Reportage e autofiction / Friedrich Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi

18 Dicembre 2018

Friedrich Glauser è stato certamente uno dei più intensi, poliedrici e raffinati scrittori di lingua tedesca del Novecento. Conosciuto soprattutto per i suoi romanzi polizieschi, giunti in Italia a distanza di più di cinquanta anni dalla stesura e grazie a un interesse “di ritorno”, è autore di moltissimi racconti, di un romanzo della legione straniera, di testi autobiografici e critici, sparsi su riviste e giornali, altri del tutto inediti. In Italia una prima pubblicazione della raccolta Dada, Ascona e altri ricordi [Dada, Ascona und andere Erinnerungen] avviene negli anni Ottanta, quando Sellerio, meritevolmente, sceglie di presentare al pubblico italiano gli affreschi qui raccolti di una Svizzera degli intellettuali: tra le pagine spuntano Hugo Ball, Hemmy Hennings, Tristan Tzara e il Dada, Ascona e della “fiera dello spirito”, tutto per denunciare l’ipocrisia di chi si ritrae dal mondo parlando per il mondo. E ancora: la legione straniera, cui in seguito Glauser dedicherà il grande romanzo, Gourrama e alcuni racconti anche polizieschi, qui presente nel lungo racconto Nella rocciosa valle africana. L’edizione di Casagrande ripropone ora questi testi dello scrittore che giocano sul sottile limine tra reportage e autofiction, per essere e restare pertinacemente testi di impegno ed eversione sia nell’espressione più evidente, sia negli intenti talvolta parodici o nell’ironia tagliente e nel disincanto rispetto alla crudezza e alla disumanità della condizione umana, ma ha inoltre il grande pregio di inserire nel volume il racconto Sul fondo, che fa da perfetto raccordo cronologico e tematico e conduce il lettore al testo di chiusura Tra le classi, un resoconto del periodo passato in Belgio come turnista non qualificato in miniera, in cui anche la locuzione stessa “lotta di classe” si infrange sulla stanchezza, i conflitti latenti, le piccole manipolazioni giornaliere del microcosmo operaio. 

 

La scuola dell’ipocrisia

 

Il percorso dunque, partendo dagli anni dell’adolescenza, racconta la biografia intellettuale di uno scrittore, poeta, giornalista e critico letterario che arriva all’idea di impegno politico a seguito di un proprio conquistato equilibrio dinamico di sensi e situazioni di vita. 

 

“La sola cosa durevole che conserviamo della nostra giovinezza sono le immagini, sopite in noi. A volte non è che un odore, una canzone, un sapore a destarle. Ma poi d’un tratto le vediamo con una chiarezza quasi accecante, incomparabilmente limpide e distinte, e solo tramite loro, tramite quelle immagini rivivono le sensazioni di un tempo. Allora è possibile che a poco a poco ci torni alla mente l’evento legato a un’immagine, non con la stessa forza di allora, perché è stato sepolto dagli anni; eppure ci resta il ricordo del timore impaziente che avevamo provato a quel tempo. È dolce e amaro, come un forte caffè turco. A volte può essere bello andare «alla ricerca del tempo perduto».” (p. 11)

 

Il collegio rurale da uno spunto autobiografico racconta di uno dei collegi rurali che si dicevano dedicati all’educazione armonica della persona, in contrasto con la tanto criticata scuola di impianto autoritario. Glauser, nato a Vienna nel 1896, fu inviato a quattordici anni nel collegio di Glarisegg, nella speranza che un’impostazione pedagogica moderna e attenta ai bisogni dell’individuo lo aiutasse a mitigare e gestire la fragilità caratteriale che il padre, in particolare, leggeva in lui. Frequentò per tre anni, per poi essere espulso nel 1913, ufficialmente per “debiti”. In realtà alcune testimonianze e lo studio biografico di Gerhard Saner riportano come causa dell’espulsione un tentativo di suicidio, il primo di molti. A sua volta questo atto di autolesionismo, afferma Saner (Friedrich Glauser. Eine Biographie, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1981), era legato all’imbarazzo provocato dalla denuncia, da parte di un insegnante, di una presunta relazione omoerotica tra Glauser e un compagno. Di fatto segnava il riconoscimento della difficile condizione psicologica del giovane Glauser, già dotato di una sensibilità artistica e umana fuori dal comune, e l’avvio di una travagliata vicenda di ricoveri e marginalizzazioni, di una vita da outsider e di ripetuti tentativi di conciliare la percezione pungente della violenza della società e la propria continua sensazione di inadeguatezza.

 

 

Poiché la vicenda biografica, inclusi i suoi protagonisti, è molto ben delineata e riconoscibile, l’azione di protesta di Glauser è estremamente netta e incisiva, oltre che sfacciata. I collegi rurali erano istituzioni che si vantavano di proporre sistemi educativi e pedagogici di grande modernità e attenzione all’individuo. Il racconto di Glauser contraddice dalle fondamenta l’immagine che la scuola dava di sé nello specifico, e critica l’ipocrisia delle istituzioni scolastiche “moderne”. Non bisogna dimenticare che il racconto è ambientato in quegli anni in cui il sistema educativo ispirato ai principi guglielmini è oggetto di critica da parte degli intellettuali, e diventa un topos letterario. Il professor Unrat di Heinrich Mann (da noi L’angelo azzurro), Sotto la ruota di Hermann Hesse, L’origine del male di Leonhard Frank, sono solo alcuni romanzi in cui gli insegnanti interpretano l’educazione come violenta repressione delle pulsioni piuttosto che come stimolo alla realizzazione delle inclinazioni individuali. Rovesciando dunque il cliché della pedagogia “moderna”, Glauser inserisce chiaramente in questo filone il suo racconto “Conoscete I turbamenti del giovane Törless di Musil? Se desiderate saperne di più sulla vita nei collegi, vi consiglio di leggere questo libro.” (p.28).

 

Né però possiamo dimenticare che, sebbene ambientato all’inizio del Novecento, il racconto esce nel 1935, anno in cui i nazionalsocialisti sono ormai al potere e divulgano la disciplina della classe dirigente nelle famigerate NAPOLA, i collegi di impostazione autoritaria hitleriana, in cui umiliazione, disciplina e dosata autonomia sono veri e propri strumenti di ricondizionamento psicologico. Glauser dunque, sempre molto critico nei confronti non tanto del sistema sociale quanto dell’ipocrisia ad esso sottesa, lavora non sullo stereotipo del professore cattivo o violento, ma decostruendo lo stereotipo positivo della scuola libertaria, di fatto inadatta e non ancora davvero svincolata da dinamiche educative categorizzanti e manipolatorie, non esenti anche da punizioni corporali. Nell’anno in cui il racconto viene pubblicato un ex-studente della scuola, Rudolph Guhl, studente di medicina, scrisse una lettera espressa a Friedrich Glauser. La lettera raggiunse Glauser, che all’epoca aveva appena terminato il suo primo romanzo con protagonista il Sergente Studer, mentre risiedeva nella “colonia” Anna Müller, nel cantone di Berna, un istituto psichiatrico di avanzate vedute. Lo spunto per la lettera di Guhl era appunto il racconto Il collegio rurale, pubblicato sullo “Schweizer Spiegel” nel 1935: “Sarà però forse che “lei e i suoi compagni” siete stati una “banda singolare” così che gli insegnanti di allora si sono trovati costretti a misure particolari”, ma niente, secondo Guhl, era “così terribile come lei lo descrive nel suo articolo.” In un impeto di rivalsa lo studente compie un gesto di critica letteraria inconsapevole, ma efficacissimo: “Lei semplicemente non ha raccontato i lati buoni… così che questo articolo sia screditante” (J. Oelkers, Quo vadis Reformpedagogik. Discorso tenuto al congresso Arche Nova, 15. Oktober 2011).” Glauser risponde con grande semplicità di aver frequentato il collegio per tre anni e di aver scelto un punto di vista specifico, personale. Giocando infatti tra il tono diaristico e alcune riprese a focalizzazione apparentemente esterna, il racconto scorre limpido, asciutto, decostruendo anche stilisticamente la “retorica della bontà dei collegi rurali”, e comunicando senza appello le sensazioni inascoltate e l’inadeguatezza della scuola. 

 

Da-da

 

Allo stesso modo, il gioco tra memoir e racconto nel testo seguente, in cui la nascita del DaDa viene fissata nel momento in cui Tristan Tzara si volle dichiarare inabile alla leva mimando una crisi psicotica, apre al lettore il livello della critica sociale solo nel rapporto con il disagio mentale, la fragilità di cui Glauser aveva sofferto e soffriva veramente, tanto che passò la vita entrando e uscendo dalla dipendenza. All’epoca, sia per la consuetudine con la morfina, sia per gli sviluppi ancora minimi della scienza psichiatrica, era difficile riconoscere che la dipendenza arrivava dopo l’insorgere di una sindrome di disagio relazionale grave. Oggi è più facile riconoscere in trasparenza nei racconti e nel genio dello scrittore una situazione di estrema fragilità mentale, forse non una “dementia praecox” come gli fu diagnosticato, ma una complessa sindrome maniaco depressiva o un disturbo borderline di personalità. 

 

 

 

La grande paura

 

Proprio il racconto che in questo volume di Casagrande rappresenta l’aggiunta rispetto al volume Sellerio dallo stesso titolo degli anni Ottanta, su questo dice molto. Sul fondo narra, come gli altri testi, un episodio dallo spunto autobiografico. Per sfuggire alle condanne, Glauser si convinse a entrare nella Legione straniera. Furono anni duri, di grande apatia affettiva e isolamento, che Glauser racconta in molti testi brevi (18 solo quelli pubblicati in vita!) e nel suo grande affresco, il romanzo Gourrama.

 

Al ritorno dalla Legione, il reinserimento fu difficile, tornare alla carriera giornalistica sembrava impossibile, recuperare uno status di intellettuale ancor di più. Sul fondo mette in scena un’esperienza di “lavapiatti” di Glauser, un lavoro sottopagato, duro. Un suo primo momento di contatto con il mondo europeo, e un accenno di una nuova amicizia che, così ci viene detto, si conclude brutalmente perché non riesce a resistere a un furto. Il senso di colpa e di inadeguatezza si innestano in un complessissimo tessuto letterario, apparentemente limpido, ma in realtà talmente ricco di richiami intertestuali e citazioni da farne quasi un pastiche. Glauser fa il plongeur, cita dunque Rimbaud e insieme Orwell e il suo Down and out in Paris and London (Trad. it. di Senza un soldo a Parigi e a Londra, Mondadori, trad. Isabella Leonetti), in cui leggiamo: “Sto cercando di considerare il significato sociale della vita del plongeur. Penso si debba cominciare col dire che il plongeur è uno degli schiavi del mondo moderno. Non che ci sia bisogno di versare lacrime su di lui, perché economicamente sta meglio di molti altri lavori manuali, ma comunque non è più libero di quanto lo sarebbe un uomo che viene comprato e venduto”. C’è di più. Glauser descrive l’albergo di lusso come se si trattasse di una nave passeggeri: in sala macchine o nella stiva, stanno i disperati, e sopra si balla, quindi non manca di ricordare la letteratura d’avventura che era tipica del suo periodo, primo fra tutti Bruno Traven, che in La nave morta fa di questa differenza tra sopra e sottocoperta un simbolo della propria posizione politica, della reificazione della persona, della riduzione dell’individuo ai suoi documenti di identità, proprio come ricorda anche Glauser ripetutamente nel racconto: 

 

“Gli «ospiti», disse, erano andati a letto da un pezzo; se volevo dormire lì, dovevo «essere a disposizione» non più tardi delle sei, o non avrei avuto alcuna speranza di trovare alloggio. Ma quando gli mostrai il libretto militare, parve che un’ombra di entusiasmo patriottico sfiorasse anche lui.” (p. 92)

 

“Presentai i miei documenti, il libretto militare dell’esercito francese, il passaporto; per due anni avevo vissuto senza documenti, ero stato solo un numero, 22595; ora quei due documenti stampati, scritti, timbrati mi restituivano la sensazione di una certa individualità, che stranamente mi riempiva di orgoglio.” (p. 97)

 

Glauser letterato, lavapiatti intellettuale, fa ammenda per le sue mancanze. Mentre Orwell rende esplicito in molti passaggi il rapporto tra “onestà” e disonestà indotta dalla povertà – “Onesto! onesto! Si è mai sentito che un plongeur sia onesto?” D’un tratto mi prese per il bavero della giacca e mi parlò con grande serietà: “Mon ami, hai lavorato lì dentro tutto il giorno. Hai visto cos’è il lavoro d’albergo. Credi che un plongeur possa permettersi di avere un onore?” – Glauser, a differenza che in altri suoi testi, non imposta un discorso legato alle difficoltà economiche, e non cerca nessun capro espiatorio, né vuole farsi in alcun modo portatore di una morale. Arriva con chiarezza dove deve arrivare, cioè al suo compiere scelte indotte ed eterodirette: è un’eterodirezione reale, ma che nessuno può localizzare perché è nella sua angoscia, che cerca di trovare la forza di “attendre d’autres jours” come recita la poesia di Maeterlinck che il lavapiatti legge nel suo giorno libero, mentre invece non può che rituffarsi nella paura, la sua condizione esistenziale “staccandola” anche dalla denuncia della povertà. Il furto è un pretesto narrativo per raccontare ciò che è proprio del malessere di Glauser, ma anche di tutti: la tentazione continua di “scegliere” la paura e quindi, una tranquillità effimera al posto del benessere. 

 

 

 

“Ad alcuni può sembrare esagerato, una futile scusa, un eufemismo per un atto che non ne ha bisogno. Eri pigro, si dirà, avevi lavorato fin troppo, non c’era modo di fare abbastanza soldi onestamente per assecondare quell’indolenza, quel vizio, come lo definiscono molti. Per questo hai rubato, sei un ladro. Ma io sono convinto che, nel momento del furto, molti dei cosiddetti ladri occasionali non pensano ai vantaggi che ne trarranno, non pensano di agire solo «d’impulso», come si suol dire, ma sospinti dalla grande paura annidata in ciascuno di noi, sempre pronta a balzare fuori, alimentata dal desiderio profondo di un motivo per crescere, di un’azione che la nutra.” (p. 105)

 

Con questa autodenuncia della sua condizione l’autore chiede dunque un riconoscimento senza appelli né giustificazioni, e che quindi vada al di là della vicenda personale. Un riconoscimento per tutti i drop out, ma anche per chi, pur non essendo “scacciato”, condivide la sensibilità per il mondo e l’umano, e per chi sente che mitigare la gravità e la falsità di certe condizioni non solo non aiuta a uscire dalle brutture, ma affossa la possibilità di percepire ciò che di grande c’è nell’esistenza. Per Glauser, ciò che davvero c’è di grande e potente e vero è il coraggio di riconoscere la fragilità e la resa alla paura e di accoglierle nel novero delle possibili declinazioni umane. Al pari di altre. 

 

E su questo imposterà i romanzi polizieschi che lo hanno reso così famoso, creando un personaggio indimenticabile, il sergente Studer, che non a caso legge Freud e tenta in tutti i modi di portare l’esercizio della giustizia alla connessione tra l’umano e la necessità delle norme sociali. Non un suo alter ego, ma un ideale, qualcuno che Glauser avrebbe voluto incontrare sulla sua strada perché lo fermasse e lo riconducesse a sé, cosa che nessun medico fino in fondo seppe fare. Se cerchiamo precedenti letterari del più importante sergente del Novecento, senza cui tutto il poliziesco contemporaneo – almeno svizzero e tedesco – non si sarebbe sviluppato, ne individuiamo uno proprio nello chef di questo Sul fondo, un racconto più silente e forse meno famoso e discusso, finalmente parte di questa splendida raccolta. 

 

Friedrich Glauser, Dada, Ascona e altri ricordi, Casagrande, 2018, pp. 148. Traduzione di Gabriella de’ Grandi, postfazione di Christa Baumberger. 

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