A 250 anni dalla nascita / Hegel e Hölderlin. I giovani che volevano la mitologia al potere

27 Agosto 2020

Il 27 agosto di duecentocinquant’anni fa nasce a Stoccarda Hegel. Alcuni mesi prima, il 20 marzo, è nato a Lauffen am Neckar, nello stesso principato del Württemberg, Hölderlin. I destini del più grande filosofo dell’idealismo tedesco e del più grande poeta del Romanticismo tedesco s’incrociano, dal 1788, all’università, nel Seminario teologico protestante di Tubinga, dove stringono una forte e profonda amicizia, che, successivamente, sarà estesa a un altro compagno di studi, più giovane di cinque anni, precoce e geniale, quando questi farà il suo ingresso nello Stift: Schelling. Il carteggio mai interrotto tra i tre, negli anni in cui, subito dopo la laurea, si avventurano nel lavoro precario di precettori, in diverse città (non senza nuovi ricongiungimenti momentanei: prima tra Hegel e Hölderlin, a Francoforte; poi tra Hegel e Schelling, a Jena) testimonia di questa amicizia fraterna che si nutre della condivisione di idee, speranze e progetti e, forse, del sentimento di corrispondere a una missione generazionale. Il cemento iniziale dell’amicizia è, infatti, il fervore per le idee della Rivoluzione francese, coltivate in un club politico nato segretamente nello Stift di Tubinga e di cui diventano membri. Sulla scia di Hölderlin, che già incomincia il suo inseguimento sulle tracce degli antichi dèi “fuggiti” dal mondo moderno, i tre faranno di Dioniso, il dio dilaniato e “risorto” come il Cristo, il loro patrono rivoluzionario, simbolo della rinascita e dello spirito giovanile, e in suo tributo si scambieranno ritualmente, sovente, calici di vino come regalo (uno di questi, l’ha visto chi scrive allo Schiller-Nationalmuseum di Marbach). 

 

Pienamente integrati e in sintonia col policromo e vivace passaggio culturale che si vive in Germania alla fine del Settecento, dal kantismo all’idealismo, dall’Illuminismo al Romanticismo, i tre giovani fremono di fronte alla possibilità di rivolgimenti politici e sociali divenuta più concreta, dopo gli eventi francesi, nella costellazione dei piccoli stati tedeschi retrivi, oppressivi, semifeudali e assolutistici. A tali rivolgimenti, comunque, si sentono chiamati a dare un contributo attivo e ineludibile. Il senso e la direzione di questi rivolgimenti è riassunta da Hegel in una lettera che scrive a Schelling: “Credo che non vi sia nessun altro segno dei tempi migliore di questo: che l’umanità è rappresentata come degna di stima in se stessa. I filosofi dimostrano questa dignità e i popoli impareranno a sentirla; non si accontenteranno più di esigere i loro diritti calpestati nella polvere, ma essi stessi li riprenderanno e se ne approprieranno. Religione e politica hanno vissuto in comunella. La prima ha insegnato ciò che il dispotismo voleva: disprezzo del genere umano, incapacità di esso a realizzare un qualunque bene, ad essere qualcosa con le sue forze” (Berna, 16 aprile 1795). I tre giovani sembrano fiduciosi nella potenza delle nuove idee, nella forza rinnovatrice delle idee stesse come idee della ragione, a cominciare dall’idea di libertà che coincide con la condizione ontologica stessa della coscienza che le concepisce come fini pratici, come compiti. Per questo, ripongono molte speranze nella filosofia che meglio ha espresse quelle idee, la filosofia morale kantiana, e soprattutto in quella svolta “idealistica” di Fichte che si è prefisso di portarla a compimento, e immaginano che la prossima rivoluzione sarà mentale, culturale, non-violenta, e che proprio per questo eviterà le degenerazioni conosciute col Terrore giacobino. 

 

 

Come si evince anche dalle parole della lettera menzionata, nel volgere di quella fine del XVIII secolo, agli occhi di Hegel, Hölderlin e Schelling la partita appare giocarsi nel rapporto tra i filosofi, da un lato, e il popolo, dall’altro. Il progetto illuminista non basta da solo, le idee della ragione non bastano da sole, ma devono essere popolarizzate, devono colpire la fantasia e la sensibilità, e per questo hanno bisogno di un rivestimento estetico, mitico. Ed è quello che si evince chiaramente da un documento che avvolge di mistero la “cospirazione” intellettuale di questi tre giovani: Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco

Ne viene rinvenuto soltanto un frammento, per la prima volta, da Franz Rosenzweig nella Biblioteca Reale di Berlino nel 1927, autografato da Hegel, che però ne potrebbe essere solo il trascrittore. Da allora, il documento rimane al centro di un vero thriller filosofico, di un rebus filologico ancora irrisolto, che ha fatto sì che venisse attribuito, volta per volta, o a Hegel o a Hölderlin o a Schelling o a tutti e tre insieme. Incerta rimane anche la data, comunque collocabile tra il 1795 e il 1797.

 

Di fatto, il frammento che abbiamo a disposizione riflette una sorta di mediazione e di possibile convergenza dei percorsi di ricerca, degli scambi epistolari di idee e dei primi scritti dei tre giovani in quegli anni (Hölderlin è già l’autore dell’Iperione) e ruota sostanzialmente intorno a un progetto di pedagogia popolare e politica. Infatti, dopo aver chiarito che la “prima idea” , da cui partire e su cui fondare tutto, “è naturalmente la rappresentazione di me stesso come un essere assolutamente libero” e che da essa discende l’idea di una comunità di uomini autonomi ed eguali, ovvero “l’assoluta libertà di tutti gli spiriti che portano in sé il mondo intellettuale e non devono cercare né Dio né l’immortalità fuori di sé!”, gli autori del Systemprogramm avanzano la loro idea originale: “noi dobbiamo avere una nuova mitologia, ma questa mitologia deve stare al servizio delle idee, deve diventare una mitologia della ragione”. Una mitologia, cioè, non più fondata su racconti sacri, bensì in un certo senso “postmitologica”, in grado di tradurre i pensieri in simboli, immagini, narrazioni, e avere così più effetto su quella che oggi definiremmo “opinione pubblica”. Il che finisce, per ammissione degli stessi autori, per consegnare il primato all’idea della bellezza, capace di “unificare” le altre idee. Come dirà negli stessi anni Friedrich Schlegel, la Divina Commedia di Dante è vera, perché è bella, non è perché esprime idee cattoliche. Così gli autori del Systemprogramm possono affermare che “l’atto supremo della ragione, quello col quale esso abbraccia tutte le idee, è un atto estetico e che verità e bontà sono affratellate solo nella bellezza” (Hegel?, Schelling?, Hölderlin?, Il più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco, a cura di Leonardo Amoroso, Edizioni ETS, Pisa 2007). 

 

 

Pur cercando di superarne l’astrattezza, questo progetto resta ancora nella cornice di una radicalizzazione dell’illuminismo. Non è ancora del tutto aperto all’esigenza dell’infinito e dell’assoluto, con cui i Romantici, in quel periodo, avvertono il bisogno di superare le opposizioni, le mutilazioni o la meccanicità che la ragione analitica e utilitaristica introduce nella vita individuale e collettiva, con le “separazioni” tra uomo e natura, moralità e istinti, ragione e sentimenti, Stato e interessi particolari. Ma, su questa via, il più audace e pronto ad afferrare la cifra del tempo e di un mondo che, portando a dissoluzione i punti di riferimento religiosi del passato, si esponeva alla perdita di senso ultimo, è sicuramente Hegel. 

Hölderlin affida al sentore pre-riflessivo dell’«Uno-Tutto», dentro e fuori l’universo lirico, il compito di ricomporre le divisioni e i conflitti a cui ci destina la vita cosciente e di consentire così, ancora, nel mondo moderno, di fare esperienza del “divino”. Schelling affida all’intuizione artistica l’accesso diretto all’assoluto, negato alla filosofia. Queste vie sentimentali o estetiche non affascineranno più Hegel. In un mondo che, dopo la Rivoluzione francese, ha accettato la normalità del cambiamento e del progresso e ha accettato la disintegrazione di punti di riferimento e di fondamenti certi, Hegel vede quell’infinito o assoluto nel movimento stesso del mondo, nell’agitazione e nella trasformazione del finito, nelle ferite aperte e rimarginate dalla storia e nella storia. Questo mondo non è altro che la storia del mondo stesso e il suo senso è quello che produce continuamente, autoproducendosi. Se un senso non è già dato o disponibile, e quindi intuibile, la libertà sta proprio nel rendersi disponibili alla sua indisponibilità e all’attiva costruzione a cui ci impegna. Quando nel 1812, nella Scienza della logica, Hegel prenderà le mosse dal concetto di essere, lo farà proprio pensando all’essere puro nel mondo, ovvero all’Uno-Tutto, dell’amico Hölderlin, precisando come l’unico modo per evitare di dover ammettere contraddittoriamente che questo essere puro coincida con il nulla, è quello di considerarlo “dinamicamente” come un divenire, cioè come un qualcosa che comunque è nel suo venire ad essere e nel trapassare. 

 

Se, in conclusione, queste sono le coordinate generali del “sistema” hegeliano, si comprende lo scoglio enorme che, in ogni caso, si è trovato di fronte la lunga schiera di coloro che hanno voluto sottrarsi a Hegel, perché, come disse Michel Foucault nella sua lezione inaugurale al Collège de France, includendosi naturalmente in quella schiera, “sfuggire realmente a Hegel presuppone che si valuti esattamente quanto costi staccarsi da lui; presuppone che si sappia sino a dove Hegel, insidiosamente forse, si sia accostato a noi; presuppone che si sappia, in ciò che ci permette di pensare contro Hegel, quel che è ancora hegeliano; e di misurare in cosa il nostro ricorso contro di lui sia ancora, forse, un’astuzia ch’egli ci oppone e al termine della quale ci attende, immobile altrove”. 

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