L'impertinenza democratica

21 Gennaio 2014

Nel luglio del 2013 due amici e colleghi si sono incontrati in un convegno; uno era Derrick de Kerckhove, noto teorico canadese dei media e l’altro Luca de Biase, elegante osservatore della società digitale. Al secondo le tesi del primo sono interessate, così ha pubblicato un post sul suo blog dal titolo Ipertinenza di Derrick de Kerckhove. Conosco questo termine coniato da Derrick, in quanto fa parte delle mie lezioni, ne riconosco il valore euristico, riconoscendo negli studenti le connessioni che attiva.

 

L’Ipertinenza è un gioco di parole creato da Derrick de Kerckhove che richiama l’impertinenza. Impertinente deriva dalla voce dotta del latino tardo (sec. IV) impertiněnte(m), ʻche non (in-) è pertinente’, participio  presente del latino pertinēre, che essendo composto da pĕr e tenēre vuol dire ’estendersi fino a, applicarsi a, riguardare, concernere’. Colui che è impertinente quindi è colui che non riguardando, è fuori luogo, è colui che fa ciò che è fuori proposito, e la cosa, o il concetto impertinente è la cosa o il concetto che sono fuori proposito.

 

Al contrario come scrive brevemente sul suo blog Luca de Biase, è un concetto: “[...] l’ipertinenza, che con il suo “iper” suggerisce un senso di estrema pertinenza. E si usa per comprendere un aspetto di quello che succede nella cultura pervasa dalle conseguenze della rete. Soprattutto nella sua evoluzione che l’internet mobile favorisce: la fusione della connessione digitale con il territorio e l’ambiente”. Secondo Derrick de Kerckhove letto da Luca de Biase oggi “...un elemento del successo delle nuove sollecitazioni culturali emergenti e una strada per interpretarle è dunque la loro “ipertinenza”: la loro capacità connettiva, pratica e concettuale, la loro contestualizzazione, la loro adottabilità dalle persone che le riconoscono come liberatorie e generative del ruolo attivo di ciascuno nell’ecosistema dell’informazione e dell’innovazione.”
Insomma i nuovi media ci riguardano sempre in una pertinenza accelerata.

 

Ma appare qui, un terzo incomodo, l’umanista americano Neil Postman chiamato contro la sua volontà dalle note che ci ha lasciato; in particolare quella che sostiene una visione dell’Accademia come omeostato culturale e che suona più o meno così: “L’accademia deve essere innovativa se la società è conservatrice, e conservatrice se la società è innovativa”.

 

Ecco che l’Ipertinenza di Derrick, fa parte di quel dominio culturale per il quale sembra esser arrivato il momento di porsi la domanda: perché tutta questa potenza tecnica e innovazione? Non potrebbe essere che le note, in perenne crescendo, dell’entusiasmo per i nuovi media e la loro carica innovativa, trasformano la democrazia in ipercrazia?

 

Il termine democrazia, è un termine rassicurante, è la nostra casa politica, il processo che giustifica tutti i processi; deriva dal greco δῆμος (démos), popolo e κράτος (cràtos), potere, ed etimologicamente significa governo dell’insieme dei soggetti che sono in rapporto di riconoscimento reciproco con un potere sovrano.

 

Storicamente affonda il suo significato nella memorabile posizione greca contro gli invasori persiani, alla Battaglia delle Termopili, in cui  300 spartani guidati da Leonida e diversi contingenti alleati (circa 5100, secondo Erodoto) in falange, riuscirono a tenere testa ad un esercito di migliaia e migliaia di persiani prima di soccombere. Il mondo greco iniziò a narrare come la falange avesse retto la forza degli Immortali comandati da Idarne.

 

La falange si fonda sull’utilizzo di formazioni coese a scapito delle gesta eroiche dei singoli; le truppe venivano addestrate per avanzare in formazione allineata, creando un’impenetrabile fronte di lance, difeso da un muro di scudi. Non contavano le gesta individuali del singolo, ciascuno era subordinato al gruppo: infatti era necessario che i soldati rimanessero compatti, altrimenti un punto vulnerabile avrebbe potuto mettere a repentaglio l’intero gruppo.

 

Terminata la battaglia, compiuto il sacrificio fisico, panoplie e valori razziati dai Persiani, iniziarono le esequie a Leonida e agli eroici opliti delle Termopili, e iniziò la virtualizzazione dell’episodio, attraverso la sua storificazione, la quale divenne parte della tradizione orale dell’epoca.  L’estremo sacrificio fisico di 5000 e oltre eroi, e la vicenda narrata infinite volte nelle calde estati dell’Attica, produssero quindi dei valori che rinforzarono l’idea di collaborazione, uguaglianza e coordinazione avendo un ruolo nel realizzarsi della prima democrazia.

 

Tale democrazia oltre che un processo narrativo di virtualizzazione, ebbe anche bisogno di un sacrificio reale: la vita e la guerra; e di una pragmatica che fu garantita dalla dimensione contenuta della polis e delle agorà: ovvero delle piazze-dispositivo dove si realizzavano le pratiche concrete, le prassi di questa democrazia. Questi territori permettevano delle pratiche analogiche, dei contatti diretti, delle esperienze attuate in spazialità e pratiche comuni.

 

Se esisteva un movimento di produzione di senso trascendente, il virtuale della narrazione delle gesta eroiche, portatore dei concetti di collaborazione, uguaglianza e coordinazione, erano le pragmatiche umane che facevano precipitare tale senso nel concetto che conosciamo oggi: la democrazia.
Si potrebbe allora pensare che la democrazia si è costituita in una parte virtuale, necessaria a postulare e produrre i valori, e di una parte pragmatica, concreta, basata nel qui ed ora di un territorio condiviso, necessaria a realizzarne le pratiche e ad aggiornarne il sacrificio fondatore; per questo non sembra essere corretto sostenere che non ha più alcun senso, se mai ne ha avuto, parlare di separazione tra il “virtuale” e il “reale”.

 

Le persone sono immerse in un territorio generato dalle antropotecniche, che vanno dall’alfabeto fino alla rete dell’Internet, e reagiscono alle condizioni generate dalla disponibilità degli strumenti digitali interconnessi. Ma la pertinenza alfabetica potrebbe trasformarsi in una ipertinenza digitale, in un mondo in cui le nuove tecnologie digitali impattano su di noi con una pertinenza accelerata, ecco che riappare un classico argomento della teoria media canadese, quello che sostiene che quando un mezzo è portato alle sue estreme conseguenze, si trasforma nel suo contrario.

 

Il che potrebbe essere vero, e Postman ci ha vincolato a una domanda: siamo sicuri che non manchi quella pragmatica che ancora il virtuale sembra necessitare? La democrazia sembra essere una pratica di trascendenza-pragmatica legata ad azioni concrete, realizzate tra individuo e individuo; ovvero che ha bisogno delle pratiche ʻvis à vis’ della polis e dell’agorà, che nel moderno sono state sostituite dai nuclei politici “à la Bodin”: la famiglia, il quartiere, il paese, la città, la regione, lo stato; e che oggi con la democrazia diretta e il voto elettronico vengono virtualizzati in un possibile simulacro, ovvero un’apparenza che potrebbe non rinviare ad alcuna realtà sotto-giacente, pur pretendendo di valere per una (quella stessa ) realtà.

 

Qui fa capolino un altro dei teorici della contemporaneità, Pierre Levy, con l’argomento che nella prospettiva di una politica virtualizzata, l’identità sarà determinata dal nostro grado di partecipazione alle comunità virtuali che sono transnazionali, ubique e mondializzano l’agenda. Questo segna la fine dello stato nazione, oggi l’elettricità digitale produce il cyberspazio che oltre che territorio letterario è ormai un nuovo territorio politico planetario; insomma una famiglia, un quartiere, un paese, una città, una regione e uno stato glocale.

 

L’avvento di questo nuovo territorio, implica una riflessione sui dispositivi democratici, infatti esorbitando la dimensione nazionale lo stato non può più pilotare la trasformazione; in quanto avviene una diversificazione frattale dello spazio pubblico; la vita locale per l’ubiquità della connessione in rete assume caratteri globali, in una nuova dimensione definita glocale.

 

Oggi in una democrazia dove una buona parte dei cittadini attivi sono connessi all’Internet, come il movimento politico noto come M5S ben rappresenta, la partecipazione politica si fa sforzo costante per permettere ai cittadini di glocalizzare il potere. Ma non potrebbe quindi succedere che la dimensione glocale porti all’estremo “l’indecidibilità” di un sistema politico che giunto a questo livello di dettaglio non riesce più ad attuare uno stato di parità? In questo caso il principio di indeterminatezza di Heisenberg diventa parte integrante di una politica che è continua oscillazione.

 

Con i media ubiqui e istantanei, il mondo delle dicerie diventa il mondo reale, e la democrazia sembra diventare obsoleta; potrebbe appunto mancare il demos, la pragmatica, il qui-ed-ora, l’esser-ci, del popolo, che al contrario potrebbe trasformarsi in mero segno virtualizzato di sé stesso, simulacro che vale per una realtà che si pensa sia sotto-giacente, ma che altro non è che la nuova alienazione, processo che estrania il cittadino dal suo essere parte reale di un processo politico, appunto pertinente.

 

Così passiamo da una democrazia a una iperdemocrazia fino a una Ipercrazia. Ovvero nel caso del potere ipercratico si esercita il potere per se stesso, in quanto è il medium stesso che agisce il potere; la narrazione dei nuovi media elettrici sembra produrre delle narrative frammentarie, facilmente inseribili in racconti che si autorealizzano all’interno di un processo a priori di giustificazione e attribuzione di senso: un senso generato da un globale che ha sostituito il mito, che prende forma in una moltitudine di storie di cui non se ne conosce chiaramente la paternità, di cui se ne perde la tracciabilità, e in questo modo viene meno il contesto che deflagra in un territorio altro e fantasmagoricamente mitico.

 

E tuttavia è il caso di chiedersi se questo mito non sia obsoleto, ovvero se non sarebbe quello di un compiersi politico del novecento, con i due blocchi tecnologici del capitalismo e del comunismo che forse hanno lasciato l’incremento della potenza dell’apparato della tecnica come apparente bene comune di fronte all’avverarsi di un millennio che necessita urgentemente di nuove domande, nuove metafore, piuttosto che di processi apparentemente normalizzanti ma che potrebbero essere condannati dalla potenza tecnica a portare alla migliore delle ipercrazie possibili.

 

Audit Society

 

Nella prima parte dell’articolo ci eravamo interrogati sulla pertinenza e impertinenza della nuova forma assunta dalla democrazia tecnologica, ovvero della democrazia nell’epoca dei nuovi media. Per nuovi media intendiamo la rete dell’Internet e i suoi corollari, ovvero i computer digitali, i palmari, i telefonini definiti smart phone, ovvero antropotecniche caratterizzate da ubiquità, istantaneità, isomorfismo, e pervasività. Se consideriamo la definizione data dal filosofo Mark Rowlands dell’umanità come una specie che ha la specificità di generare storie su sé stessa e di crederci, è semplice comprendere come questi nuovi media, che hanno un impatto sul significato dei messaggi, abbiamo un ruolo centrale nel territorio dei significati della contemporaneità.

 

Recuperando un classico delle teorie media, Harold A. Innis (CA, 1894 – 1952) e il suo testo Impero e Comunicazione assumiamo che le società sono state sempre più plasmate dalla natura dei media attraverso le quali comunicano, piuttosto che dal contenuto dei messaggi; lo sfondo informazionale, e quindi culturale, di tutte le società, è sempre e comunque determinato dalle forme e dalle tecniche proprie dell’epoca di quella stessa società, e oggi siamo immersi nella ’società informazionale’ (Castells, 1996), una società caratterizzata dall’enorme potenza di calcolo dei processori matematici e dalle inaspettate connessioni semantiche create dai collegamenti ipertestuali.

 

La domanda quindi è se nel mondo dei media ubiqui e istantanei, dove le dicerie diventano il mondo reale, la democrazia non diventi obsoleta; per il fatto che gli viene a mancare il demos, la pragmatica, il qui-ed-ora, l’esser-ci, del popolo, che al contrario potrebbe essersi trasformato in simulacro che vale per una realtà che si pensa sia sotto-giacente, ma che non potrebbe essere altro che una nuova alienazione, processo impertinente che estrania il cittadino dal suo essere parte reale di un processo politico, appunto pertinente o meglio i-pertinente.

 

E questo fenomeno è legato al sottile rapporto tra pragmatica e virtuale.
Ancora oggi la condanna di un politico prima che un atto politico è sempre e comunque un atto pratico. E tale pratica prevede la esecuzione della condanna, sia essa nella forma diretta del carcere oppure di pene accessorie e/o derivate quale la interdizione dai pubblici uffici. Anche comunque la non candidabilità e/o sostenibilità a governare.

 

Oggi sembriamo essere testimoni di una democrazia fuori luogo, appunto non pertinente di fronte  a rivoluzioni  definite ʻprimavere arabe’ ma incapaci di darsi una forma compiutamente politica forse proprio perché innescate, prodotte e processate dai nuovi media elettronici che, per via della distanza che mettono tra la cosa vissuta e la cosa pensata, tra il soggetto politico e il territorio dell’agire politico, negano proprio quell’equilibrato processo democratico di esperienza collaborativa-virtualizzazione con la sua elaborazione: (Storicizzazione/normativa)-concetto-esperienza (territorio).

 

E quindi corretto chiedersi se la distanza tra reale e iperreale dei nuovi media non faccia chiaramente capire come i nuovi media non siano necessariamente democratici, ma potenzialmente ipercratici.

 

Nel caso del voto ipercratico si esercita il voto di per sé stesso. Così nel caso del voto virtuale si esercita il voto di per sé stesso. La democrazia diventa Ipercrazia, come forma non pertinente della democrazia.

 

Questo processo si adatta molto bene a una società sempre più edificata sull’audit, sulla pratica della verifica ispettiva, come valutazione indipendente volta a ottenere evidenze, relativamente all’oggetto democratico, e valutarle con obiettività, al fine di stabilire in quale misura i criteri prefissati siano stati soddisfatti o meno.

 

Ma tale obiettività dove risiede? Risiede nelle pratiche virtualizzanti dell’Internet, risiede nei luoghi celati e magici dell’auditor, ovvero di colui che ha la competenza per effettuare un audit, ma chi ha competenza? Il termine deriva dal verbo latino competere, (da cum e petere “chiedere, dirigersi a” (Dizionario Devoto-Oli,2005) che significa far convergere in un medesimo punto, ossia mirare ad un obiettivo comune, nonché andare insieme, finire insieme.

 

Se è ormai accettata l’ipotesi che stiamo rivivendo una Oralità secondaria elettronica (W.J.Ong, 1982),  è lecito porsi l’interrogativo se abbiamo perso la dimensione del ʻqui-ed-ora’ e dell’’esser-ci’ della Polis, e se il sacrificio degli eroi non sia stato sostituito dalle pratiche del voto, se le pratiche corporali dell’agire democratico siano state sostituite dai nuovi media, e dalle verifiche che sono valide solo perché i nuovi media elettronici le fanno convergere in un medesimo punto, facendole mirare ad un obiettivo comune, che parrebbe solo validare una democrazia impertinente, ovvero una Ipercrazia.

 

Questa Ipercrazia è il frutto che porta la forma compiuta della Audit Society ad assumere le forme di una Automaton Society, una società automatica, dove il voto, da procedura liminale e fondante del soggetto moderno, diventa mera azione ripetuta, appunto nell’Ipercrazia: il voto, da archetipo diventa cliché, nuovo possibile processo fondante il soggetto del millennio.

 

La stessa massa senza la fabbrica, diventa massa senza corpo, massa prima della televisione, poi dell’internet, e diventa una parola eroica, che sembra creare un volgo automatico di una Ipermodernità dove la responsabilità appare perduta, perché nessuno ha più controllo del suo agire automatico.
La perdita della responsabilità dell’azione politica innescata dal voto elettronico, sarebbe allora l’estrema ipertinenza dell’antropotecnica sull’individuo.

 

Nel caso del potere ipercratico si esercita il potere di per sé stesso, non arretrando nei casi estremi davanti a nessuna conseguenza dell’Audit Democracy, dell’automazione dell’azione del voto attraverso i il voto elettronico, virtualizzazione di tutte le relazioni democratiche e finanche politiche, e riducendo l’opinione, e la rappresentatività del soggetto politico, a un puro attimo di un processo che non può che esistere che solo come insieme, annullando quindi l’individuo, l’opinione e la sua stessa rappresentatività politica.

 

Educazione

 

I partiti, le correnti culturali, le lobby, i movimenti quali il M5S  così come le forze religiose ed etiche, mirano alla costruzione di un proprio territorio del senso il cui scopo è l’esclusione dei territori altri e degli altri. Tutte queste forze vorrebbero servirsi della tecnica come mezzo, ma non potrebbe essere che essa, la tecnica, si costituisca come apparato globale sempre più libero dal frazionamento conflittuale  a cui tali forze lo riducono?

 

Come scriveva con pertinenza Emanuele Severino - “la tecnica mira non a uno scopo specifico ed escludente, bensì all’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi ...” E’ quindi sostenibile che siccome tali forze sono  ingaggiate in una perenne conflittualità biopolitica, la cui direttrice è la volontà di prevalere sugli avversari attraverso il costante incremento della strumentazione tecnica che la loro stessa biopolitica propone, ovvero il carattere tecnologico e razionale, esse siano costrette de facto a rinunciare allo scopo prefissato per non limitare, indebolire, frenare l’ipercratico potenziamento dell’apparato razionale-scientifico-tecnologico, strumento attraverso il quale avevano inteso realizzare il loro scopo.

 

Il vero scopo della naturale aggressività territoriale dei partiti, delle correnti culturali, delle lobby, dei movimenti quali il M5S così come delle forze religiose ed etiche, diventa allora il perfezionamento della tecnica per gli scopi di questa stessa aggressività, ecco quindi il voto elettronico; ma affinché lo scopo non intralci il perfezionamento del mezzo deve essere subordinato a tale perfezionamento, che quindi diventa il vero scopo primario, quindi il mezzo; ecco quindi allora l’Ipercrazia.

 

Severino insiste e propone un argomento storico che dà una propria visione del crollo del Muro di Berlino del 1989: “[...] il socialismo reale è stato emarginato, affinché la realizzazione dei suoi scopi non intralciasse il potenziamento del mezzo – cioè la frazione di apparato scientifico-tecnologico, di cui l’unione Sovietica disponeva – che avrebbe dovuto realizzarli.” Per il grande filosofo italiano la tecnica è prodotta dal capitalismo e ne segna il limite.

 

Certo non possiamo assumere una posizione di ineluttabilità e inevitabilità della tecnica, altrimenti questo testo verrebbe tacciato di magia o dogmatismo, dei tabù del novecento, secolo in cui l’unica inevitabilità era l’impossibilità che esista qualche cosa di inevitabile e di necessario.

 

È il critico letterario canadese Marshall McLuhan a dirci come la tecnica stessa sia il messaggio essenziale della tecnica, ovvero la sua capacità di organizzare i messaggi della ʻepifilogenesi mnemonica’, ovvero, e qui stiamo parlando di Bernard Stiegler, di organizzare le forme mnemoniche della formazione dei significati, o meglio ancora dell’incontro tra esperienza pratica e idee. Il messaggio autentico è quindi costituito da quello che il nostro apparato concettuale moderno, considera come un semplice medium-mezzo che serve allo spostamento dei messaggi. In realtà la tecnica oggi assume sempre più le forme dell’essenza stessa dell’uomo, la sua potremmo dire ʻsalvezza’ in quanto identità di dominio, e per questo la chiamiamo antropotecnica.

 

Il pensiero novecentesco ha evitato di focalizzarsi sul processo stesso da cui esso stesso è sorto; ovvero il processo della dominazione della tecnica sulla vita, ed ha evitato di vederlo come qualche cosa di inevitabile. Il millennio al contrario, se vuole un rimedio all’alienazione, potrebbe guardare dritto negli occhi il processo da cui esso stesso sorge, e come questo processo sia inevitabile e appartenga e generi  il dominio della tecnica.

 

Assumiamo un senso antropotecnico di questo rovesciamento, tra mezzo e scopo, tra apparato e potenza, che si candida ad essere uno dei sensi profondi del passaggio tra novecento e millennio.
Per evitare le alienazioni che possono derivare da questa incalzante biopolitica ipercratica bisogna comprendere e assumere che ogni manipolazione dell’uomo da parte delle tecniche non è differente, in essenza, dalle manipolazione in cui si dà ogni forma di educazione e di cultura. In questo senso  la cultura viene assunta come cura omeopatica dell’alienazione secondo il detto latino Similia similibus curantur letteralmente «I simili si curano con i simili

 

Se è vero l’argomento della sopravvenienza della tecnica al capitalismo ecco allora che l’alienazione diventa il non vedere questa stessa sopravvenienza. Tale ipotesi comporta dei nuovi territori; ad esempio una visione della Alta Velocità, in cui comunità locali e rurali si oppongono a un capitalismo sfrenato la cui manifestazione è un moloch tecnologico di nome treno. Parola di uso comune il cui etimo rivela dal francese train ʻl’atto di andare delle bestie da soma’, e dal greco threnos, ’il pianto, lamento, gemito ad alta voce’.

 

Il non vedere questa sopravvenienza è la peggiore delle alienazioni per l’uomo del millennio; ecco allora che diventa centrale un ripensamento omeopatico dell’educazione, ovvero dei programmi che portano a una corretta ʻcura del sé’ mediante la formazione: una nuova scuola moderna, o meglio ancora una scuola del millennio. Questa scuola senza intaccare il valore internazionalmente riconosciuto da quella che è globalmente nota come “Gentile Refom”, deve porre nel suo azimut la comprensione del fenomeno della tecnica, con anche una declinazione biopolitica.

 

Una nuova ipotesi educativa che si fonda sulle teorie della complessità, dato l’assunto che la dimensione glocale porta all’estremo “l’indecidibilità” culturale che giunta a questo livello di dettaglio non riesce più ad attuare uno stato di verità. In questo caso il principio di indeterminatezza di Heisenberg diventa parte integrante di una cultura che è continua oscillazione.

 

Una nuova ipotesi educativa che si fonda sulla costruzione di un senso di consapevolezza tecnologica, ovvero lo studio e l’analisi di quella che viene chiamata Filosofia della Tecnica, che descriva il territorio della potenza della tecnica, e che quindi offra un valido dispositivo cartografico per muoversi nel millennio.

 

Una ipotesi educativa che si fondi sulla preminenza degli strumenti critico-metodologici verso le pratiche, in quanto le pratiche hanno un’obsolescenza esponenzialmente accelerata nella società informazionale e quindi vincolano i praticanti a pensieri anch’essi esponenzialmente obsoleti. Mai come oggi il pensiero critico-metodologico, potrebbe essere al centro dell’agenda del soggetto consapevole e non politicamente alienato del millennio, e per questo la “Gentile Reform”, con la sua critica attiva ad ogni forma dogmatica di pensiero, potrebbe rappresentare oggi lo stato dell’arte di ogni modello educativo che si voglia contrapporre a un’ipercrazia culturale.

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