Rabbia!

9 Novembre 2012

“Lo so: perché in me è oramai chiuso il demone/ della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco/ sentimento che m’intossica:/ esaurimento, dicono, febbrile impazienza”. Così scrive Pier Paolo Pasolini in una poesia compresa nelle Poesie incivili, appendice al volume La religione del mio tempo. Lo scrittore aveva in mente di pubblicare un libro di racconti con il medesimo titolo; non ne fece invece nulla, e la parola “rabbia” finì in cima a un documentario del 1963. Secondo Emanuele Trevi – ne ha scritto in Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) – la grande prerogativa di Pasolini è proprio la rabbia, ed è questa reazione emotiva, stato di violenta agitazione, che differenzia l’artista, lo scrittore e il poeta da tutti gli altri. Non dunque un difetto, ma proprio un’indispensabile prerogativa.

 

In un piccolo libro, un pamphlet, Dio è violento (Nottetempo), una filosofa, Luisa Muraro, affronta l’argomento, e fa un elogio della rabbia e della violenza in una società, la nostra, in cui, com’è scritto nella quarta di copertina, “è venuta meno la narrazione salvifica del contratto sociale”. Il tema della rabbia sembra tornato in modo prepotente d’attualità. Nei mesi scorsi è comparsa nei titoli dei giornali riguardo la chiusura di fabbriche, stabilimenti, dell’occupazioni di miniere o manifestazioni di piazza. Una rabbia non solo individuale, ma anche, e soprattutto, sociale.

 

Il filosofo Peter Sloterdijk in Stress e libertà (Cortina), sembra indirettamente rispondere alla filosofa femminista. Scrive che nella coesione di una società è fondamentale il livello di stress provato dai suoi componenti, e che il compito dei mass media sembra proprio quello di mantenere alto il livello di inquietudine della collettività; un tipo di stress che, invece di disgregare, crea piuttosto consenso. Non certo attraverso l’adesione a un’ideologia, ma, appunto, intorno a uno stato d’animo. L’indignazione, l’invidia, la presunzione, e anche la rabbia, sono fattori aggreganti e non disgreganti, almeno fino a che lo stress non supera un certo livello, per cui vale la pena di ribellarsi. Allora nella società esplodono atti di ribellione palese, di violenza, come sembra invocare Luisa Muraro. Casi che, tuttavia, si danno raramente, e solo in alcuni momenti della storia umana: le rivoluzioni.

 

La rabbia, quindi, sarebbe per Sloterdjik un elemento di vitalità: i collettivi umani sani s’irritano, s’inquietano e danno in questo modo buona prova di sé. Il problema che il saggio del filosofo tedesco si pone è: “perché la nostra società, così egotica, paranoica e individualista, continua a far sì che gli uomini stiano insieme?”. La rabbia, sostengono gli psicoanalisti, che lavorano per lo più sul livello individuale, è un fattore narcisistico. Heinz Kohut in La ricerca del Sé (Bollati Boringhieri) cita due libri della cultura occidentale in cui la rabbia sembra evidenziarsi allo stato puro: Michael Kohlhaas (1808) di Kleist, dove l’insaziabile ricerca della vendetta manifesta una grave ferita narcisistica, e poi Moby Dick di Melville, in cui Achab è travolto da una implacabile rabbia narcisistica. Kohut si spinge addirittura a indicare nella rabbia dopo la sconfitta nella guerra, e l’umiliazione del 1918, la causa dell’adesione dei tedeschi al nazismo.

 

L’analisi dello psicoanalista è complessa, dal momento che ritiene il narcisismo non colpevole in toto dello scatenamento rabbioso. A suo parere l’aggressività umana è più pericolosa quando si connette a due “costellazioni psicologiche assolutizzanti: il Sé grandioso e l’oggetto arcaico onnipotente”. Per spiegarsi, aggiunge che la più orribile distruttività umana non la s’incontra sotto forma di comportamenti selvaggi, regressivi o primitivi, ma come “attività ordinate e organizzate nelle quali la distruttività umana degli esecutori è amalgamata con la convinzione assoluta circa la grandezza e con la devozione a figure arcaiche onnipotenti”. Cita il caso di Himmler e dei quadri delle S.S., una tesi che richiama inevitabilmente quella della Arendt sulla “banalità del male”: i carnefici sono i pacifici vicini della porta accanto, non dei selvaggi che urlano, sbraitano e compiono atti teppistici. Probabile. Ma il problema della rabbia resta, della sua natura e funzione.

 

Kohut non nega che la rabbia narcisistica appartenga all’ampia zona della aggressività, della collera e distruttività umana, ma, dice, è un fenomeno circoscritto. Leggendo le sue pagine si ha la sensazione che Pasolini rientri in questa categoria; innegabile che dai suoi versi, dai racconti, dalle frasi degli articoli, emani un che di violento, insieme a un’insondabile e assoluta dolcezza: la rabbia è decisiva nella costituzione della sua identità di artista. E allora come interpretare la rabbia che si scatena nelle piazze e nelle strade?

 

Luisa Muraro la invoca; e, per quanto il suo ragionamento sia complesso, è evidente che quella cui s’appella sia la rabbia della rivolta, una delle questioni decisive dei nostri anni. Ha anche trovato i suoi teorici: Furio Jesi, e più di recente un giovane filosofo partenopeo, Pierandrea Amato. In un libro intitolato Rivolta (Cronopio) questi tesse una lode dell’azione rivoltosa, “un effetto che contiene in sé la propria causa”; ovvero nasce e si risolve in se stessa, oltre ogni possibile razionalità. L’opposto dell’idea di rivoluzione, tesa a creare nel futuro il Regno della Libertà. La rivolta sospende ogni tempo storico, come gli operai di Parigi, ricordati da Walter Benjamin, che sparavano contro gli orologi, simbolo dell’odiato tempo di lavoro.

 

Al di là di ogni teoria, è indubbio che l’individualismo di massa delle nostre società fa di noi degli individui isolati, vittime di continui soprusi, piccoli o grandi che siano, per cui la necessità di reagire, di vendicare un torto, di annullare un danno subito, porta a reazioni rabbiose. Non ci sono più le grandi banche del rancore e del risentimento, come le chiama Sloterdijk in Ira e tempo (Meltemi), le chiese cristiane e il comunismo, a trattenerci e consolarci. Oggi ciascuno è solo con la sua rabbia. Ed è subito sera.

 

 

Larticolo è apparso su La Stampa.

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