscoloso»; e del suo incontro con Gide ricorda più che altro «un tipo gracilino», una «ossatura [che] non ha niente di notevole», le mani bianchissime «da fannullone» e «un viso malaticcio». Un giudizio estetico che implica anche un giudizio letterario: «Il suo modo di camminare rivela un prosatore che non sarà mai capace di comporre un solo verso». 

 

Arthur Cravan.


«Vorrei essere a Vienna e a Calcutta/ prendere tutti i treni e tutte le navi […] fauna e flora;/ sono tutte le cose, tutti gli uomini e tutti/ gli animali!», scrive in una poesia del 1913: come se quell’immenso carapace di carne gli andasse stretto. La sua misteriosa sparizione, più che un ironico contrappasso per l’uomo che tanta importanza attribuiva ai propri muscoli, suona allora come una sorta di paradossale liberazione: «Quale anima si disputerà il mio corpo?». Alle speculazioni sulla fine di Cravan Franzosini dedica poco meno di due paginette. Poco importa se sia annegato cercando di attraversare a nuoto il golfo del Messico (come pensava Breton) o se invece sia stato pugnalato a morte in un dancing (come raccontava Cendrars): ciò che lo interessa davvero non è il mistero della morte, semmai quello della vita. È lì che la sua fantasia si accende, partendo da un fatto accertato ma del tutto secondario (una sosta in hotel, un viaggio in nave) per dare forma a soliloqui o a dialoghi come quelli di Cravan con Johnson, o con Trotzky, che da parte sua rivela un insospettabile interesse per il rapporto fra tauromachia e rivoluzione. 

Più ancora che gli altri libri di Franzosini, Grande trampoliere è un libro dai molti ingressi. Lo si può leggere come una “piccola cosmogonia portatile” di Cravan nella quale il curatore, chiosando e commentando, ha finito per divorare l’oggetto delle proprie cure, alla maniera di certi libri “parassiti” di Cesare Garboli. Oppure, specularmente, come un’altra delle “biografie immaginarie” di Franzosini, ove però l’autore ha lasciato, per una volta, che il corredo di note erudite e riferimenti bibliografici – da sempre piatto forte dei suoi libri – prendesse piede e invadesse il corpo principale del testo. 

Ma la singolarità del Grande trampoliere può valere anche come cartina di tornasole dell’intera opera di Franzosini, a cominciare dal rapporto di segreta interdipendenza fra biografo e biografato. Proprio su Doppiozero, Chiara De Nardi ha osservato che lo scrittore lombardo «scava nelle pagine, raccoglie un nome e va alla ricerca di ogni dettaglio della sua esistenza, accumula materiali e tracce vaghe, ne segue il tragitto per terra e per mare, da una storia di poche righe squaderna una vita». Narratore di secondo livello, Franzosini parte dalla letteratura per arrivare alla realtà: dal falso al vero, si direbbe. Ma di quale verità stiamo parlando? Nelle prime pagine del ricordato Raymond Isidore, l’autore lascia cadere, con aristocratica nonchalance, un’affermazione che somiglia molto a una dichiarazione di poetica: «Non mi considero un fanatico della verità storica. Appartengo anzi alla schiera di coloro che sono persuasi della sua relatività e inafferrabilità, nonché del fatto che essa, in ultima analisi, sia soltanto il frutto di un’illusione». 

 

Un’illusione talmente verosimile da essere, qualche volta, creduta per vera. Sul Monte Verità, per esempio, ricostruisce le vicende della celeberrima comunità utopica ticinese attraverso un personaggio del tutto inventato, Alceste Paleari, al quale si attribuisce una biografia più vera del vero, con tanto di incontri eccellenti (Rudolf von Laban, Theodor Reuss, Aleister Crowley…). Ebbene, mi è stato raccontato che alcuni anni fa, durante una presentazione del romanzo ad Ascona, uno dei presenti ha vivacemente protestato con l’autore perché “un individuo di nome Alceste Paleari non è mai esistito”. Ma Franzosini non è soltanto un abile prestigiatore, capace di vendere per vero il falso. Al contrario, in Sotto il nome del cardinale (2013, il suo libro più asciutto e, forse, il più bello), passa al setaccio le carte secentesche della Biblioteca Ambrosiana per riabilitare la fama di Giuseppe Ripamonti, ghost writer avanti lettera del cardinale Federigo Borromeo, portando alla luce una turpe storia di false accuse e abusi di potere: a dispetto del suo disinteresse per la verità storica (o forse proprio grazie a quello) utilizza la letteratura per raddrizzare i torti della Storia.

 

Edgardo Franzosini.


La “singolarità” di Franzosini va dunque oltre la sua predilezione evidente per quelle che Giuseppe Pontiggia avrebbe chiamato “vite di uomini non illustri”. Predilezione che s’inserisce tra l’altro in un preciso filone contemporaneo, che potremmo definire “microbiografico” o più in generale “microromanzesco”, e che ha in Jean Echenoz, Pierre Michon e, in parte, nel Bolaño di La letteratura nazista in America gli esempi forse più rappresentativi; senza dimenticare i due antesignani del (micro)genere, il già menzionato Schwob e Félix Fénéon, che guarda caso compare fra i personaggi del Grande trampoliere (a quando una microbiografia dedicata al romanziere in tre righe, firmata Franzosini?).

Quello che più di ogni altra cosa sorprende e desta curiosità in Franzosini è semmai il suo destino critico. A lungo autore per (felici) pochi, parco nella produzione letteraria, con grandi silenzi fra un libro e l’altro (quindici anni separano Bela Lugosi, del 1998, da Sotto il nome del cardinale), talvolta fin troppo cosciente dei propri limiti («Non vorrei finire per essere lo scrittore delle vite eccentriche... poi, chissà, forse sono capace di fare solo quello»), più o meno a partire da Questa vita tuttavia mi pesa molto (2015) Franzosini è diventato un autore di culto,  (addirittura, come ha scritto qualcuno, “il nostro Bolaño”: esagerato) seguito con grande attenzione soprattutto dalla critica più giovane, che in qualche caso ha esaminato la sua opera complessiva con sorprendente puntualità

 

C’è da domandarsi se davvero sia soltanto una questione di politiche editoriali (la comprovata abilità adelphiana nel trasformare ogni outsider di talento in un piccolo caso letterario), o magari del crescente interesse, anche qui da noi, per l’ibridazione tra fiction e non-fiction. Forse c’entra l’eterno fascino dell’irregolare? Spesso è stato scritto che Franzosini (persona di grande cordialità e discrezione, per chi ha avuto il piacere di incontrarlo) assomiglia ai personaggi di cui racconta le storie. Ma l’irregolare autentico e il bizzarro, come ha detto qualcuno, non sono affatto la stessa cosa. L’irregolare allarga i confini della propria disciplina, mentre il bizzarro si limita a ricamare, anche sapientemente, l'orlo della stoffa. È difficile distinguerli a una prima occhiata, ma un segno c'è: i veri irregolari, i “minori-maggiori”, contagiano gli altri con la loro irregolarità. Arthur Cravan, il discolaccio che dava del “rinoceronte” ad Apollinaire e perdeva agli scacchi con Duchamp, quasi senza saperlo ha anticipato Tristan Tzara e André Breton, il quale avrebbe in seguito riconosciuto in lui nientemeno che «la pura dimensione del genio, allo stato grezzo». Accadrà lo stesso a Edgardo Franzosini e al suo sterminato archivio di vite eccentriche? Da semplice lettore, lo confesso, ne sarei molto contento.

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