Liliana Moro: ricordi in bianco e nero

19 Maggio 2014

Milano, via Rucellai. Periferia Nord-Est nella zona di Precotto: qui Milano diventa un po’ meno milanese per assomigliare a tutte le periferie delle grandi città. Ampie strade, case che si succedono in una geometria cadenzata, grandi supermercati e fabbriche dismesse. Ma nello stesso tempo una panetteria all’angolo, un kebab, i ragazzini che tornano da scuola con gli zaini colorati sulle spalle: non si vedono persone in giacca e cravatta. La vita, quella vera, è più tangibile. E pare un luogo della città più personale. È qui che ha deciso di stare Liliana Moro, una delle artiste italiane attualmente più apprezzate. Il perché delle sua scelta me lo spiegherà lei stessa nel nostro incontro svoltosi nel suo studio. Ma già dal momento in cui apre il portone risulta evidente: Liliana è una persona intelligente ed aperta; interessata a chi ha di fronte, le brillano gli occhi mentre parla del suo lavoro e della sua vita.

 

Liliana Moro studio

Ritratto di Liliana nel suo studio, aprile 2014

 

Nata a Milano nel 1961, non si è mai allontanata dalla città se non per brevi periodi: «E' qualcosa di innato. Io mi sento molto questa città», mi spiega mentre beviamo un caffè. E, in effetti, ripercorrendo insieme la sua storia personale ed artistica, Milano è sempre presente.

La prima casa è stata in zona Stazione Centrale. Dell’infanzia mi racconta di avere soprattutto ricordi olfattivi, memoria di una Milano industriale, quando l’economia della produzione era ancora tangibile in città. Così, dietro casa, si trovava la fabbrica della Tre Cuochi, «con l’altissimo muro sovrastato dai cocci di vetro e un odore di zafferano che non ho mai dimenticato, quasi da dar fastidio». Viale Romagna, da ottobre, era il profumo di panettone. La zona di Greco sapeva di tortellini.

 

Le immagini che permangono visivamente, invece, sono in bianco e nero. Nel 1968 Bruno Munari aveva dedicato alla famigerata nebbia un libro per bambini, Nella nebbia di Milano (Edizioni Emme, Milano 1968), dove, attraverso sottili fogli di carta semitrasparente, si attraversava la città, verso la periferia, a bordo di un tram. «Era davvero così», mi racconta Liliana sorridendo, «la nebbia la beccavo tutte le mattine per andare a scuola, alle elementari. Non si vedeva niente, per cui tu uscivi da casa per mano alla mamma e facevi la strada a memoria perché eri veramente avvolto». Architettura industriale e nebbia. Questa era Milano negli anni Sessanta, dalla cui grigia coltre lattiginosa emergeva una borghesia illuminata, che è stata protagonista del fermento culturale di quegli anni. Tanti erano gli eventi in cui si incontravano queste personalità, ma mai come il giorno della Prima della Scala: «sempre con i ricordi in bianco e nero, durante il Sessantotto, ho l’immagine dei contestatori che tiravano le uova sulle pellicce. Sia che tu lo guardassi dalla parte della borghesia, sia che tu lo guardassi dalla parte della contestazione, questo evento scandiva una ritualità, in cui sentivi di far parte di qualcosa di grande. Era in momenti come questo in cui ti sentivi davvero milanese».

 

Ma la nebbia significava anche un’aria immobile e pesante, per cui «non tirava un filo di vento». Questa pesantezza ci porta agli anni Settanta. Gli Anni di Piombo. C’è una data che segna questo passaggio e che rappresenta una ferita indelebile per la città: 12 dicembre 1969. La strage di Piazza Fontana. Liliana Moro aveva solo otto anni, ma il suo ricordo è vividissimo: «dal momento che ero troppo piccola per parteciparvi di persona, ho visto le immagini dei funerali alla televisione. Mi sono commossa, perché era presente tutta la città. Piazza del Duomo era nera, con questa pioggia, questa nebbiolina di persone tutte milanesi: le persone, i cittadini, non le istituzioni. E questo silenzio immenso».

 

Liliana Moro anni di piombo

Anni di piombo 2010. Chiave fissa del 32, vernice spray cromo oro

 

Sono succeduti anni in cui «accadevano cose molto forti, che erano visibili e che erano violentissime». Un’adolescenza in cui non si andava al cinema di sera per via del coprifuoco, ma si partecipava alle manifestazioni. Poi anche questo momento è passato, l’ideologia si è spenta. Tra le cause, non ultima, quella dell’eroina: «l’eroina è un fiume che hanno buttato per bloccare una generazione che era quella più vecchia della mia e che era dentro anche al terrorismo. È stata bloccata, minando dall’interno anche gli ideali. E ci è finita dentro anche la mia generazione».

 

Alla morte dell’ideologia corrisponde un nuovo periodo, ovvero la “Milano da bere” degli anni Ottanta. Rampantismo e locali alla moda. Nel frattempo nella vita di Liliana avvengono due cambiamenti: si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Brera, diventando allieva di Luciano Fabro e si trasferisce a vivere in Via Breda, zona Greco: «avevo una splendida vista su una porzione della città e ho utilizzato molto questa visione nel mio lavoro». Nel 1986 realizza la sua prima opera, Scatole nere: si tratta di quattro scatole di legno al cui interno sono nascosti quattro registratori che trasmettono i suoni della città. Come nelle scatole nere degli aerei, è riportata una testimonianza «dello spazio, del luogo della mia quotidianità». Milano è restituita attraverso «uno sguardo acustico», come lei stessa lo definisce. Per realizzare questo lavoro gira per le strade del quartiere con un microfono, registrando il brusio di fondo, l’insignificante disturbo che accompagna distrattamente i cittadini: le frenate delle macchine, il vociare dei passanti, il chiasso del supermercato sottocasa. Il tutto cadenzato dal ticchettio della sua sveglia. La sensazione è di assistere ad un presente che pare congelato in quella dimensione: familiare, irripetibile.

 

Liliana Moro Nebbia Milano

Foto scattata da Liliana tra gli anni 1990 – 1993, da via Breda, dove viveva

 

Con quest’opera, che costituisce anche la sua tesi di laurea, si chiude il periodo dell’Accademia. È il 1989 e con altri compagni (tra cui Mario Airò, Stefano Dugnani, Bernahard Rudiger e Adriano Trovato) decide di aprire lo Spazio di Via Lazzaro Palazzi. In zona Garibaldi c’era la Casa degli Artisti diretta dal 1978 da Fabro, insieme a Hidetoshi Nagasawa e a Jole De Sanna. Il fatto di fondare uno spazio proprio, in autonomia dal maestro, rappresenta una duplice volontà: «non rimanere soli dopo l’Accademia e mettere in campo le nostre idee, i nostri pensieri, i nostri lavori. Volevamo essere noi gli attivi, ora». Tutti facevano i lavori più svariati per pagare il salato affitto in zona Porta Venezia. Ma la zona era strategica: c’era il metrò ed era raggiungibile facilmente dalla Stazione Centrale. Inoltre, a poche centinaia di metri si trovavano la Galleria Stein, «roccaforte dell’Arte Povera», la Galleria di Massimo De Carlo e quella di Giorgio Marconi. L’importanza del luogo emerge anche dalla scelta del nome dello Spazio, come a dire: il comune denominatore è il luogo, non la poetica. «La nostra attività era espressione di una totale libertà»: in una realtà artistica frammentata ed eclettica, si assiste alla messa in scena dei linguaggi e delle tecniche più disparate. È in questo momento che fondano anche la rivista Tiracorrendo: «ogni artista invitato era estremamente libero, poteva fare ciò che voleva, se non per il vincolo di un foglio A4 con possibilità di un’immagine in bianco e nero e uno scritto». Il foglio viene distribuito in tutta Italia e da tutta Italia accorrono lì, in via Lazzaro Palazzi, per la festa di inaugurazione.

 

Nel 1990 gli artisti dello Spazio vengono invitati a realizzare una collettiva alla galleria di Massimo De Carlo, per cui scelgono il titolo Avanblob. Lavorano su una totale modificazione dello spazio e Liliana Moro interviene girando i cassetti della scrivania del gallerista; in uno vi inserisce duecento termometri clinici con una luce che li illumina. L’opera si intitola Svegliatevi, un’esortazione rivolta ai cittadini e alla società in generale ad alzarsi da una situazione di torpore ed immobilismo. L’esperienza di Via Lazzaro Palazzi si chiude nel 1993: «negli anni sono iniziate le prime spaccature, riguardanti anche il rapporto con il sistema. Il nostro pensiero era: nel sistema dell’arte puoi stare, ma in una determinata maniera, ovvero mettendo come punto principale la libertà di scelta. Al centro era il valore dell’opera, ma non nel senso economico».

 

Liliana Moro Svegliatevi

Svegliatevi 1990. Termometri clinici, lampadina. Per la mostra Avanblob alla Galleria Massimo De Carlo, Milano

 

Quelli che seguono sono anni di cambiamento e di passaggio. Berlusconi vince le elezioni nel 1994 e nello stesso momento, in Italia, sembra iniziare un periodo di disimpegno culturale: «tra il ’95 e il ’96 hanno smesso di scrivere d’arte, per raggiungere l’apice nei primi anni Duemila. In quel periodo c’è un buco. Quelli della mia generazione: spariti». Per Liliana l’arte continua comunque ad essere un mezzo per continuare l’impegno sociale, «d’altra parte il mio lavoro ha sempre avuto una forte linea politica. Ho iniziato in terza media, con la prima manifestazione, a sentire l’esigenza di uno sguardo politico rispetto alla mia vita. Di pormi come essere in ascolto». L’arte è il mezzo per dare voce a determinate situazioni. È del 2001 Ognuno ha una casa, progetto realizzato nell’ambito dell’iniziativa Zingonia – arte integrazione multiculture, volta all’incontro con le comunità straniere che vivono nel difficile quartiere di Zingonia, in provincia di Bergamo. Il lavoro nasce da un laboratorio tenutosi con i bambini sull’idea di casa, per cui è stata messa a loro disposizione una casetta di carta da arredare: «a questi bambini di sei anni ho voluto trasmettere il messaggio che tutti hanno il diritto di avere una casa», portando in essa la propria specificità culturale.

 

Liliana Moro Scatole NereScatole nere  1986. Legno, grafite, 4 registratori con 4 sonori

 

Guardiamo fuori dalla finestra i tetti di Precotto e viene quasi automatico parlare del presente. Liliana Moro ha lo studio qui, in via Rucellai, dal 1997 e mi confessa di non avere alcuna intenzione di spostarsi: «oltre al fatto che questa è la mia zona, nello stabile siamo in buona parte artisti e il proprietario ha il piacere di venire incontro alle nostre esigenze».

Affianca alla sua attività di artista l’insegnamento allo Iuav di Venezia e alla Carrara di Bergamo. Proprio per questo conosce molto bene le difficoltà della generazione dei giovani d’oggi, ma è critica verso chi va all’estero credendo ciecamente in una Terra Promessa: «l’unica azione diventa quella di prendere e andare. Ma molti vanno e non pongono delle nuove azioni. E alla fine ci si ritrova con lo stesso problema che in Italia, ma con difficoltà in più». Invece, ciò che può fare la differenza adesso, come in passato, è «la volontà di mettersi in gioco. Inventarsi qualcosa di diverso e proporlo. Perché forse un altro modo c’è. Richiede uno sforzo in più, ma c’è. Non bisogna temere di sbagliare, perché lo sbaglio comporta comunque una messa in relazione».

 

Ed è proprio dalla relazione che può partire il cambiamento.

 

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