Naturale e innaturale / Teocologia. I peccati dell’immaginario ecologico

14 Novembre 2019

Osservando l’evoluzione della cultura ecologica e del suo immaginario nell’arco degli ultimi trent’anni può essere interessante affiancarla, con le dovute cautele e proporzioni, a quella del cristianesimo. Potrebbe apparire azzardato o fuori luogo, ma i punti di contatto sono notevoli e risulta interessante approfondirli anche solo come esperimento teorico. Entrambi i movimenti partono in sordina, le prime riunioni sono quasi segrete, fra pochi adepti, il sistema sociale esterno è assolutamente indifferente, quando non palesemente contrario, entrambi vengono inizialmente trattati come una delle tante sette bizzarre che nascono come funghi in ogni epoca. Nell’uno e nell’altro caso le interpretazioni, le soluzioni, le proposte di vita e di comportamento sono molteplici, variegate e a volte in palese contraddizione fra loro. 

 

In entrambi i casi la situazione cambia completamente col cambio di scala, nel cristianesimo quando da setta minoritaria diventa religione di stato, nell’ecologia quando viene assorbita dal sistema industriale. In altre parole, quando il potere costituito si appropria dell’ideologia, questa viene ripulita dalle frange considerate estremiste e si rinforzano le tendenze che gli risultano utili. In entrambi i casi molti dei principi iniziali vengono abbandonati e l’attenzione si concentra sul mantenimento del potere politico ed economico. Per il cristianesimo è il IV secolo il momento del passaggio, con l’editto di Milano di Costantino del 313 e il consiglio di Nicea del 325, dove vengono prese decisioni che tagliano fuori per esempio tutte le varianti gnostiche e si dà una direzione precisa alla futura teologia. Per l’ecologia è il primo decennio degli anni Duemila, il sistema industriale, alla ricerca di nuovi mercati, comincia a guardare agli argomenti della cultura sostenibile che nel frattempo è cresciuta d’importanza e promette di essere un’ottima fonte di nuovi guadagni. Anche qui tutti gli gnostici vengono eliminati e ci si concentra sui principi in grado di non scalfire il dogma che sta alla base del sistema: la circolazione del denaro, che ha nel comprare il suo rito fondamentale, e nei consumatori i suoi fedeli. Quando l’ecologia passa nelle mani del potere economico, è solo di denaro che si inizia a parlare. Le parole d’ordine diventano quelle che usa: consumo e risparmio. È così che la portata potenzialmente rivoluzionaria della prima cultura ecologica viene assorbita, neutralizzata e reindirizzata. 

 

Qui sta un nodo importante. La cultura ecologica indica esattamente nel sistema industriale e della sua ideologia neoliberista il principale responsabile dei maggiori problemi di cui si occupa, dall’inquinamento al deterioramento dell’ambiente e della salute degli individui. Non è possibile negarlo, ma è possibile distrarre l’attenzione puntandola su alcune soluzioni proposte dalla stessa ecologia, mettendo in secondo piano tutte le altre fino a farle scomparire. Sono quelle che possono rientrare perfettamente nelle logiche industriali. I nuovi principi sono: primo, mai smettere di produrre, ma farlo con altri materiali, recuperare i prodotti morti, riciclarli e rimetterli in produzione; secondo: affiancare ai metodi tradizionali di produzione di energia altri modi, quindi costruire nuovi macchinari, reti distributive e sistemi per farla funzionare. La base non viene sfiorata, il pilastro su cui si regge il sistema è l’azione del comprare, quindi si cambia il cosa, l’offerta si diversifica e si introducono i prodotti virtuosi, quelli che servono a salvare il pianeta. 

 

Tintoretto, Caino e Abele, 1553.


Mentre il potere economico si organizza per trarre beneficio dai danni da lui stesso causati, l’immaginario ecologico continua ad attingere a uno dei modelli più sperimentati e sicuri che abbiamo in occidente, quello fornito dagli sviluppi del cristianesimo. Da qui sono mutuati linguaggi, comportamenti, visioni, finalità e l’immaginario di base, quello della rinuncia e del sacrificio. Il modello è talmente palese che diventa difficile non vederlo, in primo luogo nella trasparente identità del linguaggio usato. Ci sono santi, martiri, fedeli, integralisti e ortodossi, si parla di comportamenti virtuosi, ci sono comunità che si riuniscono, magari sui social, e gareggiano a chi è più virtuoso, facendo a gara nell’esibire sacrifici, nel darsi regole ferree e quanto più restrittive sono, tanto più grande sarà la virtù conquistata. Ci sono le discussioni sul sesso degli angeli con chi ci tiene a differenziare ecologia da sostenibilità e da tutte le possibili sfumature. Come nel modello originale, si tende a qualcosa di alto e irraggiungibile, anzi, più virtuoso ancora, non più la salvezza della propria anima, ma quella dell’intero pianeta. Ci si sente investiti di una responsabilità sovrumana, partecipi di un’impresa epica, memorabile e con quel retrogusto donchisciottesco che rende più saporita ogni azione. Ci fossero ancora dubbi, basterebbe notare che il fine ultimo, per entrambi i sistemi di pensiero, è il medesimo, espresso con le stesse parole: la salvezza dell’umanità. 

 

In realtà non è solo l’ecologia a essere irrimediabilmente impregnata dall’immaginario creato dalla mitologia ebraico-cristiana. Lo storico inglese Daniel Lord Smail nel suo libro Storia profonda, il cervello umano e l’origine della storia (Bollati Boringhieri 2017), sostiene che la stessa narrazione consolidata della nostra storia ha una forma ricalcata sulla mitologia ebraico-cristiana che fa iniziare il mondo intorno al 4.000 a.C.. L’Eden del Genesi ora si chiama mezzaluna fertile e continua la sua azione oscurante su quanto avvenuto prima rallentando il riconoscimento della nostra vera storia. Smail parla di storia profonda, con l’idea che se è l’umanità il soggetto della storia, allora il tempo che precede la diffusione dell’agricoltura, il Paleolitico, non solo ne fa parte integrante, ma ne costituisce quantitativamente, e probabilmente qualitativamente, la parte più importante. Secondo Smail, il potere ha sempre prediletto il vecchio rassicurante racconto biblico, opportunamente secolarizzato, per il mito politico che contiene: “senza leader, l’uomo paleolitico era condannato a vivere in un mondo senza storia; appropriatamente sottomessa al giogo benevolo di colte e lungimiranti élite, l’umanità poté ascendere i gradini della civiltà.”

 

Negli ultimi anni molti analisti che si stanno occupando delle questioni sollevate dalla cultura ecologica, in particolare dell’impatto negativo dell’azione umana sulla Terra, indicano nel sistema industriale e nell’ideologia che lo sostiene una delle principali cause. Ma questo sistema è una delle conseguenze dirette della cultura nata dal passaggio dalla cultura paleolitica a quella neolitica, è nel Neolitico che vanno cercate le radici dell’atteggiamento che ci porta a considerare la terra come una nostra proprietà. Nella mitologia ebraico-cristiana della Bibbia c’è un passaggio illuminante in questo senso, che spiega con esattezza da dove deriva l’atteggiamento occidentale nei confronti del mondo. “Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la Terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra.” (Genesi, 1,28). È avvenuto il passaggio. L’uomo non è più parte della natura, ne è al di sopra, Dio stesso gli ha dato il permesso di soggiogare la terra e ogni essere vivente.

 

Per la Bibbia il passaggio all'agricoltura è siglato con un omicidio, con l’assassinio di un pastore, Abele, da parte di un agricol­tore, Caino. Il suo nome deriva dalla radice knh, possedere, ed è connesso con kna, invidiare. Caino è necessariamente un assassino, un bugiardo, un prodotto della necessità dell'avere insita nell'agricoltura e assente nell’es­sere del cacciatore/pastore/nomade i cui averi coincidono con le sue capacità, conoscenze o con possedimenti mobili come gli animali. È significativo notare come a Caino sia attribuita anche la fondazione di una città, (Genesi, 4,17) la prima città che compare nella Bibbia, da cui alcuni ritengono sia da considerarsi la prima città in assoluto. Quindi nella Bibbia il primo agricoltore e il primo fondatore di città, e continuando coi primati, il primo proprietario e il primo fratricida, coincidono in una figura sola. Costruire e coltivare si mostrano come espressione di una medesima volontà, due facce della stessa medaglia, e si rivelano come innaturali, sono atti contro la natura e richiedono una giustificazione, un sacrificio cruento come in molte altre culture, dove qualsiasi costruzione umana per poter durare deve essere animata, deve ricevere una vita e un’anima per mezzo di un sacrificio di sangue. 

 

Parlando di ecologia, è necessario prendere in esame l’idea di natura. I nostri concetti di naturale e innaturale sono solo apparentemente legati a verità di tipo biologico, in realtà sono molto più influenzati dalla teologia cristiana. Il significato teologico di naturale è di essere consonante con gli intenti di Dio, che ha creato la natura. Nel corso del tempo i teologi cristiani hanno modellato un sistema in cui c’è un Dio che ha creato il corpo umano in modo che ogni organo serva a un particolare scopo. Se usiamo i nostri organi e membra per gli scopi previsti da Dio, svolgiamo un’attività naturale, altrimenti è innaturale. In questo sistema la natura è una creazione di Dio, quindi buona, l’uomo invece, avendo disobbedito dall’inizio dei tempi, è peccatore e quindi responsabile del male. Come risultato, abbiamo da una parte la natura buona e dall’altra l’uomo cattivo. Questo è il desolante e insidioso substrato su cui proliferano la maggior parte delle ideologie ecologiste, naturiste, vegane e della decrescita. È una specie di virus invisibile e confortante che ha infettato profondamente ogni idea che riguarda la natura in Occidente, soprattutto quei sistemi che non si professano cattolici. Possiamo riconoscerlo molto facilmente, è ovunque si presenti la dicotomia natura buona/uomo cattivo. La parola natura è ormai inutilizzabile, talmente è infettata nel profondo.

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