“I figli impossibili della nuova era” / Peter Sloterdijk. Contro il principio genealogico

18 Aprile 2019

Dopo l’uscita di Devi cambiare la tua vita (in edizione tedesca nel 2009, in traduzione italiana, per i tipi Raffaello Cortina, nel 2010) Peter Sloterdijk ha pubblicato molto, ma, si potrebbe dire, scritto poco a livello strettamente “scientifico”. Tutti i libri di una certa consistenza usciti in seguito al 2010, infatti, sono raccolte di saggi d’occasione, magari integrati con qualche articolo inedito (come nel caso di Che cosa è successo nel XX secolo? edito in Italia da Bollati Boringhieri, e Dopo Dio, pubblicato in traduzione da Cortina), oppure scritti che esulano dai crismi canonici della prosa filosofico-scientifica, come il romanzo erotico Das Schelling-Projekt (2016) e il secondo volume dei suoi diari personali Neue Zeilen und Tage (2018).

Fa eccezione il testo uscito nel 2014 in Germania e recentemente (2018) in traduzione italiana per Mimesis con il titolo I figli impossibili della nuova era, che si può considerare l’unico vero testo teorico sistematico composto da Sloterdijk dopo Devi cambiare la tua vita, e che ne rappresenta, in qualche maniera, il logico sviluppo.

 

Il testo monumentale (più di 400 pagine) che il lettore si trova ad avere tra le mani è, come spesso accade per Sloterdijk, una narrazione sia filosofica che storico-culturale vertiginosa, che taglia vari secoli della storia occidentale. In questo, rispetto ad approcci sia storici che filosofici più classici, Sloterdijk resta un unicum, per la sua capacità di intrecciare una narrazione della longue durée con acute ipotesi filosofiche (che, per quanto spesso azzardate, risultano altrettanto spesso, se non totalmente convincenti, quantomeno produttive) sui motivi e sulle modalità di sviluppo della nostra civilizzazione. 

Anche in questo caso, come ad esempio era accaduto in precedenza con la trilogia di Sfere (1998-2204), tutto il testo di Sloterdijk si basa su un’audace ipotesi sullo sviluppo culturale della nostra civiltà. 

Con questo termine – “civiltà” – è, infatti, possibile per Sloterdijk (che lo mostra fin dal terzo volume di Sfere) definire quella forma di vita risultato della cosiddetta (e ancora dibattuta) “rivoluzione neolitica”: vale a dire il processo post-paleolitico di sedentarizzazione delle comunità umane, che ebbe come conseguenze civilizzatorie a lungo termine l’introduzione dell’allevamento, dell’agricoltura, i culti dei morti e – secondo alcuni studiosi – anche la nascita della scrittura (utilizzata originariamente per il computo delle derrate alimentari in un contesto proto-agrario). Con la rivoluzione neolitica si impose anche il pensiero della continuità generazionale, del legame di sangue tra famigliari, che – invece – in precedenza, era molto più un legame nei confronti dei membri dell’orda nomade di cui si faceva parte. In particolare, la famiglia, nella sua estensione temporale che prevede anche l’inclusione degli antenati e dei discendenti, diventa il cardine del processo di civilizzazione, almeno fino al Medioevo cristiano, basato secondo Sloterdijk (che qui usa come pivot teoretico la teoria dell’ereditarietà del peccato originale di Agostino) sull’idea di continuità tra le generazioni di peccatori, che è possibile ricostruire fino all’origine adamitica.

 

Cosa succede, poi, con la Modernità? È questa la domanda che anima tutto il libro di Sloterdijk, a cui la risposta – se riassunta in uno slogan – potrebbe suonare più o meno così: Con la Modernità non solo abbiamo ucciso Dio (come insegna Nietzsche), ma abbiamo anche incominciato a eliminare i padri. 

Detto in maniera meno criptica: nella Modernità ha inizio un’epocale rivolta anti-genealogica, ossia il tentativo di emancipare l’individuo dalla catena di continuità che lo collegava in maniera stabile alle generazioni precedenti, inscrivendo il destino dei figli nei solchi – sempre più profondi – segnati dalla vita e dalle opere dei padri. Sloterdijk, nel corso del libro, più che dimostrare questa tesi, la mostra: il testo è, infatti, costruito come una grande galleria di figure che incarnano lo spirito della rivolta anti-genealogica della modernità, che va da Madame de Pompadour (a cui viene attribuita la frase “Après nous le déluge”, una sorta di “No future” ante litteram, solo in salsa assolutistica), passa per Napoleone, Cristo, Hugo Ball e arriva fino a Sade, Emerson, Stirner e noi tutti, infine. 

Cos’è che ci unisce, in quanto “più moderni tra i moderni” (per parafrasare Pasolini) a tutti i personaggi sovraelencati? È semplicemente un’idea: quella per cui noi possiamo essere diversi dai nostri genitori, dai nostri antenati, ossia separarci dalle pre-condizioni genealogiche che ci hanno segnato al momento di essere gettati in questo mondo.

 

È un elogio del “bastardismo”, come lo stesso autore lo definisce, quello di Sloterdijk, ossia dei figli illegittimi, degli enfant terribles, di coloro i quali si sono fatti strada nel mondo malgrado le origini incerte da matrimoni extraconiugali, l’assenza di padri nobili, le origini umili (o più che umili) soprattutto nel periodo di sconvolgimenti storici e di mutazioni epocali che seguì al Medioevo. Non a caso una delle parti più riuscite del libro del filosofo di Karlsruhe è quella conclusiva, dove Sloterdijk presenta una galleria di “illustri sconosciuti” nel senso più vicino al significato letterale dell’espressione che sia possibile immaginare: figliastri di re, fratellastri di principi, figli di concubine più o meno note di papi e dignitari vengono elencati nelle loro straordinarie e poco note gesta, a metà tra l’epico e il picaresco, al fine di dimostrare il punto a partire da cui, a livello storico-culturale, avere un padre (o una famiglia) non è più necessario, se si ha un “braccio destro” sufficientemente potente: è questa l’ironica (ma al contempo potentissima) immagine che usa Sloterdijk sulla scorta del bellettrista francese Vincent Voiture (1598-1648), per indicare che al “bastardo” della modernità non è affatto necessario un padre nobile, ma solo un braccio da mettere in azione, per eseguire grandi opere.

 

 

Come detto in apertura, questo libro è la logica continuazione di Devi cambiare la tua vita, del 2009. Qui Sloterdijk rileggeva la storia della civiltà come la storia dell’esercizio, della messa in moto della vita al fine di migliorare se stessa, in una tensione verticale che secondo l’autore caratterizza l’essere umano nella sua totalità. Siamo animali che si esercitano, che mettono in fila una serie di pratiche, routines, esercizi al fine di modificarsi, e lo fanno anche – paradossalmente – quando non se ne rendono conto e, persino, quando non si esercitano: infatti, in questo caso, ci si eserciterebbe comunque, secondo Sloterdijk, ma in negativo. Se quindi, dal punto di vista antropologico, l’uomo è l’animale che si esercita, dal punto di vista storico egli è l’animale che grazie all’esercizio può fare a meno di essere un discendente, di essere un figlio, di situarsi entro una linea genealogica. Nella sistematica sloterdijkiana, si potrebbe dire, al libro (tripartito) di cosmologia (Sfere) ha fatto seguito un’antropologia (Devi cambiare la tua vita) e ora una storiografia (I figli impossibili della nuova era).

 

Se il libro di Sloterdijk offre – come spesso accade nelle sue opere – un taglio innovativo, brillante e a tratti addirittura geniale per leggere in maniera alternativa la storia della nostra modernità, restano anche dei punti oscuri nella sua ricostruzione. Ad esempio, viene da chiedersi, dove sia da situarsi – in tutta la panoplia antigenealogica della “Modernità” da lui sviluppata – il richiamo genealogico dei fascismi alla razza e al passato (da lui interpretati, invece, come spinte moderniste-antigenealogiche, se pure di segno negativo), così come i vari razzismi che hanno segnato la parte più oscura degli ultimi due secoli. È il concetto stesso di Modernità sloterdijkiano ad essere problematico: non configurandosi come una categoria storiografica esso rischia di non avere un confine netto, se non quello tracciato dall’arbitrio del suo coniatore: «Non si tratta di un secolo calendariale, bensì di uno spazio calendariale aperto: di un’epoca a pieno titolo che, sino a nuovo avviso, prosegue nel futuro, interminabile per motivi ad essa intrinsechi» (pp. 365-366). 

 

Queste difficoltà di periodizzazione, così come le esclusioni tematiche eccellenti, rendono il testo di Sloterdijk, per quanto ricco, innovativo e sicuramente istruttivo anche in qualche modo debole dal punto di vista scientifico, o quanto meno criticabile per la sua arbitrarietà nella scelta delle fonti (come detto, l’autore preferisce fare una galleria di ritratti che presentare l’evoluzione storica del periodo preso in esame, anche a causa dei suoi contorni storiografici poco definiti). Anche lo stile di scrittura di Sloterdijk, in questo (come in altri testi più recenti della sua produzione) può dare un effetto doppio: da un lato entusiasmare per la sua inconsueta capacità di creare nuovi concetti e di risemantizzarne di vecchi, dall’altro spiazzare per una certa difficoltà, che proprio il profluvio di nomi e ritrovati concettuali inediti contribuisce a creare.

 

Anche la traduzione, in questo, non aiuta particolarmente: quello che è stato tradotto per il pubblico italiano con “I figli impossibili della nuova era” suonava in tedesco piuttosto come “Gli enfantes terribles della Modernità” o al massimo “I figli terribili della Modernità”, segnando fin dal titolo la scansione cronologica (per quanto problematica, come visto) interna al libro che invece va perduta in italiano con “nuova era”. Non bastano le molte pagine dell’introduzione, dedicata per buona parte a giustificare la scelta di una traduzione così lontana dal titolo originale, per convincere il lettore che si tratti di qualcosa di diverso da una excusatio non petita. Così come non aiuta la lettura neanche il profluvio di note di traduzione in alcuni punti del testo e la loro totale assenza in altri, che veicola la sensazione di una certa arbitrarietà nelle scelte di curatela, o la ripetizione sistematica di errori nella citazione di nomi propri (Gehlen diventa spesso Gehlend) e dei titoli delle traduzioni italiane dei testi citati (Devi cambiare la tua vita diventa Tu devi cambiare la tua vita).

 

Al di là delle (pur importanti) questioni specifiche relative alla resa del testo va detto però, in ultima battuta, che, malgrado i punti deboli evidenziati, il libro di Sloterdijk rappresenta un’opera centrale per lo sviluppo di pensiero dell’autore – irrinunciabile per lo studioso che si occupi del filosofo di Karlsruhe o delle scienze della cultura tedesche attuali – e di grande interesse per qualsiasi lettore che volesse avere uno sguardo d’insieme su una genealogia alternativa della Modernità: l’epoca dei “bastardi gloriosi” (pp. 321-337), degli enfants terribles e della rivolta antigenealogica di cui tutti siamo – paradossalmente – figli.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO