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La cantante e il pugile / Edith Piaf e Marcel Cerdan: knock-out

18 Luglio 2020

La prima lettera è datata 20 maggio 1949. Scritta a Parigi, s’appresta a prendere il volo per Loch Sheldrake, New Jersey, Stati Uniti d’America. È firmata come lo saranno tutte le altre, con un pronome che attesta la clandestinità della relazione: moi, io. Poteva averla scritta chiunque quella lettera, anche Edith Piaf:

 

Mio adorato,

hai idea di che cosa sia una casa vuota di te?

 

Marcel Cerdan è volato in America il giorno prima. Starà lontano un mese, il tempo di preparare l’incontro a difesa del titolo mondiale dei pesi medi conquistato l’anno prima contro Anthony Zaleski, detto Tony Zale, the Man of Steel, l’uomo d’acciaio. Adesso dovrà vedersela con un altro avversario, un italo-americano dal temperamento focoso che si fa chiamare il Toro del Bronx. Vero nome: Giacobbe LaMotta, detto Jake. Uno che se ne va in giro dicendo: “sono popolare perché non ho paura di morire sul ring, e nemmeno di uccidere”. Un pugile di ben altra caratura rispetto a Tony Zale. Sei anni prima, a Detroit, LaMotta mandò al tappeto Sugar Ray Robinson, allora considerato il miglior pugile di tutti i tempi.

 

Edith in quella prima lettera sembra tramortita. La partenza di Marcel le ha fatto l’effetto di un knock-out:

 

Sono senza reazione, senza un pensiero preciso, senza niente, sono come in attesa di un fatto, di un evento qualsiasi. Al posto del cuore ho angoscia e tristezza. Cucciolo mio, quanto ti amo… Ti amo pazzamente, in modo persino preoccupante!

 

Marcel Cerdan era nato in Algeria ma cresciuto a Casablanca. Negli anni ’40 s’era guadagnato il soprannome bellico di “bombardiere marocchino”. Durante e dopo il conflitto il peso simbolico di Cerdan a torso nudo su un ring non aveva fatto che aumentare. Ecco un colosso di muscoli che nella Francia liberata mena cazzotti e diventa prima Campione d’Europa e poi Campione del Mondo dei pesi medi. Quanto a Edith Piaf, aveva appena fatto dono alla Francia della canzone simbolo del dopoguerra, La vie en rose, e stava per lanciarsi alla conquista dell’America. Inutile dire che se c’era una storia d’amore capace di colpire l’immaginazione dei francesi, era questa.

 

Edith e Marcel s’erano conosciuti in un ristorante di New York nell’ottobre del 1947. Edith stava per debuttare a Broadway, mentre Marcel si trovava in città per il combattimento con il pugile estone Anton Raadik, ultimo passo verso il titolo mondiale. Fu il classico colpo di fulmine. Con un incomodo però: Marcel era sposato e padre di tre figli, Marcel, René e Paul, quest’ultimo nato da appena tre settimane. Incomodo per modo di dire. Edith era una donna cresciuta nella bohème e nella promiscuità della Parigi degli artisti. Un vincolo matrimoniale non le avrebbe certo impedito di accogliere un nuovo amore. Cerdan vinse il combattimento con Raadik ai punti; Edith stentò a fare presa sul pubblico di Broadway. Il critico teatrale del New York Times Brook Atkinson non fu tenero nei suoi confronti: la voce è forte, ma stona con frequenza imbarazzante. Marcel rientrò in Francia mentre Edith restò a New York trovando il tempo, fra un concerto e l’altro, di vincere lo scetticismo degli americani e di sedurre l’attore John Gartfield (pure lui sposato e padre di due bambini), fresco del successo nel film Il postino suona sempre due volte. Donna di fugaci amori lei, tombeur de femmes lui, fisico prestante e bella presenza.

 

 

La storia d’amore fra Marcel Cerdan e Edith Piaf fu una storia clandestina e intermittente. Si consumò fra Parigi – l’appartamento di Edith in rue Leconte-de-Lisle – e gli Stati Uniti. Il tutto in funzione dei rispettivi impegni, le tournée di lei, i campi d’allenamento e gli incontri di lui. Ma anche, sempre di lui, i soggiorni in Marocco, dove ad attenderlo c’erano moglie e figli. La corrispondenza fra Edith e Marcel occupa l’arco di tempo di una di queste separazioni forzate, quella che coincise con il campo di allenamento di lui fra il maggio e il giugno del 1949 negli Stati Uniti. 

 

Marcel risponde alla prima lettera di Edith il 21 maggio:

 

Mia diletta,

vedi, comincio già a scriverti. Mi ero abituato a vederti di continuo e non pensavo che un giorno tu potessi lasciarmi. È terribile, sai?

 

Marcel sta facendo uno sforzo. Scrivere delle lettere non è il suo forte, ma si tratta di tener fede alle promesse fatte a Parigi. La prima a invocare un corpo a corpo è proprio Edith (lettera del 20 maggio):

 

Stringimi col pensiero fra le tue braccia.

 

Marcel, da combattente, non chiede di meglio:

 

Ti amo come un pazzo, amore mio. Io, che mi stringo forte a te. (lettera del 21 maggio)

 

Nel corso di quell’interminabile mese di lontananza il desiderio reciproco si esplicita in un crescente anelito di abbracci – di amplessi, via, non giriamoci intorno – che si fanno vieppiù robusti. In particolare è Marcel a mettere Edith all’angolo, round dopo round:

 

Ti stringo forte fra le mie braccia (lettera del 22 maggio);

Ti stringo forte fra le mie braccia fino a farti male (lettera del 24 maggio);

Oh, quanto male ti farò, stringendoti fra le mie braccia, oh sì, molto, molto forte (lettera del 25 maggio);

Penso al ritorno in Francia quando sarò fra le tue braccia, sentirò il tuo profumo e toccherò quella pelle che tanto mi attira (lettera del 26 maggio);

Ti stringo fra le mie braccia tanto quanto t’amo (lettera del 27 maggio);

Ti prenderò, ti stringerò forte fra le mie braccia e ti abbraccerò con amore (lettera del 30 maggio);

Ti amo sempre più e ti stringo molto molto forte contro di me (lettera del 1. giugno);

Mi stringo tutto contro di te, ma insomma, lo sai (lettera del 2 giugno);

Ti schiaccerò sotto i miei baci e le mie carezze (lettera del 4 giugno).

 

 

Marcel, da pugile, sa che un avversario va logorato ai fianchi. Un pugno è un pugno. Sempre uguale. Sarà la somma dei colpi a fiaccare la resistenza. Edith si decide infine a rispondere per le rime:

 

Che le tue mani adorate si posino su di me, e che le tue braccia mi stringano fino a morirne. Dammi la bocca, amore mio (lettera del 31 maggio).

 

A tratti affiora il fantasma della sottomissione, una sottomissione codificata dentro il quadro del gioco erotico a due, né più né meno di come Marcel saltella sulle punte facendo suo il ruolo del bruto:

 

Il mio cuore, la mia anima, il mio corpo, tutto ti appartiene (lettera di Edith del 2 giugno);

Farò tutto ciò che tu vuoi io faccia (lettera del 3 giugno);

Abbandonerei tutto per te, rinnegherei tutto per te. Ti amerei chiunque tu fossi, anche un assassino (sempre dalla lettera del 3 giugno);

Quale potenza e dominio hai su di me (lettera del 10 giugno);

Sono la tua schiava, la tua serva, la tua maîtresse (…). Arrivederci mio piccolo maestro adorato, mio Signore così grande (sempre dalla lettera del 10 giugno).

 

Everybody has a plan until they get punched in the face (tutti hanno un piano finché non si beccano un cazzotto in faccia). È una frase attribuita al pugile americano Mike Tyson. Quale fosse il piano prima della partenza di Marcel per gli Stati Uniti, è ormai chiaro che la lontananza sta facendo lievitare il desiderio. Parlano anche d’altro, Edith e Marcel, ma ciò che emerge dal loro epistolario è un rapporto di natura prettamente fisica. Non dimentichiamo che Marcel si trova negli Stati Uniti per preparare un incontro di boxe e per tenere il peso entro i limiti della categoria. Si allena tutti i giorni, sul ring e nei boschi del New Jersey. Nella lettera del 29 maggio, assumendo i panni del personal coach, Marcel scrive:

 

Non immagini che razza di doping siano per me le tue lettere. (…) Sono soprattutto felice che tu abbia ritrovato la voce. Ma non ti devi fermare. Devi continuare a lavorare.

 

Edith era uno scricciolo di donna (piaf, nel gergo parigino, sta per passerotto), mentre Marcel è un bombardiere marocchino che non riesce a capacitarsi di come la Môme Piaf abbia potuto perdere la testa per un bruto che fa il pugile (lettera del 30 maggio). Edith è l’artista che si prova a introdurre Marcel ai capolavori della letteratura, mentre Marcel si ostina a sfogliare fumetti steso sul divano. Siamo dentro una storia d’amore, lo scarto intellettuale fra i due non conta, ma quando emerge, Edith lo piega abilmente al gioco di coppia: 

 

 

Credo che lo spettacolo farà il botto. Lo sai come si scrive botto? (tonnerre, tuono in francese. Edith scrive erroneamente “tonerre”, ndr) Non è male “tonerre” scritto così, ti pare? Mio piccolo ragazzo adorato, scherzo per evitare le cose serie… (lettera del 9 giugno).

 

Nel tempo libero Edith sferruzza. Sta lavorando a un pagliaccetto per Paul, il terzogenito di Marcel. L’adulterio non la preoccupa, a condizione che non metta a repentaglio il matrimonio di Marcel. Di mezzo ci sono pur sempre dei bambini. Edith va a messa ogni mattina e si comunica. È devota di Santa Teresa e ha cucito un’immagine della santa sulle mutande che Marcel indossa sotto i pantaloncini durante gli incontri. Anche Marcel è credente. Prima di ogni combattimento si fa il segno della croce. A un certo punto, fra i due, s’insinua un dubbio, il tarlo della gelosia. Da un lato Marcel si lamenta perché Edith, a Parigi, va a teatro e fa la bella vita, dall’altro lei viene a sapere che Marcel è stato invitato a colazione da Mae West, la quale vorrebbe girare un film con lui, e lo rimprovera di non avergliene parlato. Non ti preoccupare, la rassicura lui, ha sessant’anni (gran bella rassicurazione, verrebbe da aggiungere: e se di anni invece ne aveva trenta?). Scaramucce fra amanti. Punzecchiature. Tutto si sistema con una parola dolce e la promessa di stritolarsi al più presto in un abbraccio.

 

L’ultima lettera di Edith prima dell’incontro è datata 13 giugno. Marcel è in volo verso Detroit, dove di lì a tre giorni incontrerà il Toro del Bronx. È concentrato, sicuro delle sue possibilità e della propria forza. Si presenta sul ring con l’immagine di Santa Teresa cucita sulle mutande come da copione. Niente sembra in grado di fermarlo. Suona il gong e LaMotta si avventa come una furia su Marcel. Senza capire bene come, Marcel si ritrova subito al tappeto e nel cadere si lussa la spalla sinistra. Si rialza e avverte il dolore. Stringe i denti e porta a termine il primo round. All’angolo i secondi lo implorano di ritirarsi ma Marcel rifiuta: “se gettate la spugna, mi uccido”. Combatte per altri nove round con un braccio solo, ma al decimo l’arbitro decide di interrompere il combattimento: vittoria per Jake LaMotta. L’incontro rimane nella storia, anche in virtù della memorabile sequenza girata da Martin Scorsese nel film Toro scatenato, con Robert De Niro nei panni di Jake LaMotta. Marcel è affranto. Rientra in Marocco con un unico pensiero: chiedere la rivincita a LaMotta per riprendersi la cintura di Campione del Mondo. Nell’attesa trova il tempo di girare un film a Roma con Mario Monicelli (Al diavolo la celebrità). Quanto a Edith, dopo un soggiorno a Parigi torna a New York per una serie di concerti. Siamo nel settembre del ’49. La rivincita con LaMotta è fissata per il 2 di dicembre. Marcel si predispone a raggiungere gli Stati Uniti via mare, ma Edith lo vuole subito accanto a sé. Lo implora di raggiungerla al più presto con l’aereo:

 

Ti amo così profondamente da esserne ossessionata giorno e notte. Vieni a interrompere le mie angosce e sarò interamente tua (lettera di Edith datata 24 settembre 1949).

 

 

Marcel cede infine alle insistenze di Edith e il 27 ottobre si imbarca a Orly sul volo Constellation FBA-ZL diretto a New York. L’aereo decolla alle 21.06. Nella notte, dopo poche ore di volo e nel tentativo di atterrare all’aeroporto di Santa Maria, il velivolo si schianta sul picco Redondo, nell’arcipelago delle Azzorre. Degli 11 membri dell’equipaggio e dei 37 passeggeri a bordo, Marcel compreso, non sopravvive nessuno. La notizia raggiunge subito Parigi e New York, e nel giro di poche ore è sulle prime pagine di tutti i giornali. Marcel è una celebrità. La sua scomparsa suscita profondo cordoglio nel mondo intero. La sera successiva allo schianto Edith ha in programma un concerto a New York. Benché sconvolta dalla notizia decide di salire sul palcoscenico. The show must go on, come dicono da quelle parti. Mesi prima, quando l’amore con Marcel stava sbocciando, aveva composto a quattro mani con Marguerite Monnot, sua fedele compagna di spartito, una nuova canzone, Hymne à l’amour. Quella sera, nello stato d’animo che è facile immaginare, la canta per lui:

 

Si un jour la vie t’arrache à moi

Si tu meurs que tu sois loin de moi

Peu m’importe si tu m’aimes

Car moi je mourrais aussi

Nous aurons pour nous l’éternité

Dans le bleu de toute l’immensité

Dans le ciel plus de problèmes

Mon amour crois-tu qu’on s’aime?

 

(Se un giorno la vita ti strappasse a me

E tu morissi trovandoti lontano

Poco m’importerebbe che tu m’ami

Perché anch’io ne morirei

Avremo per noi l’eternità

Nell’azzurro di tutta l’immensità

Nel cielo, senza più problemi

Amore mio, lo credi che ci amiamo?)

 

 

Terminata la canzone, Edith crolla a terra e viene trasportata in camerino. Non riuscirà a chiudere il concerto, ma dopo di allora canterà sempre quella canzone dedicandola a Marcel. Quel loro amore impossibile, segnato a fuoco dalle parole profetiche che Edith aveva scritto mesi prima, farà epoca. Claude Lelouch vi dedicherà un film. Joni Mitchell una canzone. Nel film biografico La môme (La vie en rose), Olivier Dahan filmerà una sequenza da brividi per illustrare l’annuncio della morte di Marcel fatto a Edith.

 

Edith e Marcel. Due icone del Ventesimo Secolo. Lei, la cantante più amata di Francia, il passerotto di Belleville, il corpo esile e la voce di tempesta che scoperchia ogni nostra difesa. Lui, il combattente più popolare, colui che aveva restituito dignità ai francesi, il miglior pugile europeo di sempre, stando a Jake LaMotta. Entrambi di umili origini, entrambi diventati delle star planetarie, uniti da una passione travolgente finita in tragedia. Si dice che qualcosa in Edith, dopo di allora, si spense. Ebbe altri amanti, si sposò due volte, cantò per molti anni ancora, finché ne ebbe la forza, ma Marcel fu il grande amore della sua vita. Restava la sua minuta silhouette al centro della scena, un proiettore impietoso ad illuminarla. Al suo gesto discreto partiva l’orchestra. Poche note conosciute e infine quella voce, un uragano di fronte al quale si è sempre impreparati, e che oggi come allora toglie il respiro.

 

Edith Piaf, Je ne regrette rien (Marion Cotillard, premio Oscar 2008, nei panni della Piaf)

 

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