Allah 99 / Hassan Blasim, un iracheno irriverente

23 Novembre 2021

«L’uomo di YouTube ruba le scarpe dicendo: Di sicuro queste non vi serviranno quando entrerete nel vostro paradiso».

Allah 99 è il nome di un blog ed è il titolo di questo libro, e novantanove sono anche i nomi con cui il libro sacro della religione islamica definisce la divinità. Il numero indica quello delle interviste che Hassan Blasim sta raccogliendo per il blog. Le persone intervistate sono segnate da esperienze traumatiche, da episodi violenti, dal terrorismo, da guerre civili, da lunghe esperienze di emigrazione clandestina, da rifugi precari, dall’essere rifugiati politici, dall’essere accolti ma mai abbastanza, dal non essere accolti affatto. Persone che hanno perso tutto, che hanno dovuto abbandonare affetti e cose care, più volte. Quote di sentimento perdute e mai più ritrovate.

 

Persone che trovano, talvolta, la maniera di sorridere lasciando da parte per pochi istanti il dolore. Cicatrici, ferite laceranti, pesi terribili da portare con sé, solitudini a più livelli, a ogni latitudine. Molto amore, però, angosce compensate da istanti di fratellanza, dal sesso, da grandi bevute, dalla lettura, da una carezza che qualcuno fa ogni tanto a qualcun altro, da qualche parte in Belgio, al bancone di un bar di Helsinki. Chi sono queste donne, chi sono questi uomini? Che vite hanno lasciato e quali nuove esistenze hanno inventato per restare in piedi, per togliersi le macerie dai ricordi e dal petto? Per conoscerli bisogna seguire le 300 pagine in cui sono raccolte queste storie. Pagine scritte in maniera tagliente, divertente e commovente da Hassan Blasim, pubblicate da poco da Utopia editore e tradotte dall’arabo da Barbara Teresi.

 

«Puoi avere la pace. Oppure puoi avere la libertà. Non sperare di averle tutte e due insieme».

Blasim è nato in Iraq nel 1973, è un poeta, regista, editor e scrittore. Dopo aver studiato all’Accademia di arte cinematografica di Baghdad si è spostato nel Kurdistan iracheno, dove ha continuato la sua attività di regista sotto altro nome, per paura di ritorsioni contro la sua famiglia. Le sue opere sono irriverenti, ovviamente critiche verso il mondo arabo e i fanatismi religiosi; molte di queste non sono state nemmeno pubblicate nella sua lingua madre, altre sono state bandite. La sua colpa è quella di essere uno scrittore vero e bravissimo. Per continuare a esserlo e per rimanere in vita, dal 2004 vive da rifugiato politico in Finlandia. Allah 99 è il suo primo libro tradotto in italiano, e Utopia editore – continuando il lavoro di scoperta e riscoperta, di autori sconosciuti o non più ripubblicati, iniziato nel gennaio 2020 – proseguirà con la pubblicazione dei suoi libri, così come accade in diversi altri paesi occidentali. Leggendo con attenzione Allah 99 si coglie bene il talento di quest’autore, molto diverso da altri grandi scrittori di lingua araba. Blasim usa il linguaggio come sovvertitore di luoghi comuni e di regole senza senso. Lascia che le parole detonino e che raccontino quello che stato così com’è, come sarà, come forse avrebbe dovuto (o potuto) essere.

 

«Shivan rimproverava alla letteratura araba e a quella curda di essere fredde e superficiali. Il suo sogno era che uno scrittore scavasse con le proprie dita un tunnel e fuggisse per sempre dalla prigione putrida e buia dei tabù».

Blasim abbandona quel particolare tipo di prosa pulita e “regolare” che ci arriva tradizionalmente dalla letteratura mediorientale, e, di conseguenza, rinuncia anche a un certo modo di presentare le cose. Perché le cose, semplicemente, non ci sono più. Sono esplose, perdute e andate. Dove c’erano le mille e una notte ci sono facce deturpate, crateri nelle strade, attentati continui, fanatismi. Bambini morti, mariti morti, mogli morte, e sopravvissuti che si trascinano in uno stato di shock perpetuo.

 

 

Nel libro leggeremo di una dottoressa che diventa dj di musica techno, la grande passione del compagno ammazzatole dall’Isis. La techno è il suo rifugio, l’anestetico, il suono che allontana il rumore di fondo, che sovrasta il dolore profondo. Leggeremo di un panettiere iracheno che realizza maschere per i volti sfigurati dagli attentati; è questa una delle interviste più toccanti, perché capiamo, attraverso il racconto, come anche il volto di un cadavere necessiti di una protezione, di un riparo e di come il riparo disegnato sul viso non sia ancora abbastanza, non può essere mai abbastanza. Leggeremo di un giovane rifugiato afghano in Svezia, che diventa un fanatico della jihad. Leggeremo della direttrice della scuola dei gatti, di rifugiati a Bruxelles, di mangiatori di cavallette, di zii, di ladri che filmano i loro furti e li postano su YouTube, di mondi nascosti da altri mondi, da mondi che non sono altro che modi inventati per tirare avanti. Lo scopo di queste interviste è quello di scrivere racconti in altra forma, di mostrare attraverso molte voci cosa c’è dopo la devastazione. Chi parla discute di quello che fa ora, in un luogo lontano da quello di nascita, oppure mette in relazione i giorni della dittatura con quelli venuti dopo. La domanda nell’aria è: Meglio prima o dopo? La risposta è: mai. La situazione è così complessa, così spesso scivolata di peggio in peggio da non sapere più quando sia cominciato il crollo.

 

«Da due giorni sono tornata a Cioran, guidata da un sentimento strano, quasi volessi fare testamento e indirizzare le mie ultime volontà proprio a questo rumeno che credeva nel non credere a niente».

Ogni intervista è introdotta da Hassan Blasim che è ironico e dissacrante, e tra una conversazione e l’altra, emergono i racconti della sua vita a Helsinki, tra sbronze quotidiane, sesso occasionale, linguaggio sboccato e viaggi letterari. Saltano fuori DeLillo, salta fuori Camus, e soprattutto Calvino. Palomar, in particolare, è una specie di guida, di compagno di viaggio, sovente è un consigliere, altre un monito figurato. La vita in Finlandia e la vita in Iraq negli anni dell’embargo economico, la vita che in qualche modo scorre. Blasim racconta anche i suoi viaggi della speranza, dolorosi, terribili, il transito in Turchia, i digiuni, le difficoltà economiche, la miseria. Blasim narra i tre tentativi di passaggio in Bulgaria, i primi due falliti, accompagnati da trafficanti improvvisati e altrettanto miserabili. Queste voci disperate e luminose si alternano a quella di una traduttrice araba che nella sua corrispondenza con Hassan racconta il suo lavoro sulle traduzioni di Cioran e, al contempo, analizza con il faro della letteratura i disastri del nostro tempo, percependo la differenza tra bene e male sempre più sottile, talmente esigua da sovrapporsi di frequente.

 

«Probabilmente sarai d’accordo con me sul fatto che la commedia si trova ovunque, solo in percentuali diverse».

Blasim dà voce ai disperati, e attraverso una lingua vivace, mai timorosa, ci racconta la profonda crisi delle terre mediorentali che è anche la nostra, che ci piaccia o meno, che la si comprenda o meno. Parlando di piccole e grandi miserie ci dimostra una volta ancora come non si possa sottrarsi al principio dell’accoglienza, non si possa far finta di niente. Noi che stiamo a Helsinki, a Milano, a Parigi, a Berlino dobbiamo guardare in faccia alle 99 persone intervistate e a tutti gli altri, perché questa gente trascina con sé qualcosa che non è più un’esistenza ma una forma di resistenza, che è comunque vita, ma con meno speranza e con un peso tremendo su quella cosa che chiamiamo cuore.

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