Cozze, gechi e altri nanomateriali

15 Novembre 2021

Cosa sia la materia è una di quelle domande che hanno a che fare con altre curiosità che probabilmente abbiamo sempre avuto, vicina a domande come: cos’è il mondo, di cosa è fatto, che forma ha, perché una pietra è più dura di un ramo, perché l’acqua scorre e il sole scalda. Tutti quesiti che vengono necessariamente dopo che rami, terra, pietre, acqua e sole li abbiamo usati senza porci troppe domande sulla loro natura intrinseca. Prima usiamo, poi ci domandiamo cosa stiamo usando. Che la progressione sia questa e non il contrario ce lo mostra il fatto che non siamo la sola materia vivente che usa le cose del mondo, la maggior parte degli altri animali utilizza rami, terra, pietre, acqua e tutto ciò che trova e cerca per rendersi la vita migliore. Noi umani abbiamo preso l’abitudine, oltre a usare la materia, di chiederci di cosa è fatta, una parte di noi lo fa per approfondirne la conoscenza, altri, la maggior parte, per poterla usare meglio. Semplificando, è la differenza che troviamo fra i fisici teorici che hanno sviluppato la fissione nucleare dell’atomo e l’esercito degli Stati Uniti che ha sganciato la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki. La conoscenza del mondo non è priva di problemi etici, morali e pratici che tormentano probabilmente più il primo gruppo che il secondo. 

 

Fra i professionisti della conoscenza della materia, in particolare in quella disciplina chiamata fisica teorica, durante il Novecento è avvenuta una vera e propria rivoluzione che ha inizialmente portato sconcerto e poi, lentamente, è stata digerita e sviluppata con risultati sempre più sorprendenti. La teoria dei quanti, sviluppata dalla scuola di Copenaghen negli anni venti, è affascinante, complessa e sfuggente, il principio d'indeterminazione di Heisenberg è una delle idee più sconcertanti e appassionanti che una mente umana possa concepire e immediatamente si presta a interpretazioni che vanno oltre i confini della scienza per arrivare nel pensiero che da millenni si interroga sulla natura del mondo.

 

 

Tra le tante implicazioni che si porta dietro, c’è l’ipotesi che alla base della materia ci siano elementi talmente incontrollabili e inconoscibili che non è possibile neppure osservarli senza che vengano modificati dal nostro stesso atto di guardarli, l’osservatore non è separato dall’osservato, e qui crolla la filosofia occidentale, alla base della materia non c’è nulla di materiale e qui crolla la meccanica classica, quella che Newton aveva tanto faticato a mettere insieme, neanche possiamo parlare di onde, particelle, gli unici temini utilizzabili sono relazione, energia, possibilità. E anche queste minime considerazioni sono opinabili e rovesciabili, l’immaginario che la teoria dei quanti ha scatenato è esuberante, tra gli ultimi che ci hanno lavorato c’è Benjamin Labatut, che ha unito realtà a immaginazione nel suo Quando abbiamo smesso di capire il mondo, uscito per Adelphi nel 2021, di cui Paolo Landi ha parlato qui su Doppiozero, tra i più chiari e documentati c’è Incertezza, di David Lindley, edito da Le Scienze nel 2012. 

 

“Il termine materiali deriva da materia che, a sua volta, deriva dal latino mater, che significa madre.” Così parte Silvano Fuso nell’introduzione di Il segreto delle cose, uscito per Carocci Editore nel settembre 2021, ponendo sul piatto l’idea di materia come madre, cosa che impregna ogni cosa di un’aura di vita che solitamente non attribuiamo ai materiali di cui il libro parla.

 

Partendo dal legno, Fuso analizza i principali materiali che siamo soliti utilizzare, fino ad arrivare ai nanomateriali e a quelli intelligenti, passando da pietra, metalli, polimeri e altri. Ogni materiale ha una breve introduzione storica, poi vengono analizzate struttura, composizione chimica, proprietà, classificazione, lavorazione, arrivando a dare una panoramica molto utile a chi coi materiali lavora, come tutti i progettisti, e a fornire nozioni utilizzabili da tutti. 

 

Tra i vari temi trattati, un posto speciale spetta ai nanomateriali. Molti considerano il dicembre 1959 come data di nascita delle nanotecnologie, facendola coincidere con la conferenza del futuro premio Nobel per la fisica Richard Feynman al Californian Institute of Technology “There’s plenty of room at the bottom: an invitation to enter a new field of physics”. Da buon visionario, Feynman ipotizzava già allora la possibilità di manipolare la materia a livello atomico e molecolare. Il 18 ottobre 2011 la Commissione Europea definisce il campo di azione: “Con nanomateriale s’intende un materiale naturale, derivato o fabbricato contenente particelle allo stato libero, aggregato o agglomerato, e in cui, per almeno il 50% delle particelle nella distribuzione dimensionale numerica, una o più dimensioni esterne siano comprese fra i 1 nm e 100 nm.” Una delle particolarità dei nanomateriali è che la loro scala è una sorta di zona di confine tra l’ambito in cui valgono le leggi della fisica classica e quello in cui cominciano a valere quelle della meccanica quantistica. 

 

Nel 1996 Harold Kroto, Robert Curl e Richard Smalley ricevono il Nobel per la chimica per aver scoperto una molecola di atomi di carbonio alla scala nanometrica a cui hanno dato il nome di fullerene, mutuandolo da quello di Richard Buckminster Fuller, l’architetto visionario statunitense che divenne noto, fra le altre cose, per l’invenzione di cupole geodetiche che realizzava con una struttura estremamente simile a quella della molecola scoperta. Il fullerene, oltre ad essere un superconduttore ed essere utilizzato in campo medico, può inglobare al suo interno atomi e piccole molecole, cosa che ha permesso di studiare gas nobili del tardo paleozoico rimasti intrappolati nelle sue sfere. 

 

 

Tra gli animali sotto osservazione per carpirne i nanosegreti ci sono i gechi. La parte inferiore delle loro zampe è ricoperta da microscopiche setole, ogni setola si divide in diramazioni che arrivano allo spessore di 200 nm. Ogni millimetro quadrato della zampa di un geco contiene circa 14.100 setole. Questo permette al piccolo animale di avere una capacità di adesione eccezionale a qualsiasi superficie. La ricerca scientifica, sulla base dello studio dei gechi, sta sviluppando materiali artificiali che però si mantengono ancora lontani dall’efficienza del piccolo geco che in silenzio ci aiuta nelle notti estive a liberarci dagli insetti molesti. Altri animali sotto osservazione sono le cozze. Alcuni ricercatori hanno impiantato nanosetole siliconiche su una superficie di un polimero proteico a base dell’aminoacido che permette ai filamenti delle cozze di rimanere saldamente ancorate agli scogli. Col materiale ottenuto si hanno cerotti e bende particolarmente resistenti e si sta studiando la possibilità di usarlo in alternativa ai punti di sutura. 

 

I funghi poi continuano la loro marcia verso utilizzi sempre più sorprendenti. La ricercatrice Congrui Jin e il suo gruppo del Department of Plant Biology della Rutgers University di New Brunswick nel New Jersey, ha avuto l’idea di mescolare spore del fungo Trichoderma reesei e sostanze per lui nutritive all’impasto del cemento, ottenendo un cemento autoriparatore. Nel momento in cui si crea una crepa permettendo ad aria e acqua di entrare nel cemento, le spore dei funghi, rimaste “dormienti”, germinano e iniziano a crescere. Nel processo di crescita producono carbonato di calcio che va a riempire la cavità originata dalla frattura fino a richiuderla e a impedire nuovamente ad aria e acqua di entrare, facendo tornare i funghi allo stato “dormiente”. 

 

Tra i materiali trattati non poteva mancare nauralmente il materiale che oggi è il più demonizzato, la plastica. Molto si è detto e scritto, anche su queste pagine, cercando di mettere nella giusta prospettiva i danni originati dalle sue stesse qualità, prima fra tutte la durata, mostrando come il problema non stia nel materiale in sé, ma nell’uso che se ne fa. Un utile e preciso compendio di tutto ciò che la riguarda lo ha fatto Nathalie Gontard nel suo C’è vita senza la plastica, uscito per EMI nel giugno 2021. L’autrice dirige l’Istituto nazionale di ricerca per l’agricoltura, l’alimentazione e l’ambiente di Montpellier ed è una delle maggiori esperte sulla produzione di plastiche, bioplastiche e sul loro smaltimento. Come discricarsi nel labirinto delle nuove plastiche “verdi”? Il problema è molto complesso.

 

Dopo i primi allarmi sulla sua durata nell’ambiente, i produttori si sono preoccupati di renderla più facilmente degradabile, aggiungendo alcune sostanze e ottenendo le plastiche oxo-degradabili, che si disintegrano molto più velocemente all’esposizione di agenti naturali come la luce. Il problema è che sì, spariscono all’occhio umano, ma non si dissolvono nel nulla, rimangono in una forma molto più pericolosa, rimanendo dissolte nell’ambiente a qualsiasi livello e possono tornarci indietro nei cibi che mangiamo, per esempio. Tra le poche bioplastiche che l’autrice ritiene valide c’è quella a base di Poliidrossialcanoati, PHAs: si tratta di un materiale interamente fabbricato da microrganismi e completamente e rapidamente assimilabile dai batteri del suolo. 

 

“E tuttavia lo sviluppo industriale delle bioplastiche continua a tormentarmi: l’impiego di risorse alimentari o terreni agricoli a fini non alimentari non mi pare muoversi, a lungo termine e su scala mondiale, nella giusta direzione. Una piantagione di canna da zucchero in Brasile destinata alla produzione di bio-PET vuol dire ettari di terreno sottratti al nutrimento umano. Se la pratica si generalizzasse, conoscendo i nostri appetiti da orco per la plastica, le risorse di cibo per il pianeta ne rimarrebbero gravemente amputate. Tirate le somme, questo significherebbe rischiare di affamare ancor più l’emisfero sud affinché noi, al nord, possiamo continuare a consumare polimeri verdi. Ci vedo più una stampella economica e politica alle attuali preoccupazioni della nostra società consumistica che non la ricerca di una via sostenibile per una migliore qualità di vita per tutti.” In questo periodo in cui non si fa altro che parlare di materiali naturali e sostenibili è più che mai necessario ricordare come una possibile soluzione al consumo e conseguente aumento di scarti sotto qualsiasi forma, dall’immondizia alla CO2, non stia nel cambiare i materiali, ma nel cambiare i comportamenti.

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