Speciale

L'Alunno perfetto / Agostino, l’ego e la disputa

29 Gennaio 2018

Ma davvero, prof, lei ci sta dicendo che tutti i filosofi che faremo adesso se ne fregheranno della vita? Risposta: ma…sai…non è proprio così…forse è più complesso...NO! Più complesso no, non devo usare questa espressione, non me la posso cavare anch’io così! Negli incubi di un insegnante di filosofia, razionale e ragionevole certo, ma pur sempre gravato dalle ansie proprie della sua spoglia mortale, c’è un fantasma che aleggia ogni mattina, o almeno tutte le volte che ci si trova sul punto di affermare qualcosa che non è pienamente indubitabile: l’Alunno perfetto. Questa sorta di infido spettro, che esiste quanto l’onniscienza, che si manifesta concretamente quanto la felicità eterna e che alzando la mano dice: “Scusi se mi permetto, ma che l’orfismo non abbia anche una fisionomia cosmologica è smentito dal Papiro di Derveni. Che, tra l’altro, leggiamo dal 1962.” L’improbabilità di un evento del genere, avvalorata dal ricordo indelebile di quell’altro alunno che, alle medie, non sapeva quali fossero le vocali dell’alfabeto, non dovrebbe diminuirne il peso, perché certi stati emotivi, anche quelli dei professori di filosofia, non sentono ragioni. Uno al mattino si ritrova davanti allo specchio a ripetersi i suggerimenti di Democrito sullo stabile assetto dell’anima, che non dovrebbe essere sbatacchiata e sballottata qua e là dagli eventi, poi esce e si trova steso a terra dalle martellate della paura di non essere degno dell’Alunno perfetto. 

 

Costui vuol sapere, dopo tanti troppo umani e troppo italiani, tutt’altro che protesi ad aumentare quel venti per cento di laureati nazionali, perché mai dopo la filosofia antica, dopo la Scolastica medievale, dovrebbe dimenticare gli esercizi spirituali e l’idea di filosofia come pratica di vita. Anche gli imperfetti, ossia gli studenti reali, confermerebbero, perché già i genitori ripetono che la filosofia raramente ti procura un mestiere, poi finiamo anche per scindere pensiero ed esistenza! E allora ditelo che volete solo annoiarci e imbottirci di mere informazioni! Ma no ma no, un po’ di saggezza vissuta ci sarà ancora, magari emarginata da tanta speculazione gnoseologica, e tenacemente resisterà. Prendiamo la fine dell’antichità e l’inizio del Medioevo: la filosofia di Agostino è l’esempio del matrimonio riuscito, nonostante gli esiti potessero essere diversi tra filosofia greca e cristianesimo. Non essendo un seguace di Aristotele, ma di Platone, il Doctor Gratiae è interessato più alle questioni della salvezza e dell’etica che a quelle scientifiche, ma soprattutto è attratto dai grandi temi che ancora oggi affascinano la cultura contemporanea e gli studenti stessi: il corpo, l’amore, il dissidio tra ragione e volontà, l’interiorità come sede di una verità che fuori non si può cogliere.

 

Quale studente non si trova alle prese con il problema di dover adeguare ciò che sa esser giusto con ciò che è più agevole da compiere e mettere in pratica? E quale ragazzo non vive in questo dualismo la contesa interiore da cui può nascere la sua identità? Perché a sedici e diciassette anni il tema della formazione del carattere, dell’etica o in generale dell’io può essere molto più interessante di quello della corrispondenza tra le idee e la realtà. Ma anche perché un insegnante dovrebbe far di tutto per non annoiare e non tollerare il distante senso di approvazione che recitano i loro piatti silenzi. Torniamo alla vita. 

 

 

Ci sono molti modi per restare nei dintorni degli studenti. Una volta c’erano le interrogazioni tutti i giorni, i compiti quotidiani, le verifiche a sorpresa o quelle frequenti. Si può continuare a fare così, per carità. Oppure, ma non sto dicendo che questo sia meglio, si possono utilizzare i suggerimenti attualizzanti del Ministero; ad esempio si aprono le piattaforme digitali e si trasferiscono i ragazzi, attraverso la classe virtuale, sul cellulare. La puoi chiamare rivoluzione digitale, oppure stalking. Accendi lo smartphone e leggi le notifiche: c’è quello che ha consegnato la verifica, quello che ha schiacciato il mi-piace sul link che hai proposto, quello che ti chiede di spiegare meglio la domanda del questionario, quello che dà la colpa di tutti i mali alla “Tecnica dell’Occidente”, a partire dal fatto che non è riuscito a scrivere le risposte del compito. Ma c’è anche la possibilità di proporre delle letture degli autori che possano incontrare il loro interesse, sollecitare le loro risorse emotive, magari anche rianimare le motivazioni. Per la filosofia antica Pierre Hadot funziona benissimo. Questo filosofo francese, come anche l’ultimo Foucault e lo Sloterdijk di “Devi cambiare la tua vita”, rompe con l’immagine tradizionale del pensatore gobbo sui mattoni di mille pagine, perso in astrazioni e acrobazie concettuali inutili. Nulla di più accattivante per uno studente medio di sedici anni che non vuole scalare nessuna montana, lenta e gravosa indagine. Dunque accoglie distrazioni umoristiche, pretende tecnocentrismo efficace, recepisce con diletto cinema e musica, trangugiando pazientemente i bambini con i pigiami rigati ogni primo mese dell’anno (cara giornata della memoria, resisti). 

 

Tutto diventa possibile, nell’ascolto incantato delle sirene della seduzione didattica, tutti gli arpionaggi sono segno di estro didascalico, ogni aggancio è coraggioso. Facile, parlando di musica leggera, reperire il cavallo selvaggio di Platone nella canzone Diavolo in me di Zucchero, la provocazione dei cinici come Diogene di Sinope in Largo all’avanguardia degli Skiantos, l’amicizia di Epicuro in Amico carissimo di Cocciante, lo scetticismo antico in Altrove di Morgan, la volontà debole agostiniana nell’incipit della canzone La verità di Brunori Sas, l’empatia di Bartolomeo de Las Casas in Mio fratello che guardi il mondo di Fossati, la Wille di Schopenhauer nella Forza della vita di Vallesi, la critica greca e cristiana ai piaceri effimeri in Vanità di vanità di Branduardi, la scommessa di Pascal nel “proviamo anche con Dio/non si sa mai” di Ornella Vanoni, l’utilità del dolore in Anima di Damiano, l’ateismo di Feuerbach nel Blasfemo di De André e qui mi fermo, se no finisce che accosto Walter Benjamin a Nek (l’aura non c’è/è andata via). Si tratta solo di non arrendersi all’idea, che mi viene sbandierata perfino da qualche genitore, secondo cui sarebbe un ingenuo donchisciotte chi volesse decomporre il nesso studenti-sguardo triste da animali in gabbia. La cultura non si misura dalla quantità di noia che produce; e se spieghi ai ragazzi, ad esempio, il tempo agostiniano come dispiegamento dell’anima, non devono immaginare che, dopo le ore di sforzo a restar desti, esista una sorta di plebea volgarità che magari fuoriesce dalle orecchie e permette loro, solo perché liceali, un fiero accesso al tempio dell’aristocrazia spirituale. Mi annoio, ma almeno sto costruendo qualcosa di grande e di unico: ci sono ragazzini di quattordici anni che osservano l’orizzonte, fanno una pausa di cinque secondi e ti parlano del proprio “percorso”.

 

Agostino esistenzialista e psicologo, Agostino duellante inquieto contro il tuo sottosuolo dostoevskijano: aiutaci tu. Più introspezione, meno narcisismo, meno illusioni megalomani. Se si tiene la bestia dell’ego al guinzaglio dell’eredità e dei doveri verso gli altri (il cielo, il cosmo, il passato, i sapienti, la società, che ne so...), se si evita di allevarla solo a sogni e forma aristotelica o anima o real self da realizzare o mettere in atto, si può anche favorirne una formazione civile e morale decente, oppure un esito che non sia una raccolta di nozioni sparse su un tappeto di ambizioni velleitarie. 

 

Nelle Confessioni Agostino si lamenta, tra l’altro, del fatto che nei suoi primi anni d’insegnamento gli studenti lo bersagliassero di scherzi cattivi. Gli scherzi che subisco io sono invece sagaci provocazioni, piccoli attentati all’autorità dei pensatori che presento: no, prof, non mi dica che le piace Agostino. Ma come può non piacervi un filosofo così legato al tema della conversione e della vita vera e beata? Semplice: giustifica le conversioni forzate, giustifica la guerra, prima fa il donnaiolo poi il sessuofobo, obbedisce alla madre e manda a quel paese la donna con cui è stato tanti anni e con cui ha fatto un figlio, non cita mai il padre solo perché era pagano, fa il frignone perché ha rubato un paio di pere, nega che l’uomo possa agire bene da solo, è un egocentrico ossessivo! Zero, prof, era meglio quell’altro, quello dell’anima sospesa. La parte non discesa dell’anima, intendi, di Plotino, che chiama l’anima “ultima dea”. Sì prof, e quell’altro che diceva “aiutati che il ciel t’aiuta”. Pelagio non disse proprio così. Va be’, però era più figo lui. E poi Agostino è troppo paolotto, ossessionato dalla libidine; il quadro che ci ha fatto vedere (il Giardino delle delizie di Hieronimus Bosch, il pannello centrale), quello pieno di corpi nudi, non so se ci doveva spaventare: a me è piaciuto tantissimo. 

 

L’alunno perfetto si erge a critico inflessibile, giganteggia sulle spalle del gigante creduto nano, denigra il pensatore agli occhi della classe e sollecita l’insegnante all’apologia, non di un accusato qualsiasi, ma di un prestigioso innovatore, di uno che pose le basi culturali dell’Europa cristiana, lasciò più di cinque milioni di parole scritte e dunque non può essere ridotto a tre o quattro difetti che avvelenerebbero tutto il suo pensiero. Ma sono stato io in classe a dire che in filosofia dobbiamo diffidare dai punti esclamativi, dalle certezze appaganti e delle acquisizioni dogmatiche e che perfino il mio parere poteva essere messo in discussione dagli studenti. 

 

Nelle università medievali non disdegnavano questo ardore della critica, anzi il magister proponeva la questio e si attendeva che i muscoli della mente degli altri maestri, dei baccellieri, a volte anche degli studenti si esercitassero proprio nell’opera di svisceramento del problema sollevato. Non è troppo arduo immaginar di esser lì con loro. Il maestro annuncia il tema e precisa gli elementi nei quali può essere diviso attraverso la forma dell’interrogazione, che servirà a dirigere la discussione. Poi, i convenuti presentano le loro argomentazioni sugli articoli del problema e il maestro risponde alle obiezioni nella stessa sequenza in cui vengono sollevate. Insomma, la scolastica medievale, che sappiamo essere legata alla tradizione e alla sua autorità, crede anche nel progresso del sapere attraverso un lavoro cooperativo: espongo il tema, lo difendo contro chi lo attacca, propongo infine una soluzione che convinca i presenti. Anche Jacques Le Goff (in Le Goff, Intellettuali nel medioevo, Mondadori 1984, p. 97) citando un certo padre Glorieux, parla dei rischi del maestro: “E questo è per il maestro il grande pericolo. Le domande o le obiezioni possono venire da tutte le parti, ostili o curiose, o anche maligne, poco importa. C'è chi può interrogarlo in buona fede, per conoscere la sua opinione; ma può darsi vi sia anche qualcuno che tenta di metterlo in contraddizione con se stesso o di obbligarlo a pronunciarsi su argomenti scottanti che egli preferirebbe ignorare. Talvolta sarà uno straniero curioso o uno spirito inquieto; talaltra un rivale geloso o un maestro malizioso che tenterà di metterlo in imbarazzo”. O pazzi sogni da oratore nel deserto! Che ai forzati dell’istruzione debbano essere assegnate tali incombenze è pura prepotenza! E l’alunno perfetto non esiste. 

 

Vita da mediano e vorlesung, ossia sermone frontale, consueta tentazione; gli studenti, prima di mettersi a fronteggiare la cattedra, chiamali fessi, ci vogliono pensare mille volte. Che si affrontino tra di loro allora! Che discutano e dibattano secondo regole precise, formati ed addestrati, ascoltandosi e rispettandosi, ma dando il massimo per difendere i propri argomenti. Non è solo ciò che accadeva in certi dialoghi platonici, ma anche ciò che il Miur e il movimento di Avanguardie educative chiamano “debate”, un metodo didattico per attivare cooperazione, ascolto, rigore logico, argomentazione, attenzione alle fonti, creatività, pensiero critico, valutazione tra pari: insomma, tutto ciò che nessuno di noi ha visto in un dibattito televisivo negli ultimi vent’anni (forse di più). Io lo usavo già alle medie qualche anno fa, quando ancora non era scoppiata l’attuale moda e quando potevo chiamare un laboratorio “Vinci se mi convinci”, senza illudermi di essere in grado di proporre una didattica che unisse competizione e cooperazione, dialettica e rispetto, cervello e corpo. Nulla di nuovo, nulla da copiare alle scuole anglosassoni che usano il “debate” come materia curricolare. Bastava ritornare alle università medievali, come abbiamo visto, o ancor prima alla retorica romana di Cicerone e Seneca, a quella greca di Gorgia e Protagora. Ecco che si ripresenta quell’alunno che si lamentava della sparizione della vita dalla filosofia: ecco che torna quella vita; tornano il corpo, la persuasione, la prima persona, la passione. Un giorno un amico fece lo spiritoso assimilando il mio lavoro alla sartoria: “Filo-sofia? Che cos’è? Insegni a cucire?” Pensai che si trattasse di una bella immagine: occuparsi delle cuciture, delle tessiture, dei fili, logici o meno. Occuparsi dei legami, dunque, delle associazioni tra cose remote o solitamente irrelate, dando ragione, oppure torto, al poeta Caproni: “Da un pezzo me ne sono accorto/la ragione è sempre dalla parte del torto”.

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