Giorgio Fabre / Il censore e l'editore. Mussolini, i libri, Mondadori

19 Ottobre 2018

Parlare per quasi 500 pagine del poderoso dispositivo censorio installato da Benito Mussolini negli anni Trenta potrebbe sembrare un inutile passatempo storico-filologico, se non si tiene conto di due aspetti. 

In primo luogo assistiamo oggi a un revival della censura in quasi tutti gli angoli del globo: un paradosso, dopo la caduta del Muro e la diffusione planetaria della rete. Le varie demokrature del pianeta – anche in Europa – ritengono la censura un attrezzo irrinunciabile. Gli archivi di siti come Freedom House, Freemuse o Index in Censorship mostrano come le abituali forme di censura si stiano intrecciando con quelle algoritmiche degli "editori globali" come Google o Facebook e con i wall, i muri digitali di governi come quello cinese, russo o iraniano.

Il secondo elemento notevole è la molla originaria del meccanismo attivato dal Duce, ovvero il razzismo che era il cuore della sua ideologia, come ha evidenziato Giorgio Fabre nel suo puntiglioso e godibile Il censore e l'editore. Mussolini, i libri, Mondadori (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 2018).

 

Nell'Italia liberale la censura era pressoché inesistente, "legata soprattutto all'idea di preservare l'ordine e la morale pubblica" (p. 29). Anche per questo il percorso seguito da Mussolini per imporla fu lungo e tortuoso. Anche l'applicazione delle sue direttive non fu semplice, considerando la rivalità tra le catene di comando e tra le diverse istituzioni, alcune più restrittive e altre più liberali del Duce. Inoltre le limitazioni della libertà di stampa irritavano gli autori colpiti, causavano notevoli danni economici agli editori e rischiavano di attirare le critiche di giornali e giornalisti, anch'essi potenziali vittime di analoghe coercizioni. Arrivavano lamentele e proteste. A volte serviva una regalia per mettere a tacere le vittime, in altri casi i provvedimenti restrittivi erano oggetto di mediazioni che potevano ribaltare le decisioni prese.

La tortuosa manovra mussoliniana subì un'improvvisa accelerazione dopo la pubblicazione di un romanzo rosa, Sambadù, amore negro, firmato dalla rivale di Liala, Mura, assai apprezzata dalle lettrici italiane. Con la circolare del 3 aprile 1934, firmata personalmente, Mussolini fece sequestrare quel volume "razzialmente e sessualmente scandaloso", che racconta l'amore di un'italiana per un uomo di colore. (Oggi nell'era del politicamente corretto nessuno oserebbe utilizzare quel sottotitolo, anche se per ragioni diverse.) Veniva anche imposto agli editori di consegnare alla Prefettura tre copie di qualsiasi pubblicazione, mettendo in atto un sistematico filtro preventivo che nel successivo decennio si fece sempre più feroce, con liste di centinaia titoli proibiti quando le novità editoriali erano poche migliaia ogni anno. 

 

Il razzismo mussoliniano non nacque con le infami leggi del 1938, ma aveva radici molto più antiche e profonde. Al tema Fabre aveva già dedicato un saggio scomodo (almeno per gli storici che si muovono sulla scia di De Felice), Mussolini razzista (Garzanti, Milano, 2005), dimostrando che il Manifesto della Razza non era stato un incidente di percorso dovuto alle cattive compagnie (ovvero allo psicopatico antisemita Hitler) o un ingrediente ideologico tra tanti, ma il fondamento di un ambizioso progetto di purificazione del popolo italiano. La purezza razziale venne sostenuta da un notevole sforzo propagandistico ma anche con misure repressive, per evitare la diffusione del contagio "interazziale". Anche oggi il controllo della sessualità – soprattutto quella femminile – continua a ispirare le aggressive campagne della destra neo-clericale contro aborto, omosessualità, transessualità e nuove genitorialità. 

Mussolini credeva nella centralità del libro. Ne leggeva molti libri e molto in fretta, prendendo molti appunti e in maniera sistematica. Per lui "il complesso di tutti i libri pubblicati rappresentava il paese, e (…) quindi il dittatore doveva assumerne il controllo" e così "indirizzava le pubblicazioni e le traduzioni, offriva contratti, lavorava perfino da editor e correttore di bozze" (p. 13). 

 

Nella sua ambizione di pan-editore Mussolini si scontrò inevitabilmente con un avversario di peso, che era cresciuto come lui nell'ambito del socialismo. In pochi anni Arnoldo Mondadori, dopo aver iniziato la carriera imprenditoriale stampando opuscoli sindacali a Ostiglia, era diventato il più importante e "moderno" editore italiano. Aveva allargato il suo pubblico traducendo diversi best seller, ma anche pubblicando il controverso Dux di Margherita Sarfatti, l'amante intellettuale ed ebrea del biografato, al quale il volume creò qualche imbarazzo. L'affare si chiuse definitivamente solo nel 1939, quando Mussolini ordinò di "togliere dalla circolazione" tutti i libri della Sarfatti. 

I rapporti della Mondadori con il fascismo furono intricati, con inevitabili complicità e compromessi, ma anche con grandi guadagni, a cominciare dall'editoria scolastica. Ci furono operazioni prestigiose come l'opera omnia del Vate Gabriele D'Annunzio, ma la Mondadori mantenne una certa autonomia. Arnoldo rifiutò con garbo di pubblicare la traduzione italiana di Mein Kampf richiesta e sostenuta da Mussolini, che voleva così finanziare obliquamente la campagna elettorale di Hitler (la traduzione venne pubblicata da Bompiani, come ha raccontato lo stesso Fabre nel Contratto. Mussolini editore di Hitler, Dedalo, 2004).

 

Quella tra il Censore e l'Editore fu una lunga guerriglia, fatta di mosse e contromosse. L'autocensura scattò quasi subito: nei romanzi gialli i suicidi – che Mussolini aveva fatto scomparire anche dalla cronaca nera sui quotidiani – vennero sistematicamente sostituiti da incidenti d'auto o morti naturali a opera dei solerti traduttori e redattori. 

Nessuno dei due contendenti poteva permettersi uno scontro frontale. Le strategie si fecero via via più complesse. Quando l'editore si trovò nel dubbio se pubblicare o meno un romanzo sgradito o dal dubbio destino commerciale, pensò di chiedere l'autorizzazione a tradurlo con una scheda che avrebbe quasi sicuramente spinto i censori a bloccare la pubblicazione. Capitò con Katrin Holland: "Se viene un no, non lo hanno neppure le altre case", scrisse una consulente di prestigio come Lavinia Mazzucchetti.

Nella sua ricostruzione Fabre intreccia le schede di lettura editoriali con le note di mano del Duce sui libri che leggeva, con le notizie di stampa e con i documenti degli organi di controllo. Da questo puntiglioso collage emerge la ragione strutturale del conflitto. Da un lato c'era l'ambizione del dittatore, che voleva educare e ammaestrare il popolo, evitandogli il contatto con idee ed esempi socialmente e moralmente pericolosi. Lo fronteggiava un imprenditore che voleva dare ai suoi clienti ciò che desideravano, a prescindere da qualunque giudizio politico o etico. La censura di un potenziale best seller limitava i guadagni e andava dunque evitata. In questa prospettiva Mondadori appare assai più moderno del suo rivale politico. 

 

A scontrarsi in quegli anni furono due visioni divergenti della cultura. La prima è pedagogica e pretende di costruire cittadini migliori, avendo individuato l'obiettivo e il metodo. La seconda è basata sulla libera scelta del consumatore e rifiuta per principio limitazioni e filtri. Arnoldo sapeva d'istinto che si può consumare qualunque cosa per i motivi più vari. Il suo problema era individuare i prodotti desiderati dal maggior numero di consumatori possibile e poi commercializzarli nella maniera più efficace. Simmetricamente, come dimostra Il censore e l'editore, il dispositivo della censura poteva colpire qualunque libro per qualsiasi motivo. Questo potere di veto ebbe un effetto intimidatorio su autori ed editori. E Mussolini sapeva bene che la censura rischia di trasformare la sua vittima in eroe e che dunque la forma più efficace di censura è l'autocensura. L'opportunismo della grande maggioranza degli intellettuali italiani fece il resto. 

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